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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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12/02/2012 18:57
 
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CAPITOLO SETTIMO


PAOLO PALESA IL SUO AFFETTO

[1]In possesso dunque di queste promesse, carissimi, purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito, portando a compimento la nostra santificazione, nel timore di Dio.
Vengono enumerati quattro principi che devono sempre rimanere fissi nella mente del cristiano:
In possesso di queste promesse. Le promesse sono i doni della redenzione operata da Cristo Gesù e che sono per noi non più promesse, ma realtà.
Noi siamo nella pienezza dei doni divini. Ogni promessa di Dio è diventata sì in Cristo Gesù. Tutto in Cristo ci è stato dato. Nulla deve esserci più dato. Non manchiamo veramente di nulla.
La grazia e la verità di Cristo Gesù sono state riversate abbondantemente nei nostri cuori e ci hanno trasformato grazie all’opera redentrice, santificatrice, rinnovatrice dello Spirito Santo.
Nessuno deve attendere altro, aspettare altro, pensare che ci sia qualcosa che il Signore ancora non ci ha donato, o che ci sarà data in avvenire. I doni di grazia sono perfetti, completi, definitivi.
Purifichiamoci da ogni macchia della carne e dello spirito. Dio in Cristo per mezzo dello Spirito Santo ha compiuto l’opera della nostra giustificazione.
Ora è il tempo dell’uomo. Spetta ad ogni uomo lasciarsi conquistare da Cristo e dalla sua verità, immergersi nella sua grazia e santità, compiere il cammino della perfetta purificazione.
Siamo, viviamo e dimoriamo in un corpo di peccato, possediamo uno spirito che è stato inquinato dal male.
Con la forza dello Spirito Santo dobbiamo acquisire la perfetta purificazione di ogni residuo di male che rimane sia nel nostro corpo che nel nostro spirito.
Il corpo deve essere portato alla completa libertà da ogni concupiscenza e attrazione naturale verso il male.
Lo spirito deve essere liberato da ogni superbia e vanità, da ogni pensiero non perfettamente consono ai pensieri di Dio. La volontà deve essere tutta donata al Signore perché solo i suoi comandamenti e i suoi precetti vengano attuati, realizzati, compiuti.
È un cammino questo faticoso, lungo, arduo. Lo si può compiere solo con la forza e la luce dello Spirito Santo che quotidianamente noi invochiamo perché ci trasformi in tutto ad immagine di Cristo Gesù, dell’Uomo perfetto, nel quale non c’è macchia di peccato, né nel suo corpo che rese perfetto attraverso le cose che patì e né nel suo spirito che consegnò tutto al Padre suo sulla croce.
Il cammino della purificazione del nostro corpo e del nostro spirito deve essere quotidiano. Giorno per giorno dobbiamo rendere sia il corpo che lo spirito liberi da ogni influsso del male e per questo dobbiamo chiedere al Signore che lo adorni delle sante virtù.
Portando a compimento la nostra santificazione. È questa la vocazione del cristiano. Ma che cosa è la santificazione?
La nostra fede confessa che solo Dio è il Santo e solo Lui la fonte di ogni santità.
Portare a compimento la nostra santificazione significa trasformarci ad immagine del Santo, farci a somiglianza di colui che è il tre volte Santo.
La santità in Dio è la sua natura, che è verità, carità, amore, comunione, dono perfetto di sé.
Il cristiano si fa santo ad immagine della santità di Cristo. Cristo è la santità storica di Dio. È ad immagine di Cristo che ognuno di noi deve farsi.
Cristo è la santità crocifissa, immolata, sacrificata, donata per amore. In Lui la santità è dono di redenzione e di salvezza, è offerta della propria vita perché il mondo si salvi e ritorni a Dio.
Portare a compimento la nostra santificazione ha un suo significato particolare, del tutto speciale, singolare. Dobbiamo divenire in Cristo strumento di salvezza per il mondo intero, in Lui dobbiamo lasciarci donare dal Padre per il compimento della redenzione del mondo.
Portare a compimento la nostra santificazione equivale a donare tutto di noi a Dio: corpo, anima e spirito, pensieri e volontà, sentimenti e cuore perché il Signore ne faccia uno strumento utile per operare nel mondo la salvezza.
C’è un concetto nuovo di santificazione che il cristiano deve apprendere. La santità secondo il Nuovo Testamento, ma anche secondo l’Antico, non è la ricerca di una perfezione personale come fine a se stessa.
La santità cristiana è invece togliere la nostra vita a noi stessi, portarla nella luce del Signore, ma non per noi stessi, ma per gli altri, portarla nel Signore, per darla al Signore, perché il Signore attraverso di essa generi salvezza nel mondo.
La santità del cristiano è portata a compimento nel momento in cui il Signore può servirsi della nostra vita per la conversione dei cuori. È perfetta quella santità che non toglie neanche un attimo al Signore per il compimento della sua volontà; è sempre imperfetta quella santità nella quale Dio non ha piena disponibilità; può operare ma con molti limiti, poiché non sempre l’uomo è disponibile per il Signore.
Su questa nuova modalità di comprendere e di attualizzare la nostra vocazione c’è tanto da dire, soprattutto tanto da modificare.
Dobbiamo cambiare tutto di noi, soprattutto dobbiamo pensarci in Dio e come dono di Dio andare nel mondo per operare quello che Cristo ha fatto: l’immolazione della propria vita, perché lo Spirito del Signore venga effuso nei cuori, li converta e li attragga a sé, in una comunione di amore e di verità, dopo la trasformazione della nostra natura che avviene nel sacramento del battesimo nel dono dello Spirito Santo.
Nel timore di Dio. Nel timore del Signore ha un solo significato: cercare sempre e comunque la volontà di Dio perché sia compiuta in ogni sua parte.
Il timore del Signore è tutto per l’uomo. Chi vuole portare a compimento la propria santificazione non può prescindere da esso; lo deve mettere nel cuore e con esso operare.
Oggi la mancata santità in molti cristiani è da ricercare nell’assenza in loro del timore del Signore, nella sostituzione di volontà. Non è più la volontà di Dio che determina l’agire dell’uomo; è l’uomo che sceglie vie che lui dice essere di salvezza e di redenzione.
Poiché la salvezza del mondo avviene solo nella santificazione del cristiano e questa si compie nel timore del Signore, la non santificazione del mondo nonostante le nostre infinite opere che giorno per giorno compiamo, attesta che non si è nella volontà di Dio, rivela che noi ci siamo sostituiti a Dio e in suo nome pensiamo, decidiamo, vogliamo, operiamo.
È in questo scambio di volontà la causa di molti mali che attanagliano il mondo e la stessa comunità dei credenti.
Il timore del Signore è dono dello Spirito Santo e da lui bisogna impetrarlo con una preghiera assidua, costante, fiduciosa; una preghiera elevata a lui con tutto il cuore e con un grande desiderio: fare solo ed esclusivamente la volontà di Dio in tutto, in ogni cosa, sempre.
[2]Fateci posto nei vostri cuori! A nessuno abbiamo fatto ingiustizia, nessuno abbiamo danneggiato, nessuno abbiamo sfruttato.
Paolo chiede ai Corinzi che facciano un posto per lui nel loro cuore. Bisogna comprendere cosa Paolo chiede.
Paolo non chiede qualcosa per sé. Non è la sua persona che lui vuole mettere nel loro cuore. L’apostolo è libero anche da questo tipo di affetto o da questa ricerca di amore.
Mettere Paolo nel loro cuore ha un solo significato: metterlo per quello che lui rende presente, per il ministero che svolge, per il ruolo che egli occupa nella comunità dei credenti.
Egli è l’inviato di Cristo per chiamare alla fede tutte le genti. Lui è il portatore della verità, del Vangelo della salvezza; è colui che mosso dallo Spirito deve guidare la comunità verso la realizzazione della propria speranza.
È necessario che tra colui che evangelizza e coloro che sono evangelizzati regni un rapporto di stima, di fiducia, di rispetto del ruolo e della missione.
Se i Corinzi non hanno Paolo nel cuore significa che non vedono secondo la fede chi è Paolo. Questo è molto inquietante da un punto di vista evangelico. Se l’unico che porta loro la verità, la grazia, la salvezza, la rivelazione, il vero Cristo, è fuori del loro cuore, ciò significa che il Vangelo e la verità che essi professano non è quella autentica, la stessa che Paolo ha insegnato loro.
Mettere Paolo nel cuore è mettere il vero Vangelo, la vera verità, la vera salvezza, il vero Cristo, il vero Dio.
Quando non c’è posto nel cuore per una persona che porta il vero Cristo e la vera Parola, significa che non c’è posto in esso per il vero Cristo e la vera Parola.
È ciò che avveniva tra Cristo e la classe religiosa del suo tempo. Quando un sommo sacerdote, un fariseo, uno scriba toglieva Cristo dal cuore, toglieva anche la Parola vera che egli annunziava, toglieva il vero Dio che la Parola rivelava, toglieva anche la vera salvezza.
Ciò equivale a rimanere nella falsità, nell’errato convincimento circa Dio e la sua volontà, circa la sua natura e la sua essenza.
Quando una persona non abita e non dimora in un cuore, assieme a lei non abita e non dimora tutto quanto essa porta, dice, annunzia, dona, rivela, comunica.
Per questo è importante che i Corinzi mettano Paolo nel loro cuore; essi devono mettere e farvi dimorare il vero Vangelo e il vero Cristo che Paolo porta e dona loro.
Affermando che lui non è stato ingiusto con nessuno di loro, nessuno ha danneggiato e nessuno ha sfruttato, oltre che manifestare la rettitudine di coscienza con la quale egli ha sempre agito nei loro riguardi, rivela un altro aspetto della relazione tra lui e loro che merita di essere evidenziato.
Paolo non ha posto nel loro cuore non per motivi umani. Tra lui e loro non c’è stata mai una parola o un gesto ingiusto, o meno santo, da poter giustificare umanamente una tale distanza.
Se non è per motivi umani, lo sarà sicuramente per motivi soprannaturali, di trascendenza. Questi motivi sono di non perfetta verità nella quale loro si trovano. Qualcuno li ha frastornati con mezze verità, o con falsità. I Corinzi si sono lasciati abbindolare. Avendo messo nel loro cuore una verità diversa e un Vangelo differente da quello annunziato da Paolo, necessariamente dovevano togliere Paolo dal loro cuore.
Come si può far abitare nello stesso cuore la falsità e la verità? Come far dimorare in loro una persona che dice un falso Vangelo e Paolo che dice il vero Vangelo?
Il falso Vangelo espelle dal loro cuore il vero, e la falsa persona che dice falsità espelle la vera persona che dice verità.
È facile sapere quale verità noi crediamo; è sufficiente notare quale persona noi abbiamo nel nostro cuore. Ancora una volta è il cuore che rivela lo stato religioso di un uomo ed è la persona che abita nel cuore che manifesta la verità che lo stesso cuore professa.
È bello avere sempre una coscienza retta, sana, pura, santa. Ci permette di trovare la vera causa della separazione che avviene nei cuori. Purtroppo questo non sempre si può affermare. Infatti anche oggi ci sono tante persone che non trovano posto nel cuore degli altri, ma non per ragioni di trascendenza o di Vangelo, quanto per ragioni immanenti.
Quando questo accade si commette un grave peccato dinanzi a Dio. A nessun missionario del Vangelo è consentito infatti avere un qualche dissidio con un uomo. Nessuno può essere tolto dal nostro cuore per motivi umani.
Chi vuole toglierci dal loro cuore, lo deve fare solo per motivi di fede, di verità, di Vangelo, per causa di Cristo Gesù.
Manifestando la sua retta coscienza, Paolo ci rivela che i Corinzi lo hanno espulso dal loro cuore solo per causa di Cristo e del suo Vangelo, avendone messo un altro ben diverso e del tutto contrario a quello che lui annunzia.
Ciò che ha fatto Paolo, dovrebbe farlo ogni ministro di Cristo. Tutti dovrebbero presentarsi dinanzi al mondo con questa coscienza retta, ancorata nella verità, radicata nella Parola.
[3]Non dico questo per condannare qualcuno; infatti vi ho già detto sopra che siete nel nostro cuore, per morire insieme e insieme vivere.
Paolo è tutto pervaso dell’amore di Cristo. Egli non vuole fare torto a nessuno, non vuole condannare nessuno. D’altronde il suo ministero non è quello di condannare, bensì di perdonare, di accogliere, di dimenticare, di annunziare la verità che libera e salva chiunque crede.
Paolo è rivestito di una carità pastorale così grande che riesce a perdonare ogni offesa, anzi a considerarla non avvenuta nei suoi riguardi.
Egli porta tutti nel cuore, li porta con i loro vizi e con le loro virtù, con la falsità e la verità che abita in essi, li porta da santi e da peccatori. Li porta perché questo è il suo ministero d’amore nei loro riguardi.
Se l’apostolo non avesse questo amore grande, questa carità pastorale sconfinata non potrebbe svolgere bene il suo ministero. Potrebbe, a causa del poco amore, allontanare qualcuno da Cristo, potrebbe, per il suo non perdono, farlo rimanere fuori della comunità.
Questo non si addice ad un apostolo e ministro di Gesù Cristo. Non solo. Noi sappiamo che Cristo è morto per i nostri peccati, ha chiesto perdono al Padre per i suoi uccisori e carnefici.
Per loro è morto e per loro ha offerto la vita perché fossero salvati, dopo un vero atto di conversione e di fede al Vangelo. Ora se Cristo ha offerto la vita per la conversione dei peccati e l’ha offerta anche per coloro che lo hanno messo in croce, che lo hanno condannato, sputato, deriso, oltraggiato e schernito, chi è Paolo da poter serbare un qualche rancore, un qualche astio, o un semplice pensiero contro di loro?
Egli è tutto di Cristo e vive alla maniera di Cristo. Il suo perdono è totale, pieno; il suo è più che perdono, è desiderio di morire insieme per loro e con loro, al fine di consegnarli un giorno a Cristo nel suo regno di gloria e di luce. La sua è una forte volontà di bene che si traduce in un amore di perdono e di accoglienza, di annunzio e di evangelizzazione, di ammonimento e di correzione, perché tutti possano entrare nella salvezza di Cristo Signore.
Quando c’è il desiderio di vivere e di morire insieme, non si intende morire e vivere umanamente, alla maniera della terra; non vuole dire desiderio di stare insieme come stanno tutti gli altri uomini.
Vivere e morire insieme ha un solo significato: insieme vivere per Cristo, insieme morire per Cristo; insieme lottare per Cristo, soffrire per Cristo, predicare Cristo, annunziare Lui; insieme farsi un sacrificio d’amore perché molti altri uomini possano raggiungere la salvezza che Cristo è venuto a portare sulla terra, realizzandola nel suo corpo.
Vivere e morire insieme significa divenire una cosa sola nel Vangelo e per il Vangelo, nella verità e per la verità, nella fede e per la fede. Tra Paolo e la comunità di Corinto non deve esistere alcuna differenza nella fede, nella speranza, nella carità.
[4]Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione.
Paolo sa qual è la testimonianza offerta al Vangelo dalla comunità di Corinto. Sa il loro impegno originario nell’accogliere il Vangelo, nel viverlo e nel propagandarlo, nell’annunziarlo agli altri.
Tuttavia sa anche che ogni giorno bisogna iniziare daccapo. È facile cadere nella tentazione, è facile scivolare dalla verità, è facile compromettersi con le falsità e le menzogne che circolano nel mondo e che sono portate ad arte in molti cuori.
Il fatto che essi non sono rimasti nella verità delle origini non lo porta nella tristezza. Un missionario del Vangelo non può essere triste perché una comunità da lui fondata in parte è ritornata nella falsità di un tempo.
Il missionario del Vangelo questo lo sa. Perseverare è la cosa più difficile che esista e i fallimenti nella perseveranza sono già da lui messi in conto. Per questo si affatica, lotta, combatte: perché le comunità possano rimanere nella verità delle origini, possano conservare intatto il Vangelo così come lo hanno ricevuto.
Le tribolazioni per lui sono ben altre; è quell’opposizione dura, cieca, tenace contro il Vangelo. È quel combattimento contro lo Spirito Santo che ogni giorno incontra sui suoi passi che si trasforma per lui anche in opposizione fisica e non solo spirituale, con armi materiali e non solo di parole per ogni sorta di male.
Assieme alla tribolazione c’è in Paolo la gioia, la consolazione. Questa non viene dall’uomo, viene da Dio. È il dono più grande che il Signore possa fare ad un suo missionario: conservarlo sempre nella gioia e nella consolazione, perché mai si perda d’animo, mai si smarrisca, sempre inizi daccapo, sempre ricominci come al primo giorno.
Lo richiede l’annunzio del Vangelo, la proclamazione della verità, il ricordo della Parola di Cristo Gesù. La gioia e la consolazione nascono però dalla coscienza buona e retta la quale ci attesta che tutto è stato fatto di ciò che ci era stato comandato di fare. Così l’attestazione della coscienza retta e santa produce gioia dentro di noi, anche se con il corpo e con lo spirito stiamo affrontando grandi tribolazioni che vengono dal mondo.
D’altronde l’apostolo del Signore è un uomo che cammina sulla via della tribolazione. Il mondo non vuole il Vangelo della verità e per questo gli si oppone con ogni mezzo, anche con l’eliminazione fisica.
La tribolazione per Paolo è la strada sulla quale cammina di giorno e il giaciglio sul quale riposa di notte e tutto questo a causa del Vangelo. In questa sofferenza continua, egli è nella gioia del suo spirito, è nella consolazione di Dio, è in quel gaudio che nasce dalla coscienza retta che attesta che noi siamo nel timore del Signore e che stiamo portando a compimento la sua opera.
[5]Infatti, da quando siamo giunti in Macedonia, la nostra carne non ha avuto sollievo alcuno, ma da ogni parte siamo tribolati: battaglie all'esterno, timori al di dentro.
Paolo manifesta ora ai Corinzi una tra le tante tribolazioni. C’è attorno a lui come una solitudine spirituale, a volte anche fisica. La solitudine più grande è quella spirituale. Essa è causata dalla mancanza di crescita nella verità e nella grazia di quanti stanno vicino a noi. Senza questa crescita non c’è comunione nella conoscenza del mistero di Dio. È come se fossimo su due livelli. Uno superiore dal quale si vede il Signore e l’altro inferiore dal quale si contempla la terra, o se si vede Dio non lo si vede nella profondità del suo mistero.
Era questa la solitudine di Cristo Gesù. Egli parlava ai suoi discepoli, ma questi non lo comprendevano; parlava in pubblico e molti travisavano le sue parole, molti erano anche quelli che lo combattevano a causa della verità che lui portava.
La solitudine di Cristo la si coglie tutta nell’orto degli Ulivi, quando chiese ai discepoli di pregare e vegliare un poco con lui, ma questi subito si addormentarono. Rimase solo Lui a pregare in quel momento così vitale per la sua vita.
I Santi quasi tutti sono avvolti da questa solitudine. Coloro che li circondano non percepiscono il loro mistero, non li comprendono, a volte anche li deridono e li beffeggiano; il mondo poi li condanna e li martirizza.
Assieme alla solitudine spirituale che è sempre presente e accompagna i Santi - se non ci fosse questa solitudine non sarebbero santi, sarebbero uomini del mondo, o uomini convertiti e basta, ma non santi - c’è l’altra solitudine che è quella fisica. Molte volte si è fisicamente soli. Non c’è nessuno che possa venire in nostro soccorso, che ci dia una mano, che ci aiuti, ci sostenga anche fisicamente.
La solitudine è solamente il campo di battaglia nel quale viene posto l’uomo di Dio. Ma non è questa la sua tribolazione. La tribolazione è il terreno sul quale egli opera.
Qui Paolo enumera due tipi di tribolazione perenne, costante: timori all’interno, battaglie all’esterno. I timori all’interno sono quelli che nascono nel suo cuore e sono causati dalla volontà di fare ogni cosa secondo la volontà di Dio. Poiché c’è sempre dinanzi a noi l’immensità e l’infinito della perfezione divina, colui che cammina veramente con Dio ha sempre il timore di non fare tutto bene, di mancare in qualche cosa, di non servire il Signore come lui vuole, di omettere, di aggiungere, di tralasciare qualcosa di vitale, di importante per la salvezza dei fratelli.
Il timore all’interno fa sì che l’uomo di Dio resti sempre nella santa umiltà, che non si insuperbisca mai, che mai entri nella vanagloria o in quelle forme di autocompiacimento e di autoglorificazione che sono il più grande atto di idolatria che un uomo possa commettere.
È idolatria, perché l’uomo si attribuisce dei poteri divini che non ha. Nessun uomo è Dio. Attribuirsi delle qualità divine, è pura idolatria.
Il timore all’interno ci impedisce proprio di cadere in questo peccato di idolatria e per questo il Signore ci fa sempre vedere la distanza infinita che esiste tra il ministero che ci ha affidato, tra i doni che ci ha donato e i frutti che noi operiamo.
Le battaglie all’esterno invece sono tutti quei sacrifici cui bisogna sottoporsi per far progredire nel mondo il Vangelo della salvezza.
Questi sacrifici sono di ordine fisico, ma anche spirituale; sono prove della vita e tentazioni; vengono dalla natura e anche dagli uomini.
L’uomo di Dio, l’apostolo del Signore, sa però che con l’aiuto di Dio ogni cosa potrà essere vinta, superata, sconfitta, anche la morte. Per questo vive quel momento di sofferenza, offrendola al Signore per la conversione dei cuori e per l’apertura delle menti al Vangelo della salvezza.
Le battaglie all’esterno hanno però una loro intima finalità che noi dobbiamo conoscere. Esse ci manifestano quotidianamente come la predicazione del Vangelo non è opera dell’uomo, bensì del Signore.
Se Dio non è con il suo missionario, questi non cammina; alla prima difficoltà si arrende, alla prima piccola tribolazione abbandona, si arresta, chiude.
Invece con il missionario c’è il Signore, c’è Cristo Gesù, c’è lo Spirito Santo. È lo Spirito che infonde in lui la forza di continuare nonostante tutto, nonostante la croce si faccia ogni giorno più pesante e il calice più amaro.
La tribolazione pone il cuore dell’uomo in un atteggiamento perenne di preghiera. Egli sa che solo il Signore gli può dare la forza di andare avanti, solo lui lo può liberare da certi pericoli, solo lui lo potrà fare avanzare vivo tra le insidie del male che perennemente si abbattono su di lui.
Le battaglie all’esterno fanno prendere coscienza sempre più viva al missionario del Vangelo che è Dio il suo sostegno, la sua forza, la sua vittoria, il suo tutto.
Avere questa certezza nel cuore è necessario per andare sempre avanti. Sappiamo che ci attende la tribolazione ma anche la liberazione. La tribolazione viene dal mondo, la liberazione viene da Dio. Dinanzi ad ogni battaglia non resta al missionario di Dio che prostrarsi dinanzi a Lui e chiedere che si faccia la sua volontà, in tutto come ha fatto Cristo Signore, prima di iniziare il buon combattimento della passione e morte.
Sapendo anche che molte sono le battaglie che lo attendono all’esterno, egli come un buon soldato di Cristo Gesù si prepara al combattimento attraverso la preghiera. Anche in questo Cristo è maestro, modello ed esempio di come si affronta il combattimento della fede, della speranza, della carità.
[6]Ma Dio che consola gli afflitti ci ha consolati con la venuta di Tito,
Altra grande affermazione di fede. Dio è il Consolatore degli afflitti.
È il Consolatore perché è il Padre e come Padre ha cura di tutti i suoi figli. La sua Provvidenza governa ogni momento della vita dell’uomo.
Da parte di Dio siamo sicuri. Egli è la nostra consolazione, la nostra gioia, la nostra speranza.
Da parte nostra dobbiamo invece vivere con fede ogni prova che il Signore permette che avvolga la nostra vita.
Viverla con fede vuol dire accoglierla con pazienza, con spirito di vero amore, senza lamentarsi, superarla nella preghiera, chiedendo a Lui che ci dia la forza di non cadere in tentazione che potrebbe anche farci smarrire la via dell’amore e della verità.
Dio ci consola in tanti modi. Con la pace che fa scendere nei nostri cuori; con la forza che ci dona per non abbatterci; con la volontà forte e decisa di andare avanti; con lo spirito sempre pronto e con la coscienza vigile e desta affinché il turbamento non la vinca e la prova non la faccia cadere in qualche peccato, anche veniale.
All’azione interiore di Dio corrisponde anche un suo aiuto esteriore. Egli manda sempre qualche persona caritatevole, amica, che si prenda cura di noi nei momenti di afflizione e di tristezza interiore a causa della prova che avvolge la nostra anima.
Dobbiamo essere sempre certi di questo duplice aiuto, interiore ed esteriore, e dobbiamo impetrarlo nella preghiera.
La preghiera ci prepara alla prova perché corrobora il nostro spirito, rende forte la nostra volontà, vigile la nostra coscienza, attento il nostro cuore. La preghiera chiede anche quell’aiuto visibile, necessario alla nostra umanità che è fatta anche di corporeità.
Non solo. A volte il nostro corpo ha bisogno di un qualche sollievo materiale e per questo l’aiuto deve essere anche materiliazzato, nella persona di un amico o di un conoscente, di un compagno che ci sostiene e ci conforta in quei momenti particolari della nostra vita.
Paolo riceve la visita di Tito, di questo suo compagno di evangelizzazione e missionario come lui nel portare il Vangelo della salvezza ai pagani.
Da questa visita egli è rinfrancato. Il suo cuore trova forza; la sua speranza si riaccende. Egli può continuare il suo viaggio, sapendo che il Signore mai lo avrebbe abbandonato.
Ricevuta la visita, bisogna ringraziare il Signore, benedirlo, lodarlo. Egli non abbandona mai coloro che ricorrono a Lui, non lascia soli i ministri del suo Vangelo. La lode deve essere ininterrotta. Sempre dal cuore del giusto si deve innalzare al Signore questo inno di lode e di benedizione per tutti i prodigi del suo amore che egli compie verso coloro che Egli ama, verso coloro che lo invocano perché venga presto in loro aiuto e li salvi.
[7]e non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunziato infatti il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me; cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta.
Non solo Tito rincuora Paolo con la sua presenza di amico e di compagno di viaggio e di evangelizzazione. Lo ricolma di gioia per le notizie che egli porta. Sono notizie che riguardano la comunità di Corinto.
Le prime notizie che Paolo aveva ricevuto erano per lo meno inquietanti. C’era qualcosa che non andava in quella comunità. E non andava la considerazione che essi avevano per Paolo. Poiché Paolo era il loro padre nella fede, non aver una giusta considerazione per lui, equivaleva a dire che la fede era in certo qual modo cambiata.
Se Paolo è l’espressione più alta della fede, la forma più viva e più vitale, se lui porta la verità di Cristo senza alcuna ombra di infiltrazione di pensiero umano e i Corinzi cambiano qualcosa nei riguardi di Paolo, significa che qualcosa è cambiata nella loro fede.
Una fede differente fa vedere una persona differente. Ma se è cambiata la fede dei Corinzi, questa è cambiata decisamente in peggio. Oltre Paolo non c’è fede alcuna che possa dirsi superiore, o che si viva in una forma più eccellente sia quanto a realizzazione sia quanto a riflessione e a pensiero.
Ci può essere in ogni comunità un momento di tentazione, un turbamento; la fede vera e santa può anche vacillare. Questo può succedere. Importante è che duri per un istante, che la cosa non degeneri, che le tenebre non l’avvolgano del tutto, che si abbia poi la forza di ristabilire la verità e di consolidarsi nel vero e retto amore per il Signore.
Tito porta a Paolo questa consolante notizia. Nella comunità di Corinto c’è stato un ravvedimento. C’è stata una presa di coscienza, si è compreso il male che si è fatto. Ora tutto è cambiato.
I cuori sono addolorati per quello che è avvenuto. Il desiderio di vedere Paolo è ancora più forte, il loro affetto per lui è cresciuto.
Tutto questo non può che produrre gioia. Del resto l’apostolo vero del Signore è in perfetta sintonia con il cuore di Dio.
Dio – è detto – non vuole la morte del peccatore, ma che si converta è viva. Gesù, nel Vangelo, dice che si fa più festa in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza.
Paolo non considera il torto a lui fatto, le offese arrecate al suo cuore. Egli ha un solo desiderio nella sua anima: che Cristo sia amato secondo verità, sia conosciuto secondo giustizia, sia adorato nella sua santità, il suo messaggio sia conservato integro, puro, intatto.
Quando questo avviene, nel suo cuore c’è gioia, letizia spirituale. C’è quel gaudio che fa ringraziare Dio perché tutto nella comunità si è risolto secondo la legge della fede e della verità di Cristo Gesù.
Questa è la perfetta libertà di Paolo dalla sua stessa persona. Egli vive tutto in funzione di Cristo Gesù. Per lui vive e per lui muore, per lui cammina e per lui si arresta, per lui si rattrista e per lui gioisce, per lui rimprovera e per lui perdona, per lui ammonisce e per lui consola. Tutto fa Paolo per Cristo Signore.
[8]Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati
Alla luce delle notizie portate da Tito, Paolo riconsidera quanto aveva fatto per i Corinzi. Lo trova ancora giusto, buono, santo; non trova in quello che ha fatto nessun motivo di dispiacere o di rimpianto. Per quello che ha fatto non si deve vergognare, può andare ancora a testa alta.
Quando si compie un’azione bisogna all’atto compierla sempre con coscienza retta, con quella luce di verità che abita in quel momento nel nostro cuore.
Poi, con lo scorrere del tempo, è giusto che riflettiamo su quanto abbiamo fatto. Il tempo e la grazia di Dio hanno operato nel nostro cuore, vi hanno messo più luce, più santità, più sapienza e più dottrina. È cresciuto in noi lo Spirito Santo.
È giusto che alla luce dello Spirito Santo che è divenuto più forte in noi leggiamo quanto finora abbiamo fatto, per emendarci se in qualche cosa abbiamo sbagliato, per apportare tutti quei rimedi affinché la luce di Cristo illumini con più forte intensità quanto abbiamo operato e se in qualche cosa dobbiamo cambiare è anche giusto che noi cambiamo.
L’uomo cammina nella luce del Signore ed è sempre la luce attuale di Dio, quella che oggi brilla su di noi, che deve farci vedere ogni nostro comportamento nei nostri riguardi e verso gli altri, affinché possiamo renderlo giusto se giusto non è, e farlo divenire santo, se in qualche cosa è mancato nella santità.
Paolo ha scritto ai Corinzi una lettera che si è persa. È una lettera forte, in difesa di Cristo e della sua verità, in difesa del suo Vangelo.
Questa lettera ha prodotto nei Corinzi una certa tristezza, ma questa tristezza si è poi trasformata in un cambiamento del loro modo di pensare e di comportarsi. Quella lettera ha avuto come frutto la conversione, o il ravvedimento del loro cuore.
C’è stato un momento, anche se breve, che la lettera ha generato dolore nei cuori. Ma il dolore generato dalla verità che si conosce ha un frutto assai squisito, porta il ravvedimento e quindi crea nel cuore una più forte gioia.
Dopo le notizie che Tito gli ha fornito, egli non si rammarica affatto per quello che ha scritto. Anzi, rafforza di più il suo convincimento che a volte occorre essere forti, determinati, accorti, pieni di saggezza e di verità.
A volte vale proprio la pena prendere la penna e scrivere cosa è il Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo e cosa comporta.
Chi ama, e Paolo ama quelli che ha generato nella fede, non può lasciare che si perdano, che percorrano strade non di verità; non può tollerare che Cristo venga scacciato dai loro cuori a causa di operai fraudolenti che ingannano la gente e predicano solo se stessi e i propri interessi materiali.
In questo Paolo è forte. Ha usato le maniere forti, ma ora non se ne rammarica, anzi è nella gioia perché la sua lettera, il suo coraggio, la sua fortezza di Spirito Santo hanno prodotto nei loro cuori un sano ravvedimento e un moto di conversione che li ha portati a Cristo e a Paolo in un modo del tutto nuovo e singolare. Questo è il frutto della sapienza, della saggezza, della fortezza che dimora in un apostolo del Signore.
[9]ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra;
Paolo ora è nella gioia. Dio veramente lo ha consolato. È giusto però che egli precisi e specifichi il perché della sua gioia e del suo gaudio.
Egli non ha gioito perché i Corinzi si sono rattristati. Mai uno deve gioire perché l’altro è nel pianto, nel dolore, nella sofferenza del suo spirito.
Noi sappiamo il pensiero di Paolo: soffrite con chi è nella sofferenza, gioite con chi è nella gioia.
Se i Corinzi sono nella tristezza, lui non può essere nella gioia, anche lui è nella tristezza. È nella tristezza a motivo del tradimento della verità di Cristo che è stato seminato nei loro cuori. È anche triste, perché ha dovuto intervenire con fermezza e fortezza di Spirito Santo per portare e riportare nella verità la comunità di Corinto.
Egli è nella gioia perché è avvenuto, a causa di quella tristezza che la lettera ha generato nei loro cuori, un sano ravvedimento, un pentimento e quindi un ritorno nella verità di nostro Signore Gesù Cristo.
La gioia è generata in lui da questo loro pentimento, ma il pentimento è stato operato dalla tristezza, la tristezza a sua volta è stata causata dalla fermezza di Paolo. Paolo è quindi sia l’autore della tristezza che della gioia.
La sua fermezza ha prodotto questo duplice frutto e lui può lodare il Signore e può gioire perché Cristo è ritornato a regnare con la sua verità piena nella comunità di Corinto.
In questo versetto è giusto che si osservi un’altra sottigliezza teologica che Paolo annunzia a proposito dei Corinzi.
I Corinzi si sono rattristati secondo Dio. Vale la pena chiarire questa sua affermazione. Rattristarsi secondo Dio ha un suo specifico significato.
Ci si rattrista secondo Dio quando il nostro comportamento, le nostre azioni vengono poste dinanzi alla luce della verità e dell’amore del Signore e ci si duole di esse perché si è offesa la Maestà divina.
I Corinzi non si sono rattristati perché hanno offeso Paolo. Questo non è un vero atto di pentimento. Pentirsi per un uomo non ha significato di salvezza. Bisogna sempre pentirsi, rattristarsi per avere offeso il Signore, per avere disprezzato la sua verità, per avere abbandonato il suo amore, per essere usciti dalla sua obbedienza e aver percorso sentieri di iniquità e di ingiustizia che ledono l’onore e la gloria che è dovuta al Signore.
Sarebbe stato veramente un danno per loro se Paolo li avesse portati a pentirsi per lui, per aver offeso la sua persona, per avergli fatto in qualche modo un torto o arrecato un dispiacere. È giusto che questo pensiero venga precisato ulteriormente e questo perché l’uomo deve mettersi sempre da parte. È Dio che deve governare ogni cosa, anche le offese personali che vengono arrecate al missionario del Vangelo e in quanto ministro di Cristo Gesù.
Ciò sta a significare che ogni qualvolta si offende un uomo, non è l’uomo che si offende, è Dio che si offende. Il pentimento deve riguardare l’offesa che è stata arrecata a Dio, perché è Lui il Signore anche dell’uomo offeso ed è Lui che è stato offeso in colui che è stato da noi oltraggiato.
Quando si vuole riprendere qualcuno lo si deve mettere dinanzi a Dio e a Dio solo, mai dinanzi all’uomo. È Dio l’offeso ed è a Dio che bisogna chiedere perdono, ma è anche dinanzi a Dio che bisogna pentirsi.
Su questo ci sono molte lacune. Gli uomini vivono di sola immanenza e ognuno vede le cose per riguardo a se stesso. Possiamo ben dire che il pensiero di Dio è lungi da noi, assai lontano dalla nostra vista.
Anche a questo bisogna ovviare e Paolo attraverso la sua saggezza ispirata ci insegna come e quando farlo.
[10]perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte.
Paolo ritorna ancora una volta sul concetto espresso.
Quando un uomo vede se stesso, le sua azioni, i suoi pensieri, ogni proposito e quanto egli ha fatto dinanzi a Dio, si vede e vede ogni cosa secondo verità.
Prima di tutto vede Dio e in Dio vede se stesso; vede chi è Dio e chi è se stesso. Il rapporto non è con nessun uomo, anche se l’azione è stata fatta contro un uomo o a favore di un uomo, ma dietro l’uomo c’è sempre la volontà di Dio che comanda una cosa, o la proibisce, la ordina o la vieta.
Quando ci si vede in Dio e ci si pente per aver offeso Dio, il pentimento produce salvezza. C’è una crescita spirituale che è avvenuta in noi.
Sappiamo ora chi abbiamo offeso, perché e quando ciò è avvenuto. Chi è stato offeso è il Signore, la sua divina Maestà, la sua gloria è stata infangata attraverso il nostro comportamento.
Di tutto questo ce ne pentiamo. Siamo addolorati per quel che abbiamo fatto. Vogliamo non commetterlo più. Vogliamo vivere e dimorare ora nell’amore e nella verità del Signore.
Per Paolo solo il pentimento dinanzi a Dio diviene irrevocabile. Non può essere se non così. Vedersi dinanzi a Dio, vedersi in Dio e nel suo amore, contemplarsi nella sua verità, deve necessariamente produrre un pentimento irrevocabile. Questo pentimento si trasforma per noi in salvezza e in vita eterna.
Se invece ci rattristiamo per motivi umani, ci addoloriamo per aver arrecato una qualche tristezza a un nostro fratello, questo pentimento non è secondo Dio, è secondo le convenienze del mondo.
Questo pentimento non potrà mai divenire irrevocabile. Passato il primo momento di ravvedimento, si ritorna nuovamente a compiere il male, si ritorna a ripetere ciò che si è fatto. Non c’è il sigillo di Dio e della sua verità su quanto noi abbiamo fatto, non c’è il suo sigillo sul nostro pentimento. Noi ritorneremo di certo a commettere il male e questo ci porta ad una sicura morte.
Non c’è alcuna speranza di vita eterna per coloro che si rattristano e si ravvedono secondo il mondo, per coloro che tutto fanno per rispetto umano o per attirarsi l’amicizia degli uomini.
Non c’è possibilità di salvezza eterna per coloro che non mettono Dio dinanzi ai loro occhi e non fanno tutto alla luce del suo amore e della sua verità, alla luce della croce gloriosa di Cristo Gesù.
[11]Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda.
Paolo ancora rilegge l’effetto della sua lettera nella comunità di Corinto.
La lettera li ha portati a mettersi dinanzi a Dio, a vedere ogni cosa secondo la sua divina verità.
Il primo frutto del loro rattristarsi è una rinnovata sollecitudine verso Paolo e quindi verso il Vangelo della salvezza.
Questa sollecitudine manifesta un cuore che si è messo in movimento, producendo scuse, indignazione, timore, desiderio, affetto, punizione.
La sollecitudine ha prodotto un subbuglio nel cuore, un vero moto di rinnegamento per quanto è avvenuto.
Questo attesta quale sia la forza della verità di Dio quando è lasciata penetrare in un cuore. Questa forza è veramente sconvolgente. Essa trasforma, rimuove, rinnova, sana, purifica, eleva, chiarifica, distingue, separa l’innocente dal peccatore, non per condannare il peccatore, ma per spingerlo ad un sano ravvedimento e a un ritorno nella verità di Cristo e di Dio.
La forza di una comunità cristiana è la verità che dimora in essa, o torna a dimorare in essa. Togliete la verità da una comunità e ne fate una spelonca di ladri. Mettete o rimettete la verità sul suo trono nella comunità e ognuno si trasforma in un fedele servitore di Cristo Gesù, in un amante di Dio e dei fratelli, in un vero discepolo di Gesù Signore.
Non c’è carità senza verità nella comunità. Paolo ha rimesso sul trono della comunità di Corinto la Verità e questa ha prodotto un frutto così grande di pentimento e di ristabilimento del vero amore in tutti i cuori, amore prima di tutto per il Signore, amore anche per Paolo e per il Vangelo da lui annunziato, amore per il suo ministero e il suo apostolato.
Bisogna anche chiedersi perché i Corinzi si sono dimostrati innocenti in questa faccenda. La risposta non può essere che una.
La lettera che Paolo ha scritto con i toni della fermezza e della saggezza nella verità dello Spirito Santo ha fatto loro prendere coscienza del tranello che era stato loro teso e quindi hanno preso le distanze da colui che aveva seminato zizzania. Si è rivelata l’innocenza degli uni; si è anche manifestata la colpevolezza degli altri, o dell’altro. Anche questo è merito e frutto della verità che si annunzia e si proclama.
A volte una persona può portare dei turbamenti nella comunità, può indurre nell’errore molte persone, non per cattiveria, o per propositi malvagi, bensì solo per semplicità, per mancanza di formazione, per quella imprudenza fondamentale che spesso si nasconde nei cuori.
C’è un corpo unico che sembra essere, in questo caso, contro Paolo, mentre invece il corpo non è così unico. Il corpo è unico a motivo del frastuono dottrinale e veritativo che si è creato nei cuori dei semplici e degli sprovveduti, ma in realtà non è così.
Basta immettere in questo corpo la verità con tutta la luce dello Spirito Santo perché l’innocenza degli uni venga resa manifesta e la cattiveria degli altri venga resa palese in tutta la sua malvagità.
La lettera di Paolo ha prodotto anche questo effetto. Ha giustificato coloro che erano senza colpa, ha condannato chi era stato veramente il colpevole.
Questo può accadere e di fatto accade nelle comunità. Spetta a colui che è preposto per vigilare mettere ogni attenzione a che la verità brilli di nuovo nei cuori e i segreti degli uni e degli altri saranno resi manifesti, con gioia di coloro che non hanno avuto colpa alcuna, con rammarico e pentimento, se si è rattristati dinanzi a Dio, per tutto il male operato in seno alla comunità.
[12]Così se anche vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell'offensore o a motivo dell'offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio.
In questo versetto Paolo adduce un altro motivo che lo ha spinto a scrivere la sua lettera.
Veramente – dice lui – quando ho scritto la lettera non ho pensato né a me, né a colui che mi ha offeso. Non era questo il mio intento, difendere me stesso dalle accuse, accusare l’accusatore presso di voi perché prendeste provvedimento.
Egli voleva mettere a prova di fede la condotta dei Corinzi. Voleva provare la loro sollecitudine per lui davanti a Dio.
Paolo vuole che appaia chiaro il loro comportamento, cosa in realtà essi avrebbero fatto per lui, non dinanzi agli uomini, ma dinanzi a Dio.
È assai difficile entrare nei suoi pensieri e nel motivo che lo ha spinto a scrivere la lettera.
Egli non l’ha fatto per se stesso, non l’ha fatto per il suo accusatore. Egli è libero da se stesso e dall’accusatore.
Vuole però saggiare il cuore dei Corinzi. Vuole sapere come essi si sarebbero comportati in suo favore dinanzi a Dio.
La domanda di Paolo è questa: dinanzi alla verità di Dio, dinanzi al suo amore, dinanzi alla sua croce quale decisione avrebbero preso i Corinzi in suo favore, quale amore gli avrebbero manifestato, quale la consolazione che avrebbero arrecato al suo cuore? È questo in fondo il motivo per cui Paolo scrive.
È lecito saggiare il cuore di una persona? È lecito sapere come una persona risponde a delle sollecitudini di verità?
Per un apostolo del Signore questo è lecito. È lecito perché lui deve sapere qual è il grado di maturità spirituale, evangelica di tutti i suoi figli. È lecito perché il missionario di Gesù non può vivere nell’illusione, pensare che si trova dinanzi ad una comunità che in tutto pensa ed agisce secondo Dio, mentre in verità essa è assai lontana dai pensieri del Signore.
Paolo in fondo vuole sapere cosa pensa la comunità su questo argomento, vuole sapere se è capace di risorgere, oppure se il male l’ha inquinata a tal punto che anche i cuori semplici si sono pervertiti e la verità di Cristo è stata bandita per sempre da loro.
Quanto ha fatto Paolo è giusto che con discrezione, con amore, per verità, lo faccia chiunque è investito della sua stessa responsabilità. Costui deve sapere quanto è affidabile la comunità che egli governa, quanto è nella verità di Dio, quanto le sta a cuore il Vangelo e la salvezza, quanta distanza sa prendere dagli uomini, quanto è disposta a ritornare nella verità, confessando la stoltezza che per un attimo l’ha conquistata e condotta nella falsità e nell’errore.
Un apostolo del Signore mai deve vivere nella dolce illusione che tutto attorno a lui è per il Signore, mentre l’errore e la falsità fanno da padroni nella comunità che egli regge e conduce.
Può guidare secondo verità, chi conosce secondo verità e per conoscere secondo verità bisogna saggiare il cuore, bisogna metterlo alla prova. Bisogna sapere fino a che punto è disposto a stare dalla parte della verità che noi annunziamo, fino a che punto è disposto ad abbandonare l’errore e l’amicizia degli uomini per radicarsi interamente nell’amicizia del Signore e nella sua verità.
[13]Ecco quello che ci ha consolati. A questa nostra consolazione si è aggiunta una gioia ben più grande per la letizia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi.
I motivi della gioia di Paolo sono tanti, molteplici. Ora se ne aggiunge un altro a tutti quelli che egli già ci ha manifestato.
Quando si lavora insieme, insieme si soffre e insieme si gioisce. La sofferenza condivisa diviene più lieve, più leggera; la gioia partecipata diviene più forte, più robusta, più intensa.
Paolo è nella grande gioia, perché Tito è nella gioia. Anche lui si era rattristato a motivo di Paolo. Ora che a Corinto è ritornata la verità, la pace e la gioia, anche il suo cuore è pieno di gioia e di letizia.
Paolo, sapendo che il suo fedele collaboratore è nella gioia, dopo essere stato nella tristezza, non può che rallegrarsi, gioire con lui e questa sua gioia, che è piena partecipazione alla gioia di Tito, rende il suo cuore esultante, lo rende pieno, nulla più gli manca. Ora che tutto è nella gioia, anche la sua gioia è perfetta e completa. Si può riprendere il cammino missionario, con una certezza ancora più grande.
Dio ci consola sempre con ogni genere di consolazioni. Dio ci infonde nel cuore la gioia e l’accresce in noi facendoci e rendendoci partecipi della gioia dei nostri fratelli nella fede e nel pellegrinaggio del Vangelo della salvezza.
Come si può constatare Paolo non è chiuso nel suo cuore, non è carcerato nel suo spirito, non è rivolto su se stesso. Egli è aperto agli altri, alla loro gioia e alla loro sofferenza. La loro sofferenza lo rattrista, la loro gioia lo rende più lieto.
Egli è uomo di vera comunione. Sa che la comunione è la forza dei missionari del Vangelo, la comunione è la strada su cui camminare, è il pane con cui alimentarsi, è l’acqua con la quale dissetarsi, è il sole sotto il quale riscaldarsi.
La comunione è tutto per il missionario di Cristo ed è la forza che spinge a portare a compimento il ministero e la missione ricevuta.
La comunione, e solo la comunione, fa sì che due persone possano essere a servizio di Cristo e non a servizio di se stessi.
Quando non c’è comunione, bisogna stare attenti. Ognuno serve se stesso, ognuno è chiuso in se stesso, ognuno è blindato nel proprio particolare che è poi la negazione di ogni comunione con Dio e con i fratelli.
Dove non c’è comunione non c’è Dio perché Dio è comunione; non c’è Cristo perché Cristo è incarnazione, assunzione cioè della nostra condizione umana; non c’è Chiesa perché la Chiesa nasce dall’amore del Padre per il Figlio e del Figlio per il Padre nello Spirito Santo che è la Comunione eterna in seno alla Trinità beata e dall’amore del Padre e del Figlio nello Spirito Santo per ogni uomo.
Il vero missionario di Cristo Gesù è un costruttore di vera comunione nella verità e nella santità che discendono da Dio, si attingono nel cuore di Cristo, vengono fatte fruttificare in noi dallo Spirito Santo.
[14]Cosicché se in qualche cosa mi ero vantato di voi con lui, non ho dovuto vergognarmene, ma come abbiamo detto a voi ogni cosa secondo verità, così anche il nostro vanto con Tito si è dimostrato vero.
È questo un problema assai delicato, anzi delicatissimo. Di che cosa si tratta.
L’apostolo del Signore deve essere vero in ogni parola che esce dalla sua bocca.
Deve essere vero nelle Parole di Dio che dice e nei suoi contenuti che spiega; deve essere vero nell’interpretazione della santa Parola di Dio; deve essere vero in ogni riflessione, meditazione, annunzio, proclamazione.
Anche nelle parole non ufficiali, dette in confidenza, pronunziate in segreto e non in pubblico egli deve trasmettere la verità di Cristo e di Dio.
L’apostolo del Signore non sempre parla di Dio e della sua verità, del suo amore e della sua misericordia, non sempre parla e predica Cristo e la sua croce, non sempre annunzia e proclama l’opera dello Spirito Santo e i suoi effetti salvifici nel nostro cuore.
A volte deve pronunziarsi sugli uomini, deve proferire una parola su una determinata comunità, deve affidare qualcuno a qualche altro ed è ben giusto che lo affidi sempre con parole di verità e non di convenienza, con parole di saggezza e di intelligenza nello Spirito Santo e non con frasi dette solo per accaparrarsi la benevolenza di questo o di quell’altro.
Paolo ha parlato a Tito della comunità di Corinto. Gli ha riferito cose vere, buone, sante; gli ha parlato del loro amore per Cristo e per il suo Vangelo; gli ha detto tutto il bene che in essa si trovava.
Qual è il rischio. Che una comunità cambi, si trasformi, muti e si evolva non nel bene, ma nel male.
Un apostolo che non è capace di prevedere l’evoluzione della sua comunità non è certamente in grado di poter governare la stessa comunità e quindi si trova mancante. Ha cantato le glorie di esse, o di una di esse, e poi viene a trovarsi bugiardo presso i suoi più stretti collaboratori.
Questo è senz’altro un motivo di tristezza per un apostolo del Signore. Verrebbe ad essere lui trovato non più degno di fede, di stima, di credibilità.
Se uno raccomanda la bontà di un altro e poi il raccomandato non mantiene fede alla sua verità e alla sua bontà, colui che lo ha raccomandato nella verità certamente si rattrista, ne prova dolore.
Cosa deve fare? Non raccomandare più nessuno? Essere prudente nei giudizi? Mettere sempre le mani avanti e specificare che fino a quest’oggi ci si può fidare mentre domani non sappiamo cosa accade, cosa avviene? Ma non è forse questa la peggiore delle raccomandazioni? Che raccomandazione può essere questa, se neanche noi siamo sicuri della sua riuscita?
A volte è necessario raccomandare. È sempre giusto però che noi non siamo scoperti come bugiardi nel momento in cui la storia dell’altro cambia ed evolve in male.
Cosa fare allora? Vivere tutto secondo il momento presente. Pregare Dio però che ci faccia conoscere il momento presente secondo verità, secondo la verità dell’oggi, ma anche secondo la verità del domani.
Questo nella Sacra Scrittura è avvenuto. Che il Signore ci conceda sempre la grazia di proferire raccomandazioni o parole di verità, non sulla verità del presente, ma su quella futura, in modo che noi siamo sempre trovati veritieri in quello che diciamo, quando parliamo, sia che diciamo cose di Dio, sia che siamo obbligati a dire cose degli uomini.
Con la grazia di Dio questo è possibile. Questa scienza guidava Cristo Gesù nella sua vita pubblica. Egli sapeva sempre ciò che c’era in ogni uomo, non solo al momento attuale, ma anche in quello futuro.
Che il Signore conceda anche a noi la scienza di proferire parole di verità eterna che dicono non solo la verità di oggi, ma anche la verità di domani e di sempre. Lo richiede la nostra credibilità, lo esige il ministero che noi esercitiamo, siamo obbligati a possedere la verità tutta intera in ragione della verità divina che abita e dimora nel nostro cuore. Poiché in noi non si può fare la distinzione quando parliamo di cose del cielo e quando invece parliamo di cose della terra, è giusto che sia parlando delle cose del cielo che delle cose della terra siamo e rimaniamo nella verità piena; è giusto e santo che noi conosciamo con la stessa scienza di Dio e per questo dobbiamo chiederla e Lui ce la concede se noi operiamo solo ed esclusivamente per la salvezza dei cuori, per la redenzione delle anime.
[15]E il suo affetto per voi è cresciuto, ricordando come tutti gli avete obbedito e come lo avete accolto con timore e trepidazione.
Perché è cresciuto l’affetto di Tito per la comunità di Corinto? Il motivo ce lo ha rivelato Paolo nel versetto precedente.
È cresciuto perché la storia gli ha dimostrato che quanto Paolo ha attestato su di loro si è dimostrato vero.
Paolo non ha detto una cosa per un’altra, non si è ingannato. Il loro amore per Cristo Gesù è vero ed è sincero. Se in qualche cosa si sono lasciati fuorviare, non è stato per malizia o per cattiveria, è stato solo per semplicità di cuore, per mancanza di quella prudenza che deve sempre accompagnare il cammino di coloro che credono in Cristo Gesù.
È cresciuto anche per il modo con cui è stato accolto dai Corinzi. Questi gli hanno dimostrato obbedienza.
L’obbedienza è solo verso coloro che sono ministri di Cristo e missionari della sua parola di Salvezza. Essi lo hanno accolto come un vero discepolo del Signore, come un superiore, come uno al quale è dovuta l’obbedienza a causa del ruolo che esercita nella comunità, a motivo della responsabilità di cui è investito ed è responsabilità di vescovo e di pastore delle loro anime.
Essi lo accolgono come vero inviato di Cristo, come loro padre nella fede, nella speranza e nella carità. Lo attesta il fatto che lo accolgono con timore e trepidazione.
Il timore è dovuto a chi nella comunità rende presente Cristo Gesù, a chi tiene il suo posto, ha chi ha il posto di Dio.
Il timore è solo verso il Signore, non verso gli uomini. I Corinzi vedono in Tito un inviato, un messaggero del Signore e manifestano nei suoi confronti quel timore che non è solo riverenza, bensì è volontà di ascolto, di obbedienza, desiderio di conoscere la verità di Dio, volontà di apprendere in profondità e secondo verità chi è Cristo Gesù e per quale motivo lo ha inviato in mezzo a loro.
La trepidazione invece è un sentimento generato e quasi prodotto dal timore. La trepidazione dice volontà e desiderio di non sbagliare in niente, di fare tutto secondo verità, carità, amore sincero.
La trepidazione esprime in noi quella disponibilità totale a comportarci in tutto come se Cristo Gesù in persona venisse in mezzo a noi. Come dinanzi a Cristo Gesù non si deve mancare in niente, così bisogna che avvenga anche dinanzi ad un inviato del Signore.
È l’occhio di fede necessario ad ogni comunità cristiana. Purtroppo oggi quest’occhio di fede si è perso e al posto del timore e della trepidazione è subentrata la noncuranza, la non attenzione, il disprezzo, l’allontanamento, il rifiuto, le distanze, la solitudine dell’inviato del Signore.
Spesso subentra anche quella familiarità eccessiva che pretende che l’inviato del Signore sia in tutto uno come noi.
L’inviato del Signore non è uno come noi, è l’inviato del Signore, è il suo strumento eletto, il suo ministro, il suo araldo e come tale bisogna accoglierlo. Bisogna accoglierlo come se Gesù stesso fosse presente in mezzo a noi.
È questa la visione di fede che bisogna costruire, edificare, ristabilire nelle comunità cristiane.
Finché questa visione di fede non sarà stabilità, mancherà sempre il timore, mancherà la trepidazione, mancherà l’obbedienza, mancherà l’ascolto, ognuno camminerà per la sua strada.
Se non c’è differenza alcuna tra noi e gli inviati del Signore, a che pro prodigarsi per l’ascolto, per il timore, per la trepidazione?
Non c’è differenza alcuna, non perché la differenza non c’è, ma perché noi nella nostra stoltezza l’abbiamo abolita.
Anche se i modi storici di essa cambiano e devono cambiare, non può però mai venire meno la sostanza. La sostanza è questa: gli inviati del Signore hanno il posto del Signore e come tali bisogna ascoltarli, accoglierli con timore e trepidazione, prestare loro l’obbedienza che è dovuta a Dio in ragione della verità di Dio che essi portano in mezzo a noi.
Muore la comunità alla verità quando viene meno in essa questa visione di fede ed oggi in molte comunità questa visione di fede non esiste più. Al massimo l’apostolo del Signore è visto come un funzionario del sacro, come uno al quale bisogna rivolgersi per ottenere dei servizi religiosi. Poi la sua funzione finisce, il suo ministero non ci interessa più, la sua relazione con Cristo svanisce. Tutto diviene una mortificante uguaglianza dottrinale, spirituale, di responsabilità; tutto si fa immanenza della terra per le cose della terra.
Che questa realtà in parte dipende anche dal missionario di Cristo Gesù che in qualche modo si è svestito dell’abito della sua santità, della verità e della grazia è anche vero.
Tutto dipende dal missionario del Vangelo. Ognuno lo vede come lui ama che sia visto. Se lui vuole essere visto come un uomo della terra, il mondo lo vede così; se lui vuole essere visto come un uomo del cielo, il mondo non lo vedrà così finché lui realmente non diventi uomo di cielo, uomo di verità, uomo di santità, uomo di speranza, uomo della salvezza eterna.
Dal suo cambiamento tutto cambia intorno a lui. Ma lui non potrà mai sperare di portare la verità e la salvezza in questo mondo, se non inizia dal suo cambiamento radicale. Cambiando lui, cambia intorno a lui la visione che il mondo si fa del missionario del Vangelo. Anche questa è verità.
[16]Mi rallegro perché posso contare totalmente su di voi.
È il segno, questo, di una riconciliazione piena avvenuta tra Paolo e la comunità di Corinto. È il segno della pace che deve sempre regnare tra la comunità e colui che la dirige nel nome del Signore.
La comunità ha dato segni evidenti a Paolo di reale ritorno nella verità. Questi segni sono recepiti da Paolo e trasformati in una affermazione di piena e totale fiducia in loro.
Quando nella comunità chi presiede può contare totalmente su quelli che lui governa nel nome del Signore, significa che si è entrati in pieno possesso della verità del Vangelo. Ci si è liberati da tutte quelle false teorie e da quei pensieri umani che spesso turbano la pace e portano lo scompiglio nelle menti e nei cuori.
Contare, per Paolo, non ha però un valore personale, o un significato terreno. Contare vuol dire potersi servire di loro come Cristo si serve di lui e Cristo si serve totalmente di Paolo per la diffusione del Vangelo della salvezza. Così Paolo potrà ora servirsi dei Corinzi per la testimonianza e la proclamazione dello stesso Vangelo.
Anche qui, è la relazione di missione e di testimonianza a Cristo che a Paolo interessa. Lui certamente non conta su di loro per interessi personali, per cose di questo mondo, per necessità terrene. Egli invece sa che la causa del Vangelo può anche passare ora attraverso di loro.
La conversione e il pentimento che la sua lettera ha operato nei loro cuori ha prodotto questo frutto nuovo.
Mentre prima Paolo aveva una qualche difficoltà a contare su di loro a causa della falsità che si era introdotta nella loro mente. Ora invece tutto è cambiato. La mente è libera, il cuore è sgombro, gli animi sono nella verità, la grazia di Dio abita nella comunità di Corinto.
Questa è divenuta nuovamente strumento nelle mani di Dio per rendere testimonianza a Cristo Gesù e alla sua verità. È a causa di questa disponibilità che Paolo può contare su di loro e di fatto egli deve contare su ogni cristiano se si vuole operare efficacemente nell’evangelizzazione del mondo.
La missione cristiana non può prescindere da nessuno. Essa deve impegnare tutti. Tutti verso tutti: è questo lo stile vero per la diffusione del Vangelo di Cristo Signore nel mondo intero.
Se un solo cristiano sfugge a questa legge, il mondo per una piccola parte, ma è sempre una parte, rimane nel buio, nella confusione, nel caos veritativo e sapienziale, rimane privo della grazia della salvezza, è schiavo del suo peccato ed è impelagato nel male morale e fisico che lo turba e lo tiene lontano dalla verità di nostro Signore Gesù Cristo.
Paolo ora possiede una certezza in più. C’è un angolo su questa terra che è divenuto strumento adatto per la diffusione del Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo; c’è una comunità sulla quale ora anche lui può contare perché la buona novella si diffonda e cresca sulla nostra terra.
Questa certezza dona gioia, conforto, speranza, sollievo. Cristo può essere conosciuto da molte altre persone. È questa la gioia che nasce nel cuore di Paolo ed è una gioia tutta missionaria, a causa del Vangelo, a motivo di Cristo Gesù.
Per Paolo è sempre un motivo di gioia sapere che un altro, o molti altri possono essere a disposizione di Cristo e del suo Vangelo. Questo dovrebbe essere lo stile di ogni comunità, di ogni cristiano, di tutta la Chiesa in ogni sua manifestazione ed espressione.
A questo dobbiamo tutti tendere. Bisogna impegnarsi non solo a parole, ma con le opere e la stessa vita. Per poter raggiungere un tale impegno è necessario che tutto Cristo e tutta la sua verità regnino nel nostro cuore.
Solo chi ama Cristo vuole che ogni altro diventi strumento di Cristo. Chi non ama secondo verità Cristo diviene geloso, invidioso, crea dissensi, si lamenta, opera le divisioni nella comunità, mette gli uni contro gli altri.
Tutto compie perché Cristo non sia amato, non sia conosciuto. Tutto fa perché non sia divulgato il suo messaggio nel mondo.
Chi non ama Cristo non può amare se stesso, non può amare gli altri. Il cristiano ama gli altri solo se dona loro Cristo, se non dona loro Cristo, non li ama.
Non li ama perché non dona loro il tesoro nascosto, la perla preziosa che è Cristo nel suo dono di grazia e di verità, di salvezza e di redenzione, di speranza e di vita eterna.
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