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COMMENTO DELLA LETTERA AI GALATI

Ultimo Aggiornamento: 20/09/2018 14:56
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21/12/2011 22:16
 
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LA SPIEGAZIONE
(1,13-6,10)

Dapprima Paolo si occupa del rimprovero menzionato per secondo, cioè che il suo vangelo l’abbia ricevuto da un uomo (v.12); egli lo confuta in 1,13-2,21. In seguito affronta il rimprovero citato per primo, cioè che il suo vangelo sia di tipo umano (vv.10,11); di questo rimprovero si occupa la seconda parte della lettera: 3,1-6,10 . La confutazione viene fatta ricorrendo a due prove scritturistiche che sono entrambe attinte dalla storia di Abramo e alle quali tutto il resto fa da commento. La tesi della seconda parte della lettera è questa: il vangelo specificamente paolino non è di tipo umano ma secondo la Scrittura.

 

2.1
Paolo non ha ricevuto il vangelo da un uomo
(1,13-2,21)

Poiché Paolo vuole addurre la prova di una origine direttamente divina del suo vangelo, deve, per forza di cose, procedere biograficamente. E tratta così le questioni: Come fece Paolo, che prima era fariseo e persecutore dei cristiani, a diventare un cristiano? (1,13-24 ). In che posizione stanno le autorità di Gerusalemme rispetto al vangelo da lui proclamato? (2,1-10). A conclusione l’apostolo racconta un incidente capitato ad Antiochia in Siria e dal quale si deduce che Paolo, in fatto di legge e di vangelo, una volta si oppose perfino a Pietro (2,11-21). Tutto ciò per far capire ai Galati che il suo vangelo "non proviene da uomo".

a) L’abbandono di Paolo alla "fede" e la sua prima attività missionaria (1,13-24).

13Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, 14superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. 15Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque 16di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, 17senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
18In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; 19degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. 20In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. 21Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. 22Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; 23soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». 24E glorificavano Dio a causa mia.

vv. 13-14. Il fatto che il vangelo di Paolo non provenga da un uomo, viene fondato e garantito mediante tutti i successivi dati biografici, il primo dei quali è conosciuto dai Galati ("avete sentito") presumibilmente da rivelazioni personali dell’apostolo circa la sua attività missionaria. Essi sono al corrente della sua condotta d’un tempo nel "giudaismo", cioè del suo modo di vivere secondo le rigide usanze della religione giudaica. L’apostolo descrive il suo modo specifico di vivere l’essenza del giudaismo:

• perseguitava oltre misura la Chiesa di Dio e cercava di mandarla in rovina (i verbi all’imperfetto indicano una certa durata, una continuazione nel tempo). Secondo Ph.H.Menoud, qui Paolo usa il verbo porthèin, rovinare, "in senso morale". Paolo, quando perseguitava la chiesa, si sarebbe comportato da antipredicatore fanatico contro la chiesa, cercando con l’aiuto della Scrittura di confutare il kèrigma dei cristiani, secondo il quale Gesù crocifisso era il Messia promesso e di provocare in tal modo il loro sfacelo morale. La sua persecuzione dei cristiani sarebbe quindi stata anzitutto di carattere "teologico". Forse la rabbiosa antipredicazione di Paolo si rivolgeva particolarmente contro quelle cerchie della giovane chiesa che, come Stefano, assumevano un atteggiamento di dichiarata opposizione e critica nei confronti della legge. Paolo ora ammette che era la chiesa di Dio che egli credeva di dover perseguitare con il suo superzelo farisaico.

• Inoltre egli faceva sempre più progressi nel giudaismo, nella coscienziosa osservanza delle tradizioni dei padri. Così dicendo Paolo si qualificava come seguace dei farisei, i quali, a differenza dei sadducei, attribuivano il massimo valore alla fedele osservanza delle tradizioni dei padri, cioè alla "siepe attorno alla Torà" (Abot 1,1b). Ciò che egli vuole ottenere accennando alla sua condotta di vita rigidamente giudaica è questo: i Galati devono sapere che prima della sua conversione egli era immune da influssi cristiani. L’ideale della sua esistenza era una vita conforme alla legge giudaica, e di vangelo egli non ne voleva sapere. Anzi era un nemico della comunità di Gesù.

vv. 15-17. I Galati potevano credere che Paolo, dopo la sua conversione, avesse subito allacciato relazioni con gli apostoli della prima ora e con la comunità di Gerusalemme per essere meglio informato della dottrina cristiana. Ma ciò non è avvenuto. A Paolo qui non importa principalmente parlare dell’evento di Damasco, ma di dimostrare di non aver "ricevuto da un uomo" il suo vangelo. Tuttavia fa capire come abbia interpretato la cristofania: quella fu l’ora di grazia della sua chiamata. Sullo sfondo di questo racconto stanno le "vocazioni" di Ger 1,5 di Is 6,1-13 e l’autopresentazione del Servo di Jahvè (Is 49,1-5): Paolo intende la sua coscienza della vocazione apostolica alla luce della coscienza di missione dei profeti dell’Antico Testamento. Dio, da sempre, aveva messo gli occhi su Paolo e per la sua grazia l’ha chiamato all’apostolato. Dietro l’apostolo sta Dio: questa precisazione giova anch’essa all’intenzione della lettera (1,1). E dietro l’accenno alla separazione e alla vocazione da parte di Dio si trova l’autocoscienza apostolica di Paolo, che in Rm 1,1 si presenta come "apostolo per vocazione". In concreto questa vocazione ad essere apostolo si manifestò in quella rivelazione divina che gli fece conoscere Gesù Cristo come il "Figlio di Dio". Secondo 1 Cor 9,1 Paolo ha "visto Gesù nostro Signore"; secondo 1 Cor 15,7 Cristo gli è "apparso", e in questo caso l’apostolo equipara questa apparizione di Cristo risorto alle apparizioni avute dagli altri testimoni da lui enumerati. "Perciò l’esperienza fatta da Paolo a Damasco è una vicenda pasquale, anzi nel Nuovo Testamento egli è l’unico a riferire autenticamente sulla propria esperienza pasquale" (O.Betz). Egli stesso in Gal 1,16 interpreta questa apparizione del Risorto e l’aver visto Gesù (1 Cor 9,1) come una rivelazione attraverso la quale Dio gli fece conoscere Gesù come "Figlio suo". Per Paolo la conoscenza teologica fondamentale che gli fu comunicata dall’evento di Damasco è questa: Gesù è il Figlio di Dio. Egli intese questo avvenimento come sua vocazione a diventare apostolo (1,15) e come localizzazione originaria del suo vangelo, che egli ha annunciato anche ai Galati (1,11) e che si identifica con il "vangelo di Gesù Cristo" (1,7). La vocazione di Paolo ha uno scopo preciso, voluto da Dio: annunciare tra i pagani il Figlio suo. Quindi, in definitiva, il contenuto del vangelo che Paolo deve annunciare è Cristo, il Figlio di Dio. Perché aggiunge ancora: "tra i pagani"? La rivelazione era collegata a un incarico ufficiale di svolgere la missione tra i pagani oppure Paolo, così dicendo, pensa al suo accordo con le "colonne" della comunità di Gerusalemme (Gal 2,9)? Accennando alla missione tra i pagani, l’apostolo mira al medesimo scopo che costantemente persegue da 1,11 in poi: dimostrare che il suo vangelo annunciato ai pagani e, di conseguenza anche ai Galati, risale a una diretta rivelazione divina e non a una mediazione umana, come risulta anche dalle sue ulteriori considerazioni a partire dal v.16. "Se la rivelazione del Figlio abbia avuto come conseguenza il suo immediato annuncio da parte dell’apostolo tra i pagani non si può dedurre con certezza dal nostro testo. Ma Paolo non sta neppure a riflettere su questo problema. A lui preme unicamente di mettere in risalto che la rivelazione di Dio avvenutagli include l’incarico dell’annuncio ufficiale di Cristo tra i pagani" (Schlier). La frase "subito, senza consultare nessuno" vuole respingere ogni affermazione contraria a quanto sta scrivendo: io non mi sono consigliato con nessuno in materia di vangelo. L’affermazione di Paolo in Gal 1,16 è stata messa in relazione con Mt 16,17; infatti l’investitura dei due apostoli sembra avvenuta in modo simile: per mezzo di un’immediata rivelazione di Dio su Gesù come Figlio di Dio, alla quale "carne e sangue" sono estranei. Paolo non utilizzò nemmeno l’altra possibilità per farsi istruire in materia di vangelo: "nemmeno salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me". Il perché non lo sappiamo; l’apostolo afferma semplicemente che così fu, e per la sua argomentazione questo fatto risulta naturalmente assai opportuno.

vv. 18-20. Solo dopo tre anni Paolo si reca a Gerusalemme e ivi si incontra con Pietro. Il motivo della sua partenza da Damasco, secondo la sua stessa presentazione dei fatti in 2 Cor 11,32-33 fu questo: "In Damasco l’etnarca del re Areta fece sorvegliare la città dei Damasceni per catturarmi, e attraverso una finestra io fui calato giù in un cesto lungo le mura e così sfuggii dalle sue mani". Il verbo istorèin, tradotto con il verbo visitare, significa molto di più: secondo Giovanni Crisostomo (P.G. 61,651) Paolo visita Pietro "per vederlo e onorarlo"; secondo Gerolamo (P.L. 35,21-10) "per manifestare il reciproco amore fraterno incontrandosi di persona". Dunque secondo questi esegeti della Chiesa antica la visita di Paolo a Pietro in Gerusalemme, era destinata al capo supremo, conosciuto e riconosciuto, della Chiesa e a onorarlo come tale. Tuttavia bisogna guardarsi dal voler ricavare troppo da questo verbo istorèin; esso significa solitamente "visitare allo scopo di fare la conoscenza" (Bauer). Ad ogni modo anche i padri della Chiesa sono concordi nell’ammettere che Paolo non andò a Gerusalemme per farsi istruire da Pietro, magari sull’essenza del vangelo. Lo scopo principale di questo breve soggiorno fu soltanto una visita di cortesia a Pietro. Che questa relazione sulla sua visita a Gerusalemme corrisponda a piena verità, Paolo lo assicura espressamente rivolgendosi ai Galati nel v.20 con una formula di giuramento, che chiama a testimone Dio. Ciò deve indurre i Galati a fidarsi della sua versione e non di quella dei suoi avversari. "Una simile assicurazione in luogo di giuramento... si può capire solo se c’era un’altra spiegazione di questa visita di Paolo a Gerusalemme come ad es. At 9,26-30" (Eckert). Riportiamo At 9,26-30: "Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come a Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore, e parlava e discuteva con gli ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere, i fratelli lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso". Se teniamo presente che Paolo era giunto a Gerusalemme perché fuggiva da un complotto dei giudei di Damasco che volevano ucciderlo (At 9,23) non possiamo certamente pensare che fosse venuto per un confronto o un approfondimento dottrinale con Pietro o con gli altri della Chiesa madre.

vv. 21-24. Anche dopo questa visita a Gerusalemme Paolo non cercò nessuna occasione per farsi istruire in materia di vangelo, ma si recò lontano da Gerusalemme, in territori nei quali nessuno aveva ancora svolto attività missionaria, cioè nelle regioni di Siria e di Cilicia. Con Siria intende soprattutto la zona di Antiochia e con Cilicia il territorio di Tarso, sua città natale. Le comunità cristiane della Giudea non conoscono Paolo di persona. Per l’apostolo è importante per la sua argomentazione ribadire questo punto; infatti neppure da loro (giudeocristiani) egli può essere stato istruito nel vangelo. Soltanto essi sentono dire che il loro persecutore di una volta, "ora annuncia la fede che un tempo cercava di distruggere". Il suo cambiamento di idee e la sua attività missionaria sono per loro un incentivo alla lode a Dio. Con la loro lode a Dio, essi riconoscono che è Dio stesso ad agire in Paolo. Conseguentemente essi lo hanno riconosciuto anche come legittimo missionario dei pagani. Da parte loro non fu mossa alcuna obiezione contro la sua persona e il suo vangelo.

b) Il vangelo di Paolo e le autorità di Gerusalemme (2,1-10)

1Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Bàrnaba, portando con me anche Tito: 2vi andai però in seguito ad una rivelazione. Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani, ma lo esposi privatamente alle persone più ragguardevoli, per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano. 3Ora neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere. 4E questo proprio a causa dei falsi fratelli che si erano intromessi a spiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù, allo scopo di renderci schiavi. 5Ad essi però non cedemmo, per riguardo, neppure un istante, perché la verità del vangelo continuasse a rimanere salda tra di voi.
6Da parte dunque delle persone più ragguardevoli - quali fossero allora non m’interessa, perché Dio non bada a persona alcuna - a me, da quelle persone ragguardevoli, non fu imposto nulla di più. 7Anzi, visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi - 8poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani - 9e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi. 10Soltanto ci pregarono di ricordarci dei poveri: ciò che mi sono proprio preoccupato di fare.

Servendosi della sua autobiografia Paolo ha dimostrato che il suo vangelo non deriva "da uomo", ad es. dalla tradizione dei primi apostoli. Ora egli è in grado di riferire che le autorità di Gerusalemme hanno addirittura riconosciuto ufficialmente il suo vangelo "indipendente" e anche la sua altrettanto "indipendente" attività missionaria tra i pagani. In questo modo le autorità di Gerusalemme si schierano dalla sua parte e non da quella dei suoi avversari.

v. 1. Paolo scrive che per quattordici anni poté svolgere attività missionaria senza essere minimamente disturbato, citato o ispezionato dalle autorità di Gerusalemme. Oltre che Barnaba, giudeocristiano e missionario sperimentato, che godeva la particolare fiducia della prima comunità (At 4,36-37; 9,27), Paolo prende con sé un pagano convertito al cristianesimo, non circonciso, di nome Tito, finora del tutto sconosciuto alla comunità di Gerusalemme. Certamente al fatto di prendere con sé Tito era congiunta una precisa intenzione di Paolo; la comparsa di un cristiano convertito dal paganesimo nel centro del giudeocristianesimo doveva costituire una prova per la comunità e le autorità di Gerusalemme: riconoscono solo teoricamente o anche praticamente il vangelo presentato loro da Paolo? (v.2).

Si sarebbe visto dal modo di comportarsi con Tito! Paolo cita esplicitamente Tito, il cristiano convertito dal paganesimo, non circonciso, perché in lui egli ha un argomento a suo favore di fronte ai suoi avversari in Galazia. Il comportamento delle autorità di Gerusalemme che non hanno costretto Tito a farsi circoncidere dà torto ai suoi avversari che sostenevano: "Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete essere salvi" (At 15,1).

v. 2. Poiché Paolo parla di una "presentazione" del suo vangelo alle autorità di Gerusalemme se ne potrebbe dedurre che fu invitato dalle autorità della Chiesa di Gerusalemme a rendere conto del suo "particolare" annuncio del vangelo. L’apostolo previene una simile supposizione scrivendo: "Io però salii a Gerusalemme come risposta a una rivelazione" e non per essere stato citato. Qui apokàlupsis significa "una direttiva divina, come quelle che venivano impartite nelle assemblee delle comunità protocristiane per bocca dei profeti" (Bornkamm). "Una direttiva da parte di un profeta, come in At 11,28; 21,4. 10-11, non si potrebbe escludere, specialmente se Paolo, insieme con Barnaba, fosse venuto a Gerusalemme come rappresentante della Chiesa antiochena"( Schlier). "Il profeta Agabo aveva raccomandato alla comunità antiochena non solo la raccolta di una colletta, ma anche l’invio di Paolo e Barnaba a Gerusalemme...; a ciò si riferisce Paolo in Gal 2,2: per ordine di una rivelazione" (Stählin). In questo modo Dio stesso lo spinge a ricevere la conferma della giustezza del suo annuncio da parte degli altri apostoli a Gerusalemme. "E io presentai loro il vangelo che annuncio tra i gentili". Con questa aggiunta Paolo precisa che la sua attività è stata ed è quella di missionario tra i pagani e fa intendere che il suo annuncio tra di loro ha una determinata peculiarità, che egli espose a Gerusalemme. "Perché si accertasse se mai corro o ho corso invano": non esprime un dubbio o una paura dell’apostolo che cerca autenticazioni o approvazioni del suo vangelo. Personalmente non dubitava di essere sul retto sentiero col suo annuncio del vangelo. I motivi del suo agire li espone nel v.4: "a causa di falsi fratelli insinuatisi" i quali evidentemente sostenevano che il vangelo di Paolo non era quello vero e quindi non serviva per la salvezza. "Correre invano" non può avere il senso di lavorare senza successo, ma vuol dire non avere Dio dalla propria parte e avere perduto la comunione d’insegnamento con i primi apostoli. L’apostolo non ha mai dubitato personalmente della verità del suo vangelo, ma i falsi fratelli sì (v.4), e questo è il motivo che lo ha indotto a presentare il suo vangelo a Gerusalemme.

A chi presenta Paolo il suo vangelo a Gerusalemme? L’apostolo deve aver presentato il suo vangelo due volte: prima all’assemblea della comunità ("ad essi") e poi privatamente a quelli più ragguardevoli, alle autorità. Di essi citerà Giacomo, Cefa e Giovanni (v.9). La concordanza fra le autorità della Chiesa di Gerusalemme e Paolo non si attua con un’adesione di Paolo al vangelo della comunità di Gerusalemme, ma piuttosto con un’adesione del loro al suo: essi devono venire a capo della questione che si era aperta con il messaggio di Paolo, cioè con la proclamazione tra i pagani del vangelo libero dalla legge. Paolo comprendeva perfettamente le conseguenze disastrose di un’eventuale scissione della Chiesa in un ramo giudeocristiano ed in uno etnicocristiano. Proprio il desiderio di evitarla lo spinse verso coloro che erano apostoli prima di lui. Si trattava di convincere la Chiesa di Gerusalemme. Personalmente egli era convinto della giustezza del suo parlare e del suo agire. A ciò aveva provveduto Dio stesso (1,15-16).

v. 3. A questo punto ognuno si aspetterebbe che Paolo racconti come hanno reagito le autorità di Gerusalemme all’esposizione del suo vangelo. Ma prima di narrare le risposte teoriche presenta un atteggiamento pratico delle autorità della comunità cristiana. Il trattamento riservato a Tito di fatto già implicava il riconoscimento del vangelo di Paolo da parte delle autorità di Gerusalemme, il che venne poi ancora sanzionato espressamente in un accordo formale. Tito inoltre costituiva il caso appropriato per il fatto che era etnicocristiano incirconciso. "Neppure Tito, benché fosse un etnicocristiano incirconciso, venne costretto alla circoncisione". Questa frase fa supporre che da parte dei giudeocristiani fossero stati fatti dei tentativi per costringerlo alla circoncisione. Ma Paolo non acconsentì a questi tentativi "neppure per un momento" (v. 5). La menzione di questo avvenimento nella lettera era molto importante per i Galati perché costoro, per influsso degli avversari di Paolo, a quanto pare, stavano per farsi circoncidere (5,2). La decisione presa a Gerusalemme nei confronti di Tito aveva valore per tutti i pagani che si convertivano al cristianesimo.

vv. 4-5. "I falsi fratelli insinuatisi" sono dei giudeocristiani che osservano criticamente il comportamento dei cristiani venuti dal paganesimo senza avere un incarico ufficiale per farlo (cfr. At 15,24): per questo Paolo li chiama "intrusi". Paolo certamente ricorda i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme che comparvero ad Antiochia (v.12) e sicuramente anche quelli che inaspettatamente avevano fatto la loro comparsa in Galazia. Poiché questi giudeocristiani non sono stati mandati né chiamati da nessuno, l’apostolo li designa giustamente come falsi fratelli "intrusi". Lo scopo degli intrighi dei falsi fratelli è di "rendere schiavi" gli etnicocristiani. Stando a 3,23; 4,5; 5,1 ss. si può intendere soltanto la schiavitù della legge dalla quale Cristo li ha liberati. Ad essi l’apostolo non si piegò neppure per un momento. Lo scopo della condotta inflessibile dell’apostolo è molto chiaro e sostanziale: "affinché la verità del vangelo fosse mantenuta presso di voi". Si tratta di ciò che è sostanziale: l’essenza della verità del vangelo. Quindi per Paolo la verità del vangelo si manifesta nella libertà dalla legge giudaica. I colloqui in Gerusalemme ebbero dunque questo risultato: le autorità non imposero nulla a Paolo.

v. 6. Con la parentesi sui "ragguardevoli" Paolo vuol far notare che a lui importa non la loro persona, ma unicamente il fatto che in quell’occasione non gli imposero nulla. Sul passato, sulle qualità personali o sul prestigio dei "ragguardevoli" in altri campi Paolo non vuole soffermarsi, perché anche Dio non ne tiene conto. In conclusione, le autorità di Gerusalemme non solo non hanno imposto nulla all’apostolo ma hanno concluso con lui un accordo positivo.

vv. 7-9. La struttura di questi versetti è complicata. La frase principale è questa: "Giacomo, Cefa e Giovanni diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione". Essi "vedono" che Paolo è missionario dei pagani incaricato da Dio, come Pietro è il missionario dei giudei. Con ciò si riconosce che la missione tra i pagani è legittima al pari di quella tra i giudei. I capi della comunità di Gerusalemme riconoscono il fatto che Paolo è stato incaricato da Dio della missione ai pagani. Per mezzo di Paolo ha operato Dio stesso, come per mezzo di Pietro ha operato Dio nella missione tra i giudei. In tal modo essi riconoscono già Paolo come apostolo legittimo dei pagani, il che trova poi la sua espressione "ufficiale" nell’accordo riferito successivamente. Quindi non ci si limitò ad un accomodamento in linea di massima, ma si diede all’accordo addirittura un carattere di validità giuridica.

Per quale motivo il nome di Giacomo (fratello del Signore e vescovo di Gerusalemme) viene preposto a quello di Pietro? Pochi versetti dopo Paolo racconta di giudeocristiani che vennero ad Antiochia "da parte di Giacomo" (v.12). Probabilmente questi giudeocristiani si sono appellati a Giacomo di Gerusalemme nella loro presa di posizione contro la "libertà" degli etnicocristiani, e forse si sono comportati così anche gli avversari di Paolo presso i Galati. Nei loro confronti Paolo può mettere in rilievo che proprio lo stesso apprezzato fratello del Signore (1 Cor 15,7; At 12,17; 15,13; 21,18) a Gerusalemme, per primo, diede a lui e a Barnaba la stretta di mano per significare la comunione, riconoscendo così il loro lavoro missionario fra i pagani, compreso l’annuncio del vangelo libero dalla legge. Per evitare in futuro conflitti tra sostenitori della prassi missionaria giudeocristiana e quella etnicocristiana, la cosa migliore era che nelle terre pagane il vangelo fosse ulteriormente annunciato senza obbligare alla legge giudaica, e nei paesi giudaici, invece, senza esigere la rinuncia al modo di vivere dei giudei.

L’accordo, suggellato con la stretta di mano, fra i missionari dei pagani e quelli di Gerusalemme, servì in definitiva a mantenere la pace all’interno della Chiesa, senza con ciò scendere a compromessi sulla sostanza del vangelo.

v. 10. Ai missionari dei pagani non fu imposta proprio alcuna condizione di legge. Solo una cosa dovevano fare: ricordarsi dei poveri. Il testo non dice chi fossero questi poveri. Ma Paolo aggiunge che egli si è dato premura di fare questa cosa, e tale osservazione lascia intendere che il desiderio delle "colonne" fu poi da lui soddisfatto nella colletta premurosamente organizzata per i poveri di Gerusalemme (Rm 15,26-28; ecc.). Poiché, secondo Gal 2,10, questa colletta fu espressamente auspicata dalle autorità di Gerusalemme e Paolo la promosse con zelo ed energia nelle sue comunità etnicocristiane, essa da ambedue le parti fu intesa più che un semplice segno di fattivo interessamento per i poveri. Con essa si doveva soprattutto esprimere la volontà di attuare la comunione fra la parte giudeocristiana e quella etnicocristiana della Chiesa, e certamente anche riconoscere nella comunità di Gerusalemme la fonte originaria della salvezza (Rm 15,27: "Infatti se i gentili hanno ottenuto di partecipare al loro possesso spirituale, essi devono rendere loro dei servizi nel campo materiale"). Concludendo possiamo dunque dire che ogni appello degli avversari di Paolo alle autorità di Gerusalemme era completamente fuori luogo. Inoltre l’indipendenza e la verità del vangelo di Paolo può trovare conferma in un caso particolarmente "scabroso" del quale Paolo tratta nel brano seguente.

c) L’incidente di Antiochia (2,11-21)

11Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Bàrnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei? 15Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, 16sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno».
17Se pertanto noi che cerchiamo la giustificazione in Cristo siamo trovati peccatori come gli altri, forse Cristo è ministro del peccato? Impossibile! 18Infatti se io riedifico quello che ho demolito, mi denuncio come trasgressore. 19In realtà mediante la legge io sono morto alla legge, per vivere per Dio. 20Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. 21Non annullo dunque la grazia di Dio; infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è morto invano.

Sulla base della precedente esposizione dei fatti e delle decisioni prese a Gerusalemme, si potrebbe pensare che le tensioni suscitate dalla comparsa dei "falsi fratelli" giudaisti fossero definitivamente risolte e le questioni chiarite.

Ma l’incidente avvenuto in Antiochia dimostra che le cose non stavano proprio così.

Come fu possibile che ciò avvenisse dopo la stretta di mano a Gerusalemme? A questa domanda si deve anzitutto rispondere: per la situazione particolare della comunità di Antiochia, che era mista, cioè composta da ex giudei e da ex pagani. I contenuti degli accordi di Gerusalemme nella formula riportata da Paolo era questo: "Noi ai pagani, essi ai giudei". Questa decisione era chiara. Ma come si doveva procedere nella prassi, nei luoghi in cui esisteva una comunità cristiana mista, come ad Antiochia? Sembra che, in un primo momento, nella comunità cristiana di Antiochia siano convissuti senza attrito ex giudei ed ex pagani, uniti nella comunione di mensa. Anche Pietro si comportò così "finché giunsero alcuni da parte di Giacomo", cioè della comunità di Gerusalemme, i quali si scandalizzarono per tale comunione di mensa. Pietro cadde nell’incertezza e si tirò indietro, il che indusse Paolo "a opporsi in faccia a lui" e a mostrargli le conseguenze del suo comportamento, e questo dovette provocare una discussione sul rapporto tra legge e vangelo. Forse i giudeocristiani provenienti da Gerusalemme erano disposti ad ammettere l’esenzione degli etnicocristiani dalla legge, ma ciò che non riuscivano ad accettare era questo: che anche un giudeo (come Pietro) fosse esente da una vita conforme alla legge, quando si fosse fatto cristiano. Secondo loro, un ex giudeo doveva anche da cristiano restare fedele alle tradizioni paterne. Questo problema non era stato risolto a Gerusalemme. E per un giudeo tale problema era veramente grande. Perciò è comprensibile che essi si siano fortemente scandalizzati del comportamento di Pietro che mangiava con gli etnicocristiani e abbiano manifestato vigorosamente il loro risentimento. Ma se avessero avuto ragione, sarebbe stato riconosciuto un ulteriore valore salvifico della legge e la verità del vangelo sarebbe stata di nuovo messa in pericolo. Paolo lo capì subito: di qui il suo appassionato intervento contro Pietro. Paolo può dimostrare di aver difeso la verità del vangelo perfino contro Pietro, quando fu necessario. Anche se i suoi avversari in Galazia si appellassero a Pietro, qui trovano una risposta puntuale, come sopra l’avevano trovata nel caso si fossero appellati a Giacomo. Questo accenno era al tempo stesso la prova più convincente che Paolo non aveva ricevuto il suo vangelo "da un uomo"; altrimenti come avrebbe potuto osare di procedere contro lo stesso uomo-roccia in nome del vangelo?

v.11. L’incidente di Antiochia rappresenta un’ulteriore componente dell’argomentazione con la quale Paolo mostra che il suo vangelo non proviene "da uomo". In che cosa consisterebbe di fatto l’ "opporsi in faccia" risulta solo dal v. 14: di fronte alla comunità radunata, Paolo chiede severamente conto a Pietro del suo comportamento. E la colpa di Pietro consiste non solo nel timore e nella vile ipocrisia, ma anche nel pericolo che, per effetto del suo singolare comportamento, Pietro minaccia l’unità della comunità, e particolarmente nella sua incoerenza teologica, come Paolo gli fa notare. Paolo ha visto nella condotta di Pietro non tanto un attacco contro di sé, ma contro la verità del vangelo, un attacco al quale bisognava opporsi.

v. 12. Ogni comunione di mensa con i pagani era, per giudei e giudeocristiani di stretta ortodossia, un orrore (At 11,3). Anche Pietro in principio pensava così, finchè Dio non gli cambiò la mente (At 10). Comunque, in Antiochia egli sedeva a mensa con gli etnicocristiani senza farsi problema "prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo". È Giacomo che li ha mandati? Oppure sono arrivati da Gerusalemme alcuni giudeocristiani senza alcun incarico da parte di Giacomo? Stando al testo non si può prendere nessuna decisione a proposito. Paolo afferma semplicemente il fatto del loro arrivo e le conseguenze che esso provocò nella comunità di Antiochia. Molti esegeti sostengono che questi giudeocristiani furono mandati effettivamente da Giacomo ad Antiochia per compiere un’ispezione sui giudeocristiani, sui quali Giacomo, fratello del Signore, pretendeva di esercitare una giurisdizione. Ciò spiegherebbe anche il timore di Pietro nei confronti di questi ispettori. Paolo non si mette neanche a discutere con costoro, ma con Pietro perché costui per Paolo non è un uomo qualunque, ma l’uomo al quale spettano le ultime decisioni.

I giudeocristiani provenienti da Gerusalemme hanno una rigorosa mentalità legalistica e non possono concepire che si possa andare a tavola coi pagani, anche se questi - come essi stessi - sono diventati cristiani. Perciò si scandalizzano di una tale comunione di mensa in Antiochia; a quanto pare, per questo motivo, rivolgono rimproveri particolarmente aspri a Pietro e questi perde coraggio e si tira indietro. Il timore di Pietro si inquadra bene con il suo carattere (processo di Gesù); esso è espressione della sua viltà e della sua propensione a lasciarsi influenzare.

v. 13. Paolo giudica la condotta di Pietro una "ipocrisia", come risulta dall’osservazione: "Essi simularono insieme a lui". Probabilmente upòkrisis, ipocrisia, vuole semplicemente caratterizzare l’incoerenza del comportamento di Pietro. L’ipocrisia di Pietro si deve interpretare in base al v. 16, ossia a partire dalla migliore "conoscenza" di cui Pietro certamente dispone: come cristiano, egli "sa" precisamente che l’uomo viene giustificato dalla fede e non dalle opere della legge (At 10, 43-48). Quindi egli agisce contro la sua coscienza. Dunque il rimprovero di ipocrisia non riguarda il comportamento tattico di Pietro, ma la sua condotta teologica. Il peggio però fu che anche Barnaba, il coraggioso compagno di lotta di Paolo a Gerusalemme, cominciò a cedere e "si lasciò trascinare dalla loro simulazione"; e probabilmente questo improvviso voltafaccia di Barnaba colpì personalmente Paolo ancor più di quello di Pietro.

v. 14. Paolo vede subito che Pietro, Barnaba e gli altri "non camminano diritto per ciò che riguarda la verità del vangelo". Contro la loro migliore convinzione tentano di conseguire la verità del vangelo per vie traverse, facendo un giro attraverso il giudaismo, quindi non per la via diretta che porta a Cristo. La via è determinata dalla meta: essa passa attraverso la fede e non attraverso le opere della legge. Poiché Paolo vede Pietro su una strada sbagliata, che allontana dalla verità del vangelo, gliene chiede conto apertamente in presenza di tutti. "Paolo prende sempre tutta la Chiesa locale come testimone dei suoi interventi personali" (Bonnard). Fino a questo momento, con larghezza di vedute, Pietro ad Antiochia non ha tenuto conto della legge giudaica sui cibi. Ma ora, sotto la pressione dei nuovi arrivati da Gerusalemme egli vive nuovamente alla maniera dei giudei. Così, di fatto, costringe gli etnicocristiani a vivere in modo giudaico se vogliono continuare a mantenere anche esteriormente quella comunione ecclesiale che si manifesta nella comunione di mensa. La discussione teologica, alla quale Paolo passa al v.15, sia pure formalmente è indirizzata a Pietro, ma in realtà si rivolge già ai destinatari della lettera, i quali sono proprio personalmente interessati al tema di questa esposizione.

Paolo dimostra le conseguenze teologiche del vivere in modo giudaico: esso annulla il vangelo, perché ripropone nuovamente la speranza della salvezza nelle opere della legge, cosa che adesso anche i Galati vogliono fare.

vv. 15-16. Paolo parte da un fatto innegabile: esistono anche giudei che credono in Gesù Cristo: lui stesso, Pietro, Barnaba... Essi dovettero pur aver un motivo quando si fecero cristiani credenti; e il motivo è questo: essi "sanno" che la giustificazione dell’uomo si ha mediante la fede in Gesù Cristo, e non con l’adempimento delle opere della legge. Che cosa si intende precisamente con queste "opere della legge" che non procurano la giustificazione? Considerato il contesto di Gal 2,16 si pensa alle opere connesse con il modo di vivere giudaico, prima di tutte la prescrizione sui cibi. Ma dagli altri passi della lettera (3,2. 5.10) si ricava che come "opere della legge" non si vuole indicare soltanto le prescrizioni rituali del giudaismo, compresa la circoncisione, ma le "opere" dell’uomo deducibili dalla totalità della legge, dalla Torà. Questa constatazione è confermata dalla Lettera ai Romani (3,20.27-28; 4,2; 9,11-12. 31-32: 11,6).

La giustificazione avviene per fede; ciò è valido per sempre e, secondo l’esegesi scritturistica di Paolo, è già stato valido da sempre come mostra l’esempio di Abramo (Gal 3,6-12; Rm 4, 2-3. 23-24). Al posto del principio della legge, che comunque non portava alla giustificazione (Gal 3,11-12), subentra il principio della fede. La fede è la risposta appropriata a una concreta offerta di grazia da parte di Dio. La fede giustificante ha il suo fondamento oggettivo in quell’evento salvifico che è inscindibilmente congiunto con la persona e l’opera redentrice di Gesù Cristo; essa per ciò non è una fede qualsiasi, ma "fede in Gesù Cristo". Quindi la fede della giustificazione non è neppure semplicemente - per quanto sia già gran cosa - fiducia nella bontà di Dio. La via della giustificazione dai peccati e del loro perdono da parte di Dio, per i giudei passa attraverso "le opere della legge". Al contrario, per Paolo la via della salvezza non passa più per le opere della legge, ma esclusivamente attraverso la fede in Gesù Cristo. Cristo è subentrato al posto della legge. L’appropriazione della salvezza non si compie più mediante le opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede nel Cristo morto e risorto. In questa prospettiva "la legge è stata il nostro pedagogo fino all’arrivo di Cristo" (3,24). Ma chi viene giustificato dalla fede? La risposta di Paolo è chiara: l’uomo, ogni uomo senza eccezione; che sia giudeo o pagano non fa differenza.

Paolo continua il suo discorso: Anche noi giudeocristiani, benché per nascita fossimo giudei e dapprincipio ci aspettassimo la salvezza dalla legge, ci siamo tuttavia decisi a scegliere la fede in Cristo proprio perché noi siamo giunti alla convinzione che la giustificazione non proviene dalla legge, ma dalla fede in Cristo. "Noi diventammo credenti in Gesù Cristo": con ciò l’apostolo indica la specificità dalla quale tutto dipende e che distingue la fede cristiana da quella giudaica. Dunque la conversione dei giudei al vangelo ha questo scopo: "essere giustificati dalla fede in Cristo" .

v. 17. Il versetto presenta difficoltà di interpretazione. Se adesso Pietro e gli altri giudeocristiani si ritirano dalla comunione di mensa con gli etnicocristiani ciò suscita facilmente l’impressione che con questa comunione di mensa abbiano agito contro la loro coscienza, compiendo qualcosa di male. E tuttavia sono loro stessi convinti che la giustificazione si deve ricercare solo in Cristo e non nelle prescrizioni rituali del giudaismo riguardanti i cibi. Essi vivevano in Antiochia secondo le norme dei pagani (v. 14). Se ora convertendosi di nuovo alla legge giudaica sono nel vero, la conseguenza non può essere che questa: con il loro sforzo di cercare la giustificazione in Cristo, e non nelle opere della legge, sono diventati anch’essi peccatori come i pagani che non hanno la legge. E allora si pone la domanda che è tutta un rimprovero: Cristo sarebbe dunque un complice del peccato, sarebbe al servizio del peccato? "Non sia mai!".

v. 18. Il versetto spiega perché chi tornasse a condurre una vita secondo la legge, per ciò stesso si qualificherebbe da sé come un "trasgressore" della Torà e quindi come un pagano senza la legge. Con i termini contrapposti demolire - ricostruire, Paolo sembra riprodurre un’espressione rabbinica. Dietro l’aggettivo indeterminato "queste cose" si nasconde la concezione della legge come parete divisoria, che nell’opinione giudaica separa i giudei dai pagani. Pietro ha abbattuto questa parete divisoria quando praticava la comunione di mensa con gli etnicocristiani, adesso comincia di nuovo a ricostruirla. Se lo fa, vuol dire che egli stesso giudica la sua precedente comunione di mensa con gli etnicocristiani come qualcosa di peccaminoso, e così si classifica spontaneamente come un trasgressore della legge.

v. 19. Paolo propone un’idea del tutto nuova e a prima vista incomprensibile: "Mediante la legge sono morto per la legge". Il pensiero potrebbe essere più chiaro se dicesse: "Mediante la fede e il battesimo sono morto alla legge"; ma questo complemento non c’è. Il commento teologico a Gal 2,19 si trova in Rm 7,1-6, specialmente nel v. 6. La legge, benché fosse per sua natura una forza vitale (Gal 3,12) e santa (Rm 7,12), di fatto è diventata una potenza di morte (Rm 7,10). Alla legge è stata congiunta da Dio la promessa della vita, ma ciò vale solo per colui che l’adempie (Gal 3,12). Chi non l’adempie è votato alla sua maledizione apportatrice di morte. E, in realtà, secondo Paolo nessuno è in grado di adempiere le rigide esigenze della legge. Perciò tutti "per mezzo della legge" sono vittime della morte, "morti". Da Dio stesso con la legge è stata offerta all’uomo la possibilità della vita o della morte: "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male" (Dt 30,15). All’uomo la scelta: se adempie la legge, ha la vita dinanzi a Dio; se la trasgredisce, incorre nella maledizione mortifera della legge. E Paolo non ha esitazioni nel constatare la morte dell’uomo "ad opera della legge"! Ma come può aggiungere: "affinché io viva per Dio"? Gli enunciati di questo verso sono troppo concisi e non esplicano sufficientemente la teologia che sottintendono. Solo conoscendo la teologia complessiva delle Lettere ai Romani e ai Galati, si può comprendere la connessione concettuale fra questo "essere crocifisso con Cristo" e il "morire a discapito della legge". Dietro l’espressione "io sono crocifisso con Cristo" si nasconde un punto capitale della teologia battesimale di Paolo, secondo cui il battesimo è un misterioso morire con Cristo (Rm 6,3-9; Col 2,12; 2Cor 6,9). Per Paolo nel battesimo non ci si ferma al morire con Cristo, ma contemporaneamente è un venire risuscitati con lui a una vita nuova. In Cristo il battezzato ha ricevuto un nuovo Signore, che è subentrato al posto della legge (Rm 7,1-6). Allora, se è vero che noi siamo stati sospinti nella morte dalla legge, il morire fu però un morire insieme a Cristo, il Vivente, cosicché ora noi viviamo "per Dio". La legge non può più avanzare alcuna pretesa su di noi; la sua maledizione mortifera è stata abolita da Cristo (Gal 3,13). Da Cristo è stata creata una situazione di salvezza completamente nuova, con la quale è eliminata una volta per tutte l’antica situazione di morte, nella quale ci trovavamo mentre imperava la legge.

Veramente, secondo l’Antico Testamento il fine della legge era "una vita per Dio" ma, data la debolezza della carne e la peccaminosità dell’uomo da essa provocata, questo fine non veniva raggiunto. Ora invece, grazie alla morte in comunione con Cristo, esso deve e può essere raggiunto. Come fa capire l’espressione "affinché io viva per Dio", questa vita nuova è intesa anzitutto in senso etico, cioè essa si manifesta esistenzialmente nell’obbedienza all’imperativo divino (Rm 6,2.4.11 ss.; 7,4; 2Cor 5,15; 1Tm 6,18-19). È vero che chi è morto alla legge non è più tenuto a compiere le opere della legge, ma non è neppure abbandonato al libertinismo pagano e alla mancanza di legge dei pagani, ma ora è più che mai obbligato a vivere per Dio, perché Cristo vive in lui. Di ciò si tratta nel v. seguente.

v. 20. Il verbo "vivere" del v.19 ha fornito all’apostolo uno spunto decisivo, che dà origine a quattro frasi contenenti il medesimo termine. Da Cristo oramai è stato inaugurato l’eone nuovo, escatologico, che pone fine all’eone antico, contraddistinto dalla legge. Dunque la dichiarazione "Cristo vive in me" ha un senso ontologico ed escatologico. Per il fatto che Cristo, fondatore e fondamento del nuovo eone, vive nel battezzato, questi vive davvero nel futuro salvifico, già iniziato, della signoria di Cristo e quindi è sottratto all’eone della legge. Sennonché questa "esistenza in Cristo" del battezzato ha una sua particolare proprietà: per adesso è ancora un’esistenza "nella carne". Ma benché il battezzato "adesso" viva ancora "nella carne" e perciò diretto alla morte fisica, egli tuttavia "vive nella fede" del Figlio di Dio. "Nella carne" e "nella fede" richiamano le condizioni esistenziali tuttora esistenti: io sono ancora "nella carne" e non vivo ancora nella contemplazione, ma "nella fede". E la fede nella quale vivo non è una fede generica, ma precisamente fede "nel Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me". Poiché il Figlio di Dio mi ha amato e si è sacrificato per me, la mia esistenza carnale è un’esistenza di piena fiducia e di ferma speranza. Cristo non mi abbandonerà alla sorte che tocca all’esistere nella carne, a quell’essere fisicamente votato alla morte, ma farà sì che la mia vita vera - ricevuta nel battesimo e per il momento nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3) - abbia il sopravvento definitivo sulla morte. La vita trascorsa nella fede è sicuramente un’esistenza provvisoria, ma con la certezza che il Cristo vivente in me e morto per me vincerà il mio destino di morte congiunto all’esistenza nella carne (Rm 7,24; 8). Mentre l’esistenza "nella carne" destina alla caducità e alla morte, l’esistenza "nella fede" indirizza al futuro di Dio. "La fede, infatti, è anticipazione del futuro" (Bisping).

v. 21. "Non invalido la grazia". La grazia è il fatto che Cristo ha dato se stesso per me. Il Figlio di Dio è andato alla morte "per me", cioè al mio posto e in mio favore. Questo è un avvenimento di grazia perché io fui graziato e ricevetti la vita di Cristo, senza la legge, ma per puro amore di Dio verso di me. Perciò qui chàris assume il significato di "ordinamento di grazia" che si contrappone ad un altro ordinamento, al sistema della legge. Con questo versetto Paolo propone un aut-aut: o la legge o il vangelo! E che il divino ordinamento della grazia sia concepito in contrasto con la legge risulta chiaro dal seguito dello scritto: "Infatti se la giustizia proviene dalla legge, allora Cristo è morto invano". Paolo afferma che la salvezza escatologica, la giustificazione viene soltanto dal Cristo morto e risorto. E la via che conduce ad essa è la via della fede. "L’antica possibilità di connessione con la legge, che pone il giudeo di fronte a Dio e che si realizza nell’adempimento dei precetti, è abolita coll’"in Cristo", ossia è sostituita da una nuova, più stretta connessione, che concede agli uomini di partecipare di Dio mediante suo Figlio, apparso nella carne. Il nuovo principio di questa partecipazione è la fede, che per il cristiano ha abrogato il vecchio principio della legge, che collegava il giudeo a Dio" (Schoeps). Secondo Paolo la legge era in funzione e preparazione alla nuova alleanza che Dio avrebbe fatto attraverso il suo Messia. Ora il Messia è venuto e quindi la legge ha adempiuto la sua funzione "che indirizzava al di là di se stessa" ossia al Cristo. "La legge è stata il nostro pedagogo finché non fosse venuto il Cristo, affinché fossimo giustificati dalla fede" (Gal 3,24). La legge come via di salvezza è superata dalla morte vicaria ed espiatrice di Cristo. Altrimenti Cristo sarebbe morto invano; la sua venuta nel mondo e la sua morte sarebbero state superflue. A dire il vero anche i giudeocristiani, o più esattamente i giudaisti cristiani, non negavano la portata salvifica della morte di Cristo. Però vedevano il rapporto legge-Cristo diversamente da Paolo. Anche secondo loro "Cristo morì per i nostri peccati", perché noi non abbiamo soddisfatto le esigenze della legge e anche in futuro più volte non le soddisferemo. Proprio per questo, Cristo con la sua morte espia. Ma a loro giudizio ciò non significa che per questa ragione la legge sia messa fuori gioco; anche in seguito la Torà continuerà a sussistere in tutta la sua completezza e validità. Per chi si sottrae alle sue esigenze, anzi la dichiara nulla, anche la morte di Cristo non ha un’importanza salvifica. Così i "giudaisti" fra i giudeocristiani cercavano di prendere sul serio e l’una e l’altra cosa: la Torà con il suo permanente valore e, insieme, la croce di Cristo. Paolo invece vede diversamente la relazione tra legge e Cristo, tra il dominio della legge e il dominio della grazia. Egli è convinto che con la risurrezione di Cristo è già cominciato il futuro eone della vita eterna. La conseguenza per Paolo è che così ha avuto inizio anche un nuovo ordinamento di salvezza con una nuova via di salvezza: il tempo in cui tutto è regolato dalla grazia di Dio, in cui la giustificazione dell’uomo avviene "per fede" e non più per le opere della legge. Quindi, nel pensiero di Paolo Cristo segna l’autentica cesura della storia: ciò che stava prima di lui è l’eone antico, contrassegnato dal potere della legge che conduce alla morte; ciò che comincia con lui è l’eone avvenire, nuovo, nel quale viene concesso ai credenti mediante il battesimo e la fede il dono escatologico della vita, e così è già completamente infranto il dominio della morte esercitato dalla legge. Per Paolo, Cristo è "la fine della legge per chiunque crede" (Rm 10,4). A questo riguardo vogliamo ricordare che Paolo ha elaborato la sua teologia della legge non contro il giudaismo, ma contro i suoi avversari "giudaisti" cristiani. In Galati egli lotta contro un falso vangelo cristiano.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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