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COMMENTO DELLA SECONDA LETTERA AI CORINTI

Ultimo Aggiornamento: 04/03/2012 22:30
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29/01/2012 23:32
 
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CAPITOLO SECONDO


PERCHÉ NON ANDÒ A CORINTO

[1]Ritenni pertanto opportuno non venire di nuovo fra voi con tristezza.
Paolo rivela il motivo per cui non si è recato a Corinto. Il suo animo era triste. Con la tristezza nel cuore non si sarebbe potuto presentare in mezzo a loro.
Non sappiamo però il motivo di questa tristezza. Ignoriamo quale ne sia stata la causa. Una cosa è certa: la causa che ha provocato la tristezza è in Corinto, non altrove.
Ma il motivo per cui non è andato a Corinto non è di certo la tristezza. Questa si sarebbe anche potuta trasformare in virtù della fortezza. Paolo avrebbe potuto sempre agire con quella prudenza e saggezza che lo hanno sempre caratterizzato. Anche se offeso, non gli mancava la luce dello Spirito Santo per agire secondo sapienza e intelligenza che sono in lui dono celeste.
Il motivo invece è da ricercare altrove ed è in Dio e nella sua divina volontà. A volte il Signore si serve di cause seconde, di azioni che avvengono nella storia, per dirigere i nostri passi altrove.
C’è una causa storica e noi pensiamo sia essa a determinarci; mentre è solo un’occasione per volgerci altrove, perché altrove il Signore vuole che noi conduciamo i nostri passi, altrove lui ci attende per compiere la sua opera di salvezza.
È questo il mistero dell’interazione tra causa seconda e causa prima, tra volontà di Dio e circostanze storiche. A noi però non è dato di conoscere la volontà di Dio; a noi è dato di sapere che per una causa umana abbiamo, o non abbiamo fatto una determinata cosa, abbiamo fatto o non abbiamo fatto una scelta.
Della causa seconda, secondo la quale noi agiamo, si serve il Signore per compiere la sua volontà. Questo è il mistero che ci avvolge e ci governa. Ci può avvolgere e ci orienta perché noi abbiamo già deciso di fare solo la volontà di Dio, abbiamo già scelto di ascoltare solo la sua voce, in qualunque modo essa si presenterà a noi.
[2]Perché se io rattristo voi, chi mi rallegrerà se non colui che è stato da me rattristato?
Paolo non vuole rattristare i Corinzi con il suo animo triste. Noi conosciamo ciò che egli ha sempre annunziato: egli vuole che si piange con chi è nel pianto e si gioisca con chi è nella gioia.
Non è opportuno portare la propria tristezza agli altri perché questi la condividano con noi. Possiamo dare agli altri la nostra gioia, ma mai la nostra tristezza, il nostro dolore, la nostra sofferenza fisica e spirituale, le nostre molteplici tribolazioni.
D’altronde se lui porta la sua tristezza nel cuore dei Corinzi questi avrebbero poi dovuto rallegrarlo, infondere nel suo cuore la gioia.
Questo non può essere fatto. Non si può recare tristezza agli altri per essere da loro consolati. Bisogna che la tristezza prima la si tolga dal cuore e poi ci si può recare presso gli altri per portare loro la gioia che viene dal Signore.
Il cristiano deve essere un portatore di gioia in seno alla comunità, egli si deve astenere di dare tristezza agli altri. La tristezza si vive nella solitudine, nel silenzio, e nella solitudine e nel silenzio si offre a Dio per la redenzione del mondo.
[3]Perciò vi ho scritto in quei termini che voi sapete, per non dovere poi essere rattristato alla mia venuta da quelli che dovrebbero rendermi lieto, persuaso come sono riguardo a voi tutti che la mia gioia è quella di tutti voi.
Viene qui ribadito il concetto espresso precedentemente.
Se Paolo si fosse recato a Corinto nella tristezza, avrebbe portato tristezza in molti cuori.
Questa sua tristezza sarebbe stata ancora più grande; non sarebbe stata più la sua tristezza soltanto, ma nel suo cuore ci sarebbe stata la sua e quella di coloro che lui certamente avrebbe rattristato con la sua venuta.
Il suo cuore si sarebbe appesantito di molto. Invece se viene a Corinto, viene per ricevere gioia e la gioia per lui è una sola: l’amore di Cristo che è divenuto adulto, forte, robusto, irresistibile nel loro cuore; è il Vangelo della salvezza che è vissuto in pienezza di fede, di carità e di speranza.
Questa è la gioia che Paolo vuole ricevere; non la tristezza causata in lui dalla tristezza che lui, a sua volta e prima, ha generato nel cuore dei Corinzi.
La tristezza non si può comunicare, non si deve partecipare; la gioia invece sì; essa deve essere data, comunicata, partecipata al fine di rendere più spedito il cammino del Vangelo nel mondo e nei cuori.
Paolo qui afferma chiaramente che la sua gioia è quella di tutti i Corinzi. La sua gioia sono i Corinzi, la sua gioia sono loro; sono loro se sono nella gioia e lo sono: se il Vangelo di Cristo Gesù è divenuto la loro vita; se nel Vangelo ogni giorno si cresce e si diventa adulti, fino a farlo divenire la nostra stessa vita.
Questa è la gioia che rallegra Paolo: sapere che i Corinzi sono nella gioia; sapere che Cristo dimora in loro; perché per un cristiano solo Cristo è la sua gioia e solo in Cristo egli la trova.
Cristo è la gioia del cristiano e solo Lui. Fuori di Lui, senza di Lui non c’è gioia; se il cristiano dice di trovarla altrove, all’infuori di Cristo, Cristo non gli serve più, Cristo è secondario alla sua vita.
Poiché per un cristiano Cristo è tutto, anche la gioia deve egli trovarla solo in Cristo e questo perché Cristo è tutto per lui. Se lui trova la gioia altrove, Cristo non è tutto per Lui, e se non è tutto non è neanche Cristo, perché quando Cristo, il Cristo vero, abita nel cuore, egli lo riempie di gioia, perché lo appaga, lo disseta, lo ricolma di pace e di ogni benedizione celeste. Quando Cristo è nel cuore, questo canta di gioia e di esultanza; canta perché ha trovato ciò che gli mancava per essere. Il cuore è nella gioia solo quando si ritrova, quando ritrova se stesso. Si ritrova e ritrova se stesso solo se trova Cristo e lo accoglie facendolo diventare suo ospite per sempre.
[4]Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime, però non per rattristarvi, ma per farvi conoscere l'affetto immenso che ho per voi.
Paolo rivela un altro lato del suo cuore.
Quando egli ha scritto ai Corinzi si trovava in grande afflizione e con il cuore angosciato, tra molte lacrime.
Questo ci rivela quanto grande fosse l’offesa arrecatagli. Se in lui ha generato una tale afflizione e un così grande dolore, conoscendo la sua tempra e il suo animo, bisogna concludere che l’offesa è stata veramente grande.
Eppure di questa offesa lui non ne parla. Dobbiamo però affermare, e questo per ragioni tutte Paoline, che l’offesa non fu certamente contro la sua persona, bensì contro Cristo e il Vangelo che lui annunziava come Apostolo di Cristo Gesù.
Se lui è triste, la sua tristezza ha una connotazione cristologica, soteriologica, ha una connotazione del tutto teologica. È l’unica ragione per cui Paolo entra nella sofferenza.
La sua sofferenza non è mai a motivo della sua persona; essa è sempre in ragione del Vangelo e della Persona di Cristo che il Vangelo ha promulgato annunziandolo.
Perché Paolo, che non vuole recare tristezza nei cuori dei Corinzi, dice che ha scritto loro tra tante sofferenze e afflizioni?
Il motivo, dice lui, non è quello di rattristarli; bensì quello di rivelare tutto l’afferto che egli porta per loro. Questo affetto è immenso.
Egli si rattrista per loro, perché li vuole bene, perché li ama, perché vuole solo la loro salvezza, vuole che Cristo regni veramente nei loro cuori. Chi non ama non si rattrista, chi non ama rimane nell’indifferenza, dinanzi al disonore che altri recano a Cristo Gesù.
Chi non ama non fa problema di nulla di tutto ciò che avviene fuori della sua persona. Mentre chi ama soffre. L’amore è fonte di molta afflizione, non per noi, ma per gli altri. Ci si affligge per gli altri, perché non si vuole che essi siano nell’ignoranza di Cristo; perché loro non amano Cristo in modo vero, sincero, autentico, in modo perfetto.
Ci si affligge perché il loro cuore non batte con quello di Cristo e il Vangelo non è la luce piena che illumina la loro vita. Si affligge però e piange colui che ama di un amore intenso, vero. Anche Gesù ha pianto su Gerusalemme. Ha pianto per il rifiuto che la Città Santa ha fatto del dono della pace che Dio era venuto a portargli per mezzo del suo Unico Figlio.
Così Paolo, piange e si affligge per un motivo soprannaturale, teologico: perché i Corinzi non amano Cristo abbastanza, non lo servono, non gli credono, non hanno perseverato nella sua Parola, si sono lasciati trascinare dalle mode del momento e dai pensieri peregrini che navigano nella loro mente, senza alcuna meta sicura e senza alcuna certezza di verità; soprattutto, senza la verità della salvezza.
Sappiamo ora perché il cristiano deve soffrire e quando. La sua sofferenza deve essere una sola: l’amore di Cristo rifiutato, non accolto, tradito, vissuto male, rinnegato, dilapidato, trasformato in amore umano.
Per questi motivi, e solo per questi, il cristiano si può, anzi si deve rattristare; per tutti gli altri motivi egli deve essere lieto, lieto di offrire tutta la sua vita, anche tra gli insulti, le percosse e ogni altro genere di violenza, sapendo che è proprio nella sofferenza che si costruisce il regno di Dio e che il Vangelo si espande per il mondo intero.

PERDONO ALL’OFFENSORE

[5]Se qualcuno mi ha rattristato, non ha rattristato me soltanto, ma in parte almeno, senza voler esagerare, tutti voi.
Quando si parla contro Paolo a motivo di Cristo e mentendo si dice ogni sorta di male contro di lui, non si offende solo Paolo, si offendono tutti coloro che credono in Cristo.
Anche se è contro uno che si parla male a motivo di Cristo, si parla male contro tutti coloro che credono in Cristo Gesù.
Colui che ha offeso Paolo a motivo del suo ministero, della sua fede e del lavoro apostolico da lui svolto, non ha offeso solo Paolo, ha offeso tutti coloro che da lui sono stati condotti alla fede e per lui sono divenuti credenti nel Signore Gesù.
Non è un’esagerazione quella di Paolo, è una verità di fede, che trova il suo fondamento anche nella dottrina del Corpo mistico di Cristo.
Chi affligge un membro del Corpo di Cristo, affligge tutto il corpo e non soltanto quel membro.
Se un membro è offeso a causa di Cristo e l’altro membro non si sente lui stesso offeso, tradito, insultato, non soffre a causa di questo male diretto principalmente contro Cristo Gesù, significa che lui non è inserito vitalmente in Cristo, non vive con coscienza la sua appartenenza a Gesù Signore; il suo essere di Cristo è solo marginale, perché manca in lui la coscienza di essere con Cristo una cosa sola, un solo corpo e una sola vita.
Non è per una questione di amicizia, né tanto meno di riconoscenza, o per qualche altro legame umano, che la sofferenza di Paolo si è anche riversata sui Corinzi. Paolo e loro sono un solo corpo in Cristo, una sola vita; l’offesa contro Paolo a motivo di Cristo Gesù e del suo ministero apostolico, è anche offesa contro tutti i Corinzi. Loro e Paolo sono una cosa sola in Cristo; chi ha offeso Paolo ha offeso anche loro.
Paolo vuole che si prenda coscienza di questa unità. È da essa che nasce la vita della Chiesa. Da questa unità nasce anche la consolazione, la speranza, la difesa di Cristo; nasce tutto ciò che aiuta la comunità a difendere Cristo, i suoi ministri; nasce l’isolamento di colui che ha offeso, perché prenda coscienza del suo peccato e inizi una vera vita di conversione e di fede nella parola del Vangelo.
Questa unità è la forza della Chiesa. In essa, se è ben salda e compatta, si supera ogni avversità, si vince ogni male, si contrasta ogni pericolo, si avanza nella storia ben schierati. Il male ha paura di questa unità e con ogni mezzo tende a mettere i cristiani gli uni contro gli altri.
Ciò che in qualche modo sarebbe potuto succedere anche a Corinto, quando a causa di queste voci maligne, l’intera comunità avrebbe potuto rischiare di mettersi contro Paolo e dare voce all’offensore, voce di sostegno e di incitamento.
Per grazia di Dio, invece, non fu così. Lo attesta il dolore e l’afflizione che si è abbattuta sulla comunità a motivo di queste voci calunniose nei riguardi di Paolo a motivo del suo ministero di Apostolo e di servo del Vangelo di Cristo Gesù.
[6]Per quel tale però è già sufficiente il castigo che gli è venuto dai più,
Paolo mostra in questo versetto tutta la sua misericordia, la sua benevolenza, il suo cuore.
Egli, quando ha donato la vita a Cristo, l’ha donata sul suo modello ed esempio. Chi è Cristo? È colui che è morto per i suoi crocifissori, per i suoi carnefici, per i peccati di ogni uomo, fino alla consumazione dei secoli a partire dal primo peccato, quello di Adamo e di Eva.
Paolo sa che se egli vuole creare salvezza nei cuori anche egli deve dare la vita, e proprio per coloro che lo offendono. Egli deve offrire il suo dolore, la sua sofferenza, il suo martirio fisico e spirituale per la loro conversione.
In tutto egli deve agire come Dio. Se c’è una pena da infliggere, questa deve essere solo medicinale. Deve essere un aiuto particolare, per un momento particolare, affinché l’offensore prenda coscienza del suo peccato - che è sempre peccato contro Dio, anche se commesso contro un uomo - ne faccia ammenda, si converta ed entri nella vita.
Per Paolo colui che lo ha offeso ha già ricevuto il castigo. La comunità di Corinto avendolo ammonito e ripreso in quello che aveva fatto contro Paolo, gli ha già inflitto un castigo, una punizione, una pena.
Ci sono pene spirituali e pene materiali. A volte le pene spirituali sortiscono un effetto più grande che le stesse pene materiali. Sia le une che le altre, sono pene che devono durare quel tempo che basti perché il peccatore si converta e rientri nella verità della sua vita, nella sincerità e santità del Vangelo della salvezza.
Quando questo si verifica la pena non ha più ragion d’essere. Tant’è che Gesù stesso ha insegnato nel Vangelo che se un fratello pecca sette volte contro un altro fratello e per sette volte gli dice: perdonami. Colui che è stato offeso deve perdonare.
Lo stesso Gesù insegna a Pietro che il perdono non deve essere dato sette volte, ma settanta volte sette. Questa è la legge del perdono. Il perdono si deve dare dietro pentimento dell’offensore.
Infine, è anche questo insegnamento di Cristo, non solo bisogna dare il perdono se l’altro lo chiede; colui che è stato offeso deve fare lui il primo passo; deve lui offrire il perdono a colui che lo ha offeso.
Questa è la legge evangelica e questa legge chiede Paolo ai Corinzi di applicare.
[7]cosicché voi dovreste piuttosto usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore troppo forte.
Dal castigo bisogna passare alla benevolenza, al conforto, alla riappacificazione.
Bisogna che l’altro veda sempre in noi dei fratelli che sono pronti a sostenerlo, perché cammini spedito verso il regno dei cieli. Veda il nostro amore pronto ad accoglierlo, nonostante il suo errore, il suo peccato. La legge della carità deve essere lo stile dei seguaci di Gesù, deve essere la loro caratteristica, il segno di riconoscimento nel mondo.
I discepoli di Gesù si differenziano da tutti gli altri uomini per la forza del perdono e per la grandezza dell’amore che essi portano nel cuore e che riversano sull’umanità intera.
C’è, in questa raccomandazione di Paolo, un aspetto tutto attivo del perdono. Il perdono non deve solo consistere in una parola di dimenticanza, di non considerare le cose passate.
Questo non è il perdono secondo Cristo, non è il perdono che Paolo vuole che si dia all’offensore.
Il perdono secondo Cristo, secondo Paolo, secondo i cristiani è benevolenza e conforto. Con la benevolenza si vuole per il peccatore tutto il bene, lo stesso che vuole Cristo e il Padre dei cieli. La benevolenza di Cristo è il suo amore crocifisso per tutti coloro che hanno offeso il Padre suo che è nei cieli.
La benevolenza è dono della nostra vita a colui che ci ha offeso, perché attraverso questo sacrificio egli si converta ed entri nuovamente nell’amore di Cristo Gesù, diventi a sua volta un operatore di pace e di perdono per il mondo intero.
La benevolenza, nel suggerimento di Paolo, diviene conforto, parola di consolazione e di speranza, parola di fiducia e di amore che devono far risollevare il peccatore, perché riprenda anche lui la via dell’amore interrotta a causa del suo peccato.
Occorre che nel nostro cuore ci sia tutta quella sapienza e saggezza di Spirito Santo perché sappiamo eseguire quanto Paolo suggerisce in questo versetto.
Ci vuole l’amore di Gesù nel cuore e la sua forza avuta sulla croce per vivere tutte le esigenze del perdono e della misericordia.
Quanto il Signore ci chiede è il rinnegamento di noi stessi, la rinuncia a considerare la nostra persona. Ci chiede di pensare solo alle esigenze della salvezza di un’anima e per quest’anima dare tutto, compreso il dono della nostra vita perché possa rientrare nella legge dell’amore crocifisso di Cristo.
La benevolenza, il conforto, ogni altra parola di consolazione e di speranza devono aiutare il peccatore perché non soccomba sotto il peso del suo peccato, perché non pensi che gli uomini non perdonino e si senta quasi costretto moralmente e fisicamente ad abbandonare la comunità cristiana, per ritornare nuovamente ai suoi idoli e ad una vita di peccato, nel mondo.
Viene qui riproposto il fine del nostro essere cristiani. Non si è cristiani solo per noi stessi, si è cristiani per gli altri. Si è cristiani per attrarre tutto il mondo a Cristo Gesù.
Non solo bisogna guardare a quelli che sono di fuori, bisogna soprattutto fare attenzione a quelli che sono dentro, perché non ritornino fuori senza più rimedio.
Questo avviene se il cristiano si fa strumento di benevolenza e di conforto, di misericordia e di pietà anche verso quelli che sono dentro e hanno peccato contro di noi, hanno offeso membri della comunità, si sono resi colpevoli di peccato contro gli inviati del Signore.
Nessuno si deve perdere per causa nostra. Se qualcuno si perde, deve ascriverlo alla sua cattiva coscienza e alla sua volontà, determinata e fissata nel male.
Nessun cristiano deve avere sulla coscienza la colpa della perdita di un discepolo del Signore, perché lui si è sottratto a uno dei molteplici obblighi di carità verso di lui.
Gesù dice nel Vangelo che di quelli che il Padre gli ha dato nessuno si è perso, tranne il figlio della perdizione. Giuda si è perso perché lo ha voluto, lo ha desiderato, lo ha anche attuato.
Cristo ha fatto tutto, veramente tutto, fino all’ultimo perché si potesse salvare. La coscienza di Cristo è pura, santa, immacolata. Non potrebbe essere diversamente, altrimenti non avrebbe potuto compiere il sacrificio per togliere il peccato del mondo, se lui avesse escluso dal suo sacrificio un solo peccatore.
[8]Vi esorto quindi a far prevalere nei suoi riguardi la carità;
Finora ha esposto il principio, la regola del comportamento, ciò che si dovrebbe fare, anzi ciò che si deve fare.
Ora passa direttamente all’esortazione. Devono i Corinzi trasformare la dottrina di Gesù sul perdono in opera di perdono.
Se finora nei riguardi dell’offensore c’è stato rimprovero, biasimo, o qualche altra parola dura di condanna, è ora il tempo che si faccia prevalere la carità.
Essi devono avvolgerlo con tutto l’amore di Cristo Gesù, devono abbracciarlo con la stessa carità con la quale il Signore ha abbracciato noi.
Questo è il comando di Paolo. Non ha egli altri comandi da dare. Paolo è nel cuore del Vangelo, perché è nel cuore di Cristo.
Chi abita nel cuore di Cristo, chi ha il cuore di Cristo al posto del suo, altro non vede che la carità, altro non vive che la carità, altro non vuole che la carità.
Tutto deve partire dalla carità e tutto nella carità consumarsi. La carità è il fuoco che alimenta la vita cristiana; è la luce che attira a Cristo; è la vita che dona vita a chi vita non ha, o l’ha persa a causa di un suo peccato.
Quella comunità che sa amare con il cuore di Cristo, è una comunità che rende presente Cristo nella sua vita e nel mondo; è una comunità evangelica ed evangelizzatrice allo stesso tempo.
La forma migliore per predicare il Vangelo è la carità, l’amore, il dono della nostra comprensione e della nostra misericordia ad ogni uomo.
Bisogna che in ogni comunità vi sia anche colui che stimoli alla carità, alla carità esorti, la carità insegni, nella carità faccia crescere tutti i figli di Dio.
Occorrono in una comunità gli zelatori della carità. Sono queste persone squisite, operatrici di pace che sanno come portare la pace in un cuore e con la parola e con l’esempio si impegnano, spendono la loro vita, perché ogni peccato sia vinto e sconfitto dall’amore sconfinato che regna in un cristiano.
La formazione, l’educazione alla carità è la prima opera che bisogna impiantare in una comunità se si vuole che essa sia nel mondo luce di verità, faro di santità, porto di salvezza per ogni uomo.
[9]e anche per questo vi ho scritto, per vedere alla prova se siete effettivamente obbedienti in tutto.
Non c’è vita cristiana senza obbedienza alla verità, al Vangelo, alla legge di Cristo.
Paolo scrive ai Corinzi per mettere alla prova la loro obbedienza; vuole saggiare la consistenza del loro amore verso il Signore.
Chi ama il Signore lo ascolta, fa la sua volontà, mette in pratica i suoi precetti.
Chi ama il Signore lo imita in tutto. A questo il cristiano è chiamato: all’imitazione del suo Maestro e Signore: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”.
È giusto mettere alla prova i cuori? È giusto chiedere l’osservanza di una norma evangelica in tutto lo spessore del suo contenuto?
È giusto, anzi è un dovere per colui che deve guidare una comunità, sapere in ogni istante qual è la forza morale e spirituale di essa.
Se una comunità, in una legge così fondamentale quale il perdono e la misericordia, è manchevole, non è capace, non vuole, si tira indietro, pensa in modo differente da come pensa l’Apostolo del Signore, è il segno che nella comunità non ci sono progressi spirituali.
Sapendo qual è lo stato effettivo della comunità alla quale egli presiede, deve porre in atto tutti quei rimedi perché la comunità si allinei sul pensiero di Cristo e di Dio. Non può una comunità essere luce del mondo e sale della terra se non è radicata nella parola di Cristo Gesù.
Per questo è ben giusto che di tanto in tanto si provi la forza morale, spirituale, ascetica di una comunità, per sapere chi cammina secondo Dio e chi invece pensa secondo il mondo.
Da precisare che l’obbedienza non è al pensiero di Paolo, o alla sua esortazione; il pensiero di Paolo e l’esortazione che dona sono di Dio; sono l’essenza del Vangelo della salvezza. L’obbedienza è a Dio, è a Cristo, è allo Spirito Santo; l’obbedienza è alla verità, è alla sana dottrina, è al Vangelo che l’Apostolo del Signore interpreta e annunzia secondo la pienezza della verità e della santità in esso contenuta.
Chi presiede la comunità deve conoscere il valore reale dei discepoli del Signore, deve possedere una conoscenza perfetta del loro stato spirituale, altrimenti non può guidarli, non può esortarli, non può condurli verso la vita eterna.
È pessima cosa per chi presiede una comunità illudersi, pensare che si è nella dottrina e nella verità di Cristo, mentre in realtà si agisce, si pensa, ci si comporta come se Cristo mai avesse parlato e mai avesse donato la legge della carità, secondo la quale impostare ogni relazione all’interno e all’esterno della comunità, nel mondo e nella Chiesa.
[10]A chi voi perdonate, perdono anch'io; perché quello che io ho perdonato, se pure ebbi qualcosa da perdonare, l'ho fatto per voi, davanti a Cristo,
Paolo ci mostra in questo versetto la grandezza del suo cuore, la misericordia che lo avvolge, la carità che lo guida.
Egli ha già perdonato il suo offensore. Chiede però ai Corinzi che lo perdonino, perché anche lui lo perdoni. Se loro perdonano, anche lui perdona. Ma lui ha già perdonato.
Perché allora chiede questo ai Corinzi? Non lo chiede per sé, lo chiede per loro. Offre loro un buon motivo per perdonare il suo offensore.
A volte trovare i giusti motivi da offrire all’altro perché perdoni è la cosa più saggia che si possa fare. Un buon motivo smuove il cuore, libera la mente, predispone la volontà, alleggerisce la coscienza, dona vigore all’anima.
Un buon motivo arriva a tutto, anche a smuovere i cuori più induriti e le menti più chiuse. Tutto può un buon motivo.
Su questo dovremmo tutti educarci. La fede è anche saggezza, intelligenza dello Spirito Santo, sapienza divina dentro di noi.
Bisogna andare all’altro con l’intelligenza e con il cuore, con la mente e con lo spirito, con l’anima e con la volontà, con l’esempio e con la parola.
Niente deve essere tralasciato quando si tratta di trovare un motivo da offrire per favorire negli altri l’esercizio della carità, della misericordia, della benevolenza, dell’amore.
Oltre che chiedere il loro perdono e quindi il loro esempio perché lui accordi il perdono, Paolo aggiunge che non c’è nulla nel suo cuore per cui debba concedere il perdono.
Lo abbiamo già detto. Paolo ha già votato la sua vita al martirio; la sua vita è tutta di Cristo Gesù ed è vita crocifissa. Nessun male può essergli fatto che possa turbare il suo cuore o distoglierlo dalla legge perfetta della carità e dell’amore.
Perché i Corinzi non pensino che Paolo non perdona, egli rivela di aver già concesso il perdono. Tuttavia, se i Corinzi hanno qualche dubbio, perdonino loro per primi e lui sarà trascinato dal loro esempio a concedere il perdono a colui che lo ha offeso.
Paolo ha già perdonato. Lui deve essere modello perfetto nella carità. Chi presiede una comunità non può serbare nel suo cuore neanche per un attimo il rancore, l’odio, la sete di vendetta. Egli non può dimorare nell’ingiustizia e predicare il Vangelo della misericordia e dell’amore del Padre.
Paolo la sua coscienza ce l’ha sempre dinanzi a Cristo Gesù e alla sua verità. Da Cristo Gesù e dalla sua verità egli si lascia giudicare e il giudizio di Cristo e del suo Vangelo è di completa assoluzione. Non c’è nulla nel suo cuore che sia contro Cristo, contro la sua verità, contro il suo Vangelo.
[11]per non cadere in balìa di satana, di cui non ignoriamo le macchinazioni.
C’è un altro motivo per cui Paolo ha già perdonato. Egli non vuole neanche per un istante cadere in balia di satana.
Quando nel cuore c’è un pensiero cattivo, un pensiero cioè che è contro il Vangelo, contro Cristo, contro la sua carità, la sua verità, il suo amore, subito satana ne approfitta per inoculare attraverso di esso il peccato nella nostra mente, nel nostro cuore, nella nostra anima.
Per evitare che satana possa agire con la sua tentazione dentro di noi è necessario eliminare ogni pensiero, ogni immaginazione, ogni desiderio che non sia purissima verità del Vangelo.
Mantenendo pura e santa la nostra mente, satana non ha alcun aggancio per entrare dentro di noi e il suo pungiglione non potrà penetrare nella nostra mente e dalla mente passare al cuore e all’anima, per iniettare in essi il suo veleno di morte eterna.
Paolo conosce le macchinazioni di satana, conosce le sue seduzioni, conosce anche le sue tentazioni, conosce l’abilità con la quale sa intrufolarsi in un cuore, la velocità attraverso la quale può rovinare un’anima.
Alla macchinazione di satana Paolo oppone la libertà della mente e del cuore, la povertà del suo spirito, la ricchezza della sua misericordia, la sua volontà di essere in tutto come Cristo che dall’alto della croce offre il perdono ai suoi carnefici, a coloro che lo stanno tentando perché faccia qualcosa di potente, affinché credano che Dio lo ha inviato per la loro salvezza.
Cristo invece mostra loro la potenza della carità che si esprime tutta nel perdono implorato per loro, scusandoli presso Dio perché agiscono senza sapere quello che stanno facendo.
Allo stesso modo si comporta Paolo. Egli non dà spazio a che satana possa entrare nel suo cuore. Per questo, non solo ha già concesso il perdono, neanche c’era bisogno che lui lo concedesse, perché lui era già andato oltre e aveva letto ogni cosa alla luce del meraviglioso Vangelo della salvezza.
I Corinzi non si devono lasciare tentare da satana. Si lasciano tentare se subito non concedono il perdono e non manifestano tutto il loro amore verso colui che ha offeso Paolo.
Sappiamo in che consiste la manifestazione del loro amore: nella benevolenza e nel conforto, nell’accoglienza e in ogni genere di aiuto perché l’altro possa sentire il calore della carità di Cristo che si manifesta per mezzo di loro e riprendere con piena fiducia il cammino della perseveranza e della pace.
[12]Giunto pertanto a Troade per annunziare il Vangelo di Cristo, sebbene la porta mi fosse aperta nel Signore,
Continua in questo versetto la narrazione del viaggio missionario di Paolo. La Lettera non dice il luogo di provenienza. Dice soltanto che è giunto a Troade.
Ci dice però due verità che meritano la nostra attenzione, la nostra considerazione.
A Troade Paolo si reca per annunziare il Vangelo di Cristo. Questo è il fine di ogni suo viaggio. Egli non ha altro scopo se non quello di predicare Cristo, di testimoniare la sua verità, di chiamare ogni uomo all’obbedienza alla fede.
La seconda verità è questa: ciò che avviene nella sua vita, avviene solo per grazia di Dio. È Dio che lo spinge da un luogo all’altro, ma è anche Dio che apre le porte dovunque lui vi si reca.
In questa verità bisogna rileggere tutta l’azione missionaria della Chiesa. Bisogna prima di tutto chiedersi: perché per Paolo le porte si aprivano e per noi non si aprono? Forse Paolo aveva ricevuto da Dio un privilegio o una grazia particolare?
Ma non è forse volontà di Dio che si aprano le porte dei cuori al Vangelo? Perché allora con alcuni si aprono e con altri restano chiuse? Dipende da Dio o dall’uomo?
Dio apre sempre le porte del Vangelo, le apre però a colui che è disponibile alla mozione del suo Spirito; le apre a chi decide di andare per il mondo a predicare il Vangelo della salvezza; le apre a chi è di buona volontà e con il suo impegno si sacrifica perché il Vangelo giunga ad ogni cuore.
Dio agisce se l’uomo agisce. La grazia di Dio è tutta a disposizione del missionario del Vangelo; spetta però al missionario attingerla tutta e con essa presentarsi dinanzi all’uomo per chiamarlo a conversione e a salvezza. Se il missionario per pigrizia, per incostanza, per mancanza di volontà, perché si lascia conquistare dalla falsità, se pensa che Dio possa agire anche senza di Lui, la grazia non viene attinta e le porte del Vangelo restano chiuse.
Dio è sempre pronto a dare la sua grazia; la grazia di Dio è sempre a portata di mano del missionario. Bisogna sola attingerla e farla fruttificare.
Paolo va per il mondo e il Signore gli apre le porte; lui cammina e il Signore gli spiana la strada; lui predica e i cuori sono convertiti dallo Spirito Santo di cui il Signore lo ha arricchito per portare ogni uomo alla fede nella parola del Verbo della vita.
[13]non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedatomi da loro, partii per la Macedonia.
Quando però Paolo giunse a Troade trovò qualcosa che non era nelle sue attese. A Troade non trovò Tito, suo collaboratore e discepolo, chiamato qui da Paolo, fratello.
Egli si limita a dire semplicemente che non ebbe pace nello spirito; l’assenza di Tito a Troade gli causò questo turbamento.
Indica anche in questa assenza la ragione per cui si congedò da quelli di Troade e si diresse verso la Macedonia.
Perché Paolo è turbato nel suo spirito? Perché non c’è pace in lui a motivo dell’assenza di Tito?
Lui non ce lo dice. Ci dice il fatto, ma non il perché del fatto. Si potrebbe pensare che per Paolo era uno stile, un modo di essere, quello di compiere la missione apostolica insieme a collaboratori fidati, a missionari che come lui avevano votato interamente la loro vita alla causa del Vangelo.
È come se fosse venuta meno qualcosa di essenziale, una condizione senza la quale non è possibile predicare il Vangelo della salvezza.
Dobbiamo pensare che non sia un fatto o un evento puramente e semplicemente umano, ma qualcosa di più grande e precisamente uno stato non ottimale, anzi uno stato non conveniente per Paolo di continuare la predicazione in quella città. Per questo motivo abbandona Troade si avvia verso la Macedonia.
Questi uomini di Dio non finiscono mai di stupirci, sbalordirci con le loro decisioni. Paolo parte per Troade perché il Signore gli aveva aperto una porta, appena arriva se ne ritorna indietro perché Tito non è lì ad attenderlo.
Se ne va perché non può annunziare il Vangelo senza le modalità che lo stesso Vangelo richiede perché venga annunziato. Il Vangelo è testimonianza, prima che annunzio e la testimonianza si fa sempre sulla base di due testimoni. Paolo non ha il testimone del Vangelo, non annunzia il Vangelo, si dirige verso altri luoghi dove potrà con serenità e in tutta tranquillità annunziare il Vangelo della salvezza.
Sempre straordinari questi uomini di Dio. A volte compiono azioni che noi non comprendiamo; non comprendiamo perché non siamo nello Spirito del Signore e quanto loro fanno ci sembra che non sia proprio il caso di doverle fare. Noi giudichiamo secondo la nostra scienza non formata alla luce dello Spirito Santo; loro invece pensano secondo lo Spirito del Signore e secondo lo stesso Spirito decidono, agiscono.
Il Vangelo o si annunzia in un determinato modo, o non si annunzia affatto. Non si può compromettere la sua credibilità a motivo di una condizione che non può essere attuata perché uno dei testimoni, un collaboratore del tutto speciale, è assente.
In questa direzione bisogna cercare la soluzione e non in altre; in Paolo bisogna sempre cercare un motivo soprannaturale di ciò che lui pensa e decide, realizza ed attua e mai un motivo umano, della terra.
[14]Siano rese grazie a Dio, il quale ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero!
Paolo ringrazia Dio. È lui che lo fa partecipare al suo trionfo in Cristo. Cristo è il trionfatore sul peccato e sulla morte; è colui che ha sottomesso i nemici dell’uomo, sconfiggendoli per sempre.
Il trionfo è proprio del vincitore. E il trionfo consisteva anticamente in una pubblica acclamazione di gloria. Il mondo riconosceva la vittoria e acclamava il vincitore che portava sottomessi al suo carro di trionfo coloro che aveva sconfitti.
Il trionfo è di Dio. Questo trionfo Dio lo ha ottenuto per mezzo di Cristo, lo ha ottenuto in Cristo.
Paolo di questo trionfo di Dio in Cristo si sente partecipe e per questo ringrazia Dio. Il trionfo di Cristo è ora la diffusione del Vangelo, l’annunzio della parola, la proclamazione della volontà del Padre.
È con il Vangelo che si sconfigge il mondo, che si abbattono le tenebre, che si vincono le potenze del male. Paolo è un banditore del Vangelo, un proclamatore della verità, un araldo e un messaggero della volontà di Dio. Ogni qualvolta lui annunzia la parola della salvezza, lui collabora a che Cristo ottenga la vittoria piena e totale sul male, ma anche diviene partecipe di questo trionfo.
Nello stesso tempo, in Cristo è attore e partecipe. Con Cristo vince il male e con Cristo viene riconosciuto trionfatore del male e sul peccato.
Il Vangelo per Paolo è un profumo di vita, di salvezza, di redenzione, di luce, di pace, di amore, di giustizia, di santità.
Paolo è uno strumento, è lo strumento di Dio, perché questo profumo si diffonda in tutto il mondo, venga sentito da tutti gli uomini.
Questa immagine esprime una profondissima verità. Nel Vangelo non c’è solo l’invisibilità di una relazione che si deve stabilire tra Dio e la sua creatura in Cristo Gesù, per opera dello Spirito Santo.
Nel Vangelo c’è una visibilità, una “apparenza o evidenza” che è proprio della terra, è proprio della corporeità dell’uomo. All’uomo non si può parlare solo in termini spirituali, invisibili, in termini di fede e basta. All’uomo bisogna parlare anche attraverso la sensibilità del suo corpo. Ora è proprio del profumo essere avvertito dal corpo.
Dio parla all’uomo, anima e corpo. Molte volte parla all’anima per parlare al corpo, molte altre volte parla invece al corpo per essere ascoltato dall’anima.
Il profumo che è segno di bellezza interiore ed esteriore, segno di amore e di verità, è qualcosa che l’uomo avverte attraverso la sua corporeità e così dicasi anche del Vangelo. Che sia credente in Cristo deve essere percepito visibilmente dall’altro, dal profumo della verità, della giustizia, della santità, della purezza che l’uomo di Dio infonde nei cuori, nelle menti, negli spiriti.
Paolo è stato incaricato da Dio a portare il profumo di Cristo nel mondo intero. Questa è la sua missione.
[15]Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e fra quelli che si perdono;
Il profumo che Paolo porta nel mondo è quello di Cristo Gesù, è Cristo Gesù.
Paolo è incaricato da Dio a far sentire ad ogni uomo il profumo di Cristo, a far sentire Cristo profumo di Dio.
Ciò significa che non è sufficiente l’annunzio perché questo si compia; è necessario che tutta la sua vita sia impastata di questo profumo, tutta la sua vita sia una emanazione di Cristo, profumo del Padre, perché amore, carità e santità del Padre.
Questo profumo egli deve diffondere nel mondo, sia tra quelli che si salvano, sia tra quelli che si perdono.
Viene qui indicata la missione universale di Paolo. Egli deve annunziare il Vangelo dinanzi al mondo intero, senza fare distinzione tra persone: persone che si salvano e persone che si perdono.
Egli è obbligato a predicare la parola ad ogni uomo. Spetta poi alla singola persona rispondere domani al Signore sia della sua fede sia della sua non fede.
Importante però è che Paolo sia realmente, corporalmente questo profumo. Tutta la sua vita deve far trasparire verità, saggezza, intelligenza, fortezza, mitezza, pace e gioia, ogni altra virtù che è nel cuore di Cristo e del Padre.
Solo se Paolo sarà trasformato in Parola di Cristo, in Cristo e quindi in profumo di Cristo, egli potrà veramente annunziare il Vangelo al mondo. Sarà questo profumo che attrarrà molte anime a Cristo e le condurrà a Lui in un cammino di conversione e di fede al Vangelo.
La mancanza del profumo di Cristo in noi e di Cristo profumo di Dio fa sì che il nostro parlare di Gesù sia assai limitato. Non sentendo la gente il profumo di Cristo che pervade il nostro essere, difficilmente sarà portata a credere ciò che noi diciamo.
Così, se non diveniamo il profumo di Cristo nel mondo, non possiamo noi evangelizzare secondo verità.
Questo deve essere detto per ogni evangelizzazione che si vuole compiere nel mondo. Inutile sperare che qualche anima venga attratta dal Vangelo, se il profumo del Vangelo non prende la nostra vita e la rende del tutto cristiforme, una vita tutta intessuta di Cristo, fatta e costruita sul suo modello.
Più che modello interiore o esteriore, bisogna che ognuno indossi Cristo, si vesta di Lui. L’altro crederà nel Vangelo che noi annunziamo se Cristo è visto in noi e se noi siamo visti in Cristo. È questo il profumo che noi dobbiamo spargere nel mondo.
[16]per gli uni odore di morte per la morte e per gli altri odore di vita per la vita. E chi è mai all'altezza di questi compiti?
Si può notare in questo versetto il duplice effetto del profumo del Vangelo, o di Cristo, o della verità, che i missionari di Dio recano nel mondo, spargendone la fragranza.
Per chi lo accoglie e diviene figlio della verità e della luce, il profumo si trasforma in odore di vita per la vita.
Dona la vita eterna in questo tempo e dopo di esso, nei cieli nuovi e nella terra nuova.
Mentre per coloro che lo rifiutano, lo avversano, lo combattono, si scagliano contro il profumo si trasforma in odore di morte.
Dona la morte in questo tempo, poiché saranno per sempre abbandonati alle tenebre e al male, e anche nell’eternità, poiché allora la morte sarà morte eterna, lontananza da Dio per sempre, nelle tenebre eterne dell’inferno.
Oggi questa verità non è più creduta, come non sono più credute tutte le altre verità che si riferiscono alla condanna all’inferno di un uomo.
Il Vangelo invece si predica per sfuggire a questa condanna, per far sì che uno si salvi da questa generazione malvagia ed entri nella verità e nella giustizia che vengono da Dio.
Paolo altro non fa che ribadire lo stesso pensiero di Cristo Gesù: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato”.
Questo è il Vangelo e per questo fine viene predicato. L’obbligo di predicare il Vangelo è verso ogni uomo. Non dovrebbe esserci uomo sulla terra che non ascolti e non senta la Parola di Gesù risuonare ai suoi orecchi.
È obbligo della Chiesa e in modo del tutto speciale degli Apostoli, ai quali il mandato è stato conferito, trovare quelle forme e quelle modalità sempre attuali, perché il Vangelo giunga ad ogni uomo.
Sarebbe anche necessario ripensare certe forme di vivere il Vangelo tra coloro che già lo conoscono, al fine di dare molto più spazio alla sua predicazione tra coloro che non lo conoscono.
Occorre la stessa sollecitudine spirituale che animava Paolo; sollecitudine che lo spingeva sino ai confini del mondo perché nessun uomo restasse nell’ignoranza della verità della sua salvezza.
Paolo tuttavia aggiunge a questo versetto: E chi è mai all'altezza di questi compiti?
Non si tratta del compito di annunciare il Vangelo in sé, ma di annunciarlo facendolo divenire profumo di Cristo, della verità, della giustizia; facendolo sentire agli altri come vero profumo di salvezza.
Per questo occorre che l’apostolo e il missionario del Vangelo sia interamente trasformato da esso, in esso immerso, fino a divenire Vangelo vivente di Dio.
La sua vita e la sua parola, la vita di Cristo e la sua, la verità e la missione devono divenire in lui una sola realtà.
Paolo, sapendo che per molti missionari questo non avviene, confessa l’inadeguatezza tra Vangelo e missione. Da un lato c’è un Vangelo esigente, dall’altro un missionario che non si lascia totalmente conquistare dalla verità del Vangelo per divenire verità evangelica vivente.
Questa inadeguatezza non significa però impossibilità. Con la grazia di Dio, con la preghiera assidua, con l’invocazione dello Spirito Santo, è possibile progredire nella trasformazione del Vangelo in nostra vita.
Paolo è riuscito; i santi ci sono riusciti; possiamo riuscirci anche noi, a condizione che lo vogliamo e mettiamo ogni impegno a che questo avvenga in noi.
[17]Noi non siamo infatti come quei molti che mercanteggiano la parola di Dio, ma con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, noi parliamo in Cristo.
In questo versetto Paolo prende le distanze da molti annunciatori del Vangelo. Per lui molti sono coloro che mercanteggiano la parola di Dio.
La parola di Dio si mercanteggia quando si accomoda; quando si adatta all’uomo, quando si fanno sconti sulla sua verità, quando alcune verità si annunciano, perché non danno fastidio all’uomo e altre si tacciono perché non convengono.
Si mercanteggia la parola di Dio quando ci si mette d’accordo con gli uomini e con la loro natura debole e peccaminosa. Non si vuole dare loro fastidi e per questo del Vangelo si annuncia ciò che è gradito ed accetto all’uomo.
Chi fa questo sappia che reca un gravissimo danno al Vangelo e all’uomo. Il Vangelo è forza e potenza di Dio se annunciato nella sua verità. È la sua verità che salva e redime. Se lo si priva della sua verità, come farà esso a redimere e a salvare?
Il più grande nemico dell’uomo è colui che mercanteggia il Vangelo. A causa di questo suo mercanteggiare, per ingraziarsi gli uomini, egli li espone alla morte eterna. Chi espone un uomo alla morte eterna è nemico di Cristo, che è morto per ogni uomo, ed è nemico dell'uomo, perché non vuole il suo unico, vero, sommo bene.
Per Paolo invece c’è un solo modo di predicare il Vangelo ed è questo: con sincerità e come mossi da Dio, sotto il suo sguardo, parlando in Cristo.
Sappiamo cosa è per Paolo la sincerità: è la verità di Dio, di Cristo e dello Spirito Santo che è nel suo cuore e che è anche sulla sua bocca.
Dalla sua bocca non esce una parola che non sia di Dio, non sia di Cristo, non sia dello Spirito Santo. Non esce dalla sua bocca se non tutta la verità di Dio, di Cristo e dello Spirito.
Ma questo non gli basta. Non è lui a scegliere quale e quanta verità dire ad un cuore nel ministero dell’evangelizzazione.
È Dio che muove il suo cuore a parlare; se è Dio che muove il suo cuore è anche Dio che parla in lui e per mezzo di lui.
Paolo in questo si sente uno strumento tutto consegnato allo Spirito del Signore perché sia Lui a mettere sulla sua bocca la giusta parola, quella parola che tocca il cuore dell’altro e lo converte alla verità tutta intera del Vangelo.
Egli tutto questo lo fa con nel cuore il santo timore di Dio. Il timore del Signore è essenziale per un missionario. Con il santo timore si rimane sempre nella volontà di Dio e mai si esce fuori di essa.
Quanto Dio vuole, lui lo vuole; ciò che Dio non vuole, lui non lo vuole; ciò che Dio comanda di dire lui lo dice, ciò che il Signore vuole che non si dica, perché non è ancora venuto il tempo di dirlo, lui non lo dice.
Lo sguardo di Dio è quella luce soprannaturale che rende in tutto conforme alla volontà attuale di Dio ciò che l’Apostolo fa.
Questo timore di Dio è necessario ad ogni missionario del Vangelo, perché sia lui per primo a rimanere nella verità, perché sia lui per primo ad essere il profumo di Dio in questo mondo. Nessun missionario di Dio può essere profumo del Vangelo se non dimora in lui il timore del Signore, che è la ricerca costante, perenne della volontà di Dio nella sua vita.
C’è ancora un’altra modalità che rende vero l’annunzio di Paolo. Egli parla del Vangelo, annunzia la Parola essendo lui stesso in Cristo, divenendo ogni giorno di più verità in Cristo.
Questo richiede tutto quell’impegno ascetico perché si tolgano tutte quelle distanze spirituali che regnano tra un missionario e Cristo. Queste distanze sono nel compimento della volontà del Padre. Più il missionario del Vangelo conformerà la sua vita alla Parola di Dio, più egli si addentrerà in Cristo, con Lui formerà una sola vita, fino ad essere la vita di Cristo che vive nel missionario.
Paolo è arrivato a questa identità tra lui e Cristo, tra la sua vita e quella di Cristo. Egli sente nel suo cuore che c’è Cristo che vive totalmente in lui. Per questo egli può affermare che parla in Cristo, che annunzia in Cristo, perché Cristo è totalmente in lui e lui totalmente in Cristo Gesù.
Quando si arriva a tale perfezione di vita in Cristo, allora non si può predicare il Vangelo se non alla maniera di Cristo Gesù, nella santità vera, che è il vero profumo del Vangelo, ma anche nella volontà tutta donata a Dio fino alla consumazione di se stesso, dell’intera vita, per la causa del Vangelo. Anche a questa seconda identificazione Paolo è giunto. Sappiamo che tutta la sua vita fu spesa per il Vangelo e sappiamo anche che la sua predicazione è stata sigillata con il suo sangue. Il sangue di Paolo è il sigillo posto da Dio sul suo ministero e sulla verità del suo annunzio.
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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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