Nuova Discussione
Rispondi
 
Pagina precedente | 1 2 3 | Pagina successiva

VITE ESEMPLARI

Ultimo Aggiornamento: 22/06/2021 17:38
Autore
Stampa | Notifica email    
OFFLINE
02/12/2011 22:27
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

" Tutti Possono Cambiare il Mondo!" Dominque Lapierre è un grande personaggio dei nostri tempi, conosciuto più che altro come straordinario scrittore della " Città della Gioia" Non tutti sanno, però che Dominique si prodiga anima e corpo, insieme alla moglie a vivere realmente le vicende che narra nei suoi libri.
Ha donato milioni ai poveri di Calcutta, suscitando la solidarietà dei lettori e trasmettendo in loro la gioia di donare e di aiutare il prossimo.
Dominique Lapierre, un uomo straordinario, ammiratore di Ghandi e amico di Madre Teresa di Calcutta.
 Anche la moglie è una donna stupenda!
Pochi come loro hanno aiutato, guarito, educato tanti poveri. Hanno dato speranza e amore ai meno fortunati, instillando in tutti la capacità dell' uomo di donare e gioire per questo e di superare tutte le avversità che la vita ci pone davanti
OFFLINE
02/12/2011 23:43
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

COLLETTA ALIMENTARE

Una cattedrale di sacchetti della spesa

 

30/11/2011 - In Campania, tra cassintegrati, universitari indiani, troupe televisive e una pentolaccia di spaghetti, si costruisce un popolo, perché «ciò che ci fa felici non si compra, c'è bisogno di qualcuno che ce lo doni»

Davanti al supermercato per una giornata intera, o al magazzino del Banco Alimentare Campania fino alle 4.30 del mattino, consegnando una busta o mettendo a posto la enorme quantità di cartoni che cominciavano ad arrivare sin dalla mattina. Ciascuno ha dato il suo contributo, ciascuno ha portato il suo mattone per costruire la grande cattedrale che è il proprio cuore, qualcosa in più di un imponente gesto di carità che coinvolge in un solo giorno 130.000 persone.
Si, perché non c’è nulla di più grande della nostra persona, costretta da un gesto apparentemente semplice e banale a riscoprirsi bisognosa, povera, messa lì, di fronte a centinaia di sconosciuti, a fare la cosa più naturale e sempre più difficile: domandare.
Così non fai in tempo ad incassare il "no" di chi di fronte alla crisi non fa altro che imprecare ed indignarsi, che un uomo distinto, col suo sacchetto, ti bussa dietro la spalla per consegnartelo dicendo: «Ho perso il lavoro, sono in cassa integrazione e ricevo anche io il pacco da qualche mese. Ma oggi è il giorno in cui bisogna dare, non ricevere».
Tanti ragazzi coinvolti, moltissimi incontrati grazie all’impegno di alcuni giovani che, dopo aver perso tre amici in un incidente stradale, hanno costituito un’associazione, la "XV Maggio", e ci hanno permesso di proporre la Colletta ad oltre mille ragazzi dell’Umberto, un importante Istituto di Napoli. L’esempio più semplice di come, anche una tragedia può essere la sfida per un cambiamento. E così è avvenuto in tantissime altre scuole, il Sacro Cuore, il Verna, la Scherillo, il Pansini. Ragazzi con gli occhi sgranati davanti una proposta semplice e decisa. Oppure l’incontro con i ragazzi di Portofranco: «Abbiamo bisogno di mangiare, di essere aiutati a studiare e abbiamo bisogno di essere felici… E questo non ce lo possiamo comprare, c’è bisogno di qualcuno che ce lo doni».
Sin dal mattino vedi un popolo che si muove di fronte ad un invito, un popolo in cui ci sono tutti: poveri e ricchi, bisognosi e potenti. Perché la Colletta è davvero un gesto per tutti. Il Presidente della Provincia di Napoli, Luigi Cesaro, che, messa la pettorina, sta davanti al supermercato con i giovani dell’Istituto Sacro Cuore. Prima di andare via mi prende sotto braccio e mi dice: «È sempre commovente vedere la passione in ogni cosa che fate, una passione che trasmettete anche a me». Oppure il Presidente della Camera di Commercio di Napoli, Maurizio Maddaloni, che, invitato la stessa mattina all’incontro della Cisl, ad un certo punto, in pubblico, al termine del suo intervento, dice a Bonanni: «Adesso però devo lasciarvi perché devo andare a fare una cosa molto importante: la Colletta Alimentare! Che senso ha fare il presidente della casa delle imprese se non si ha a cuore il benessere del popolo?». E così anche il Presidente della Camera di Commercio di Caserta: «Quando ho incontrato voi ho capito cosa vuol dire avere a cuore il bene comune». A Salerno anche il Presidente della Provincia Edmondo Cirielli e l’assessore Lello Ciccone hanno aderito alla Colletta Alimentare: «Sostenere voi significa qualcosa in più che sostenere le tante persone che aiutate. Significa sostenere uomini che hanno il desiderio di costruire in un momento difficile come questo».
Torno al magazzino e vedo lì una decina di ragazzi di colore ad aspettare che arrivino i furgoncini per scaricare. Penso tra me e me: «Ma chi li ha mandati qui?». Mi si avvicina Donatello, professore universitario a Ingegneria, e mi dice: «Sono dieci ragazzi indiani. Sono stati scelti tra i 3.000 ragazzi più bravi del loro Paese e sono qui per uno stage. Ieri li ho invitati a fare la Colletta con me». Parlavano solo in inglese. Ho scambiato quattro chiacchiere. Per il resto, mentre scaricavano le scatole dai furgoni, continuavano a dire a tutti, col sorriso : «Thank you, thank you…».
Comincia la serata ed il gioco si fa duro. Sono ormai tantissimi i furgoni in fila da scaricare. Pasta e ceci e fagiolata con porcini per tutti. Un bicchiere di vino per ingannare il freddo nell’attesa del proprio turno.
C’è anche una troupe della tv della Diocesi di Salerno. Il Vescovo ha voluto che venisse al Banco di sera, per riprendere quello che accadeva. «Cos’è la Colletta Alimentare? Andate lì stasera a vedere».
La giornalista arriva per un'intervista, ma poi resta un’ora a riprendere, come calamitata da quello spettacolo. La incrocio dicendole: «È ancora qui? Ma non doveva andare via presto?». E lei: «È passata un’ora e non me ne sono neanche accorta!».
Ad un certo punto regna la classica confusione organizzata, di cui noi ormai siamo specialisti.
Ma bisogna fermarsi. Luisa, dalla mattina davanti al supermercato, viene da Acerra e, invece di tornare a casa con gli amici, ha portato tutti al Banco per festeggiare i suoi trent’anni scaricando cartoni. Bisogna almeno tagliare la torta! Allora tutto in pausa, come un film, per alcuni minuti. «Tanti auguri… Tubighi…». E poi di nuovo play, al lavoro ancora più commossi di prima.
Sono le 4.00 del mattino ormai. Siamo in dirittura d’arrivo. Ma chi ha lavorato senza mai fermarsi ha fame. Allora spaghettata per tutti. Mancano i piatti, ne sono finiti più di cinquecento! Allora tutti a mangiare nella stessa pentola, perché, alla fine di una giornata così, si può condividere anche una pentolaccia di spaghetti.
Ma non è finita. Tra le tante interviste che la giornalista ha fatto durante la serata, mi ero accorto che anche il grande Giannino, in pensione da un po’ di mesi ed ogni giorno al Banco per aiutarci, era stato intervistato. Giannino è un uomo di poche parole. «Mi ha chiesto perché venivo qui, cosa ci trovavo. Ho detto solo che ho trovato una grande casa ed una famiglia allargata».
Allargata, come il nostro cuore, ancora una volta cambiato. La bellezza cambierà il mondo. Davvero possiamo ripetere, come don Giussani, che le forze in grado di cambiare il mondo sono le stesse in grado di cambiare il cuore dell’uomo.
Si contano le tonnellate. Ce l’abbiamo fatta! Abbiamo superato quota 300.
Prima di chiudere ed andare a letto, mi rivengono in mente le parole che Gesù disse ai suoi amici, di ritorno, a due a due, dai villaggi della Galilea dove avevano compito miracoli in nome suo: «Non rallegratevi perché avete compiuto grandi opere… Rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nel cielo».
Così con questa gratitudine possiamo andare a letto, stanchi morti, ma più certi e contenti.
Roberto, Napoli
OFFLINE
15/12/2011 11:49
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

OFFLINE
15/12/2011 11:59
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Da una un piccolo servizio possono nascere grandi cose

Camillo De Lellis dopo molte peripezie si ritrovò tra la categoria degli '"incurabili "

Era già stato per un periodo all'Ospedale romano di S. Giacomo, dove si trattavano appunto le più orribili malattie e vi si era perfino impiegato per curare gli altri malati.

Avevano dovuto cacciarlo via perché era soprattutto " malato di molto terribile cervello ": attaccabrighe, prepotente, negligente, sempre alla ricerca di soddisfare la passione del gioco.

Si calava persino dalle finestre, nottetempo, per andare a cercare barcaioli e facchini con cui intrattenersi fino all'alba, giocando.

Tornò, per la seconda volta, all'ospedale come novizio cappuccino. L'atteggiamento era assai diverso, caritatevole, però riservato. Camillo pensava soprattutto al suo convento. Finalmente poté tornarvi e la piaga ricominciò ancora a suppurare. I Cappuccini decisero la sua definitiva dimissione. E Camillo tornò a quell'ospedale a cui la malattia sembrava incatenarlo.

E' bene qui fermarsi a descrivere qual era la situazione degli ospedali del tempo, sapendo che comunque quelli di Roma erano i migliori del mondo.

All'ospedale degli incurabili giungevano i malati più ripugnanti, i rifiuti della società, spesso orribili a vedersi, che venivano addirittura scaricati sulla porta dell'edificio.

Normalmente vi erano disponibili una settantina di letti, che diventavano cinquecento ad anni alterni quando si somministrava una cura radicale (la cura dell'acqua del legno, costosa e celebre a quel tempo). Era soprattutto la cura della sifilide, ma anche di chi pensava di doversi in qualche modo " smorbare". La vollero anche Torquato Tasso per il suo " umore malinconico " e Aldo Manuzio per gli occhi. Durava 40 giorni.

 

Ma se gli ospedali erano abbastanza celebri dal punto di vista della medicina di allora, erano terribili per un altro verso. A mala pena trovava chi volesse prendersi cura di quegli esseri ripugnanti, perfino i preti rifuggivano dall'assistenza religiosa. E i malati erano in mano a dei mercenari; alcuni, delinquenti costretti a quel lavoro con forza, altri, per non aver diversa possibilità di guadagno. Ciò che veniva è per noi inimmaginabile.

Ecco una pagina di un cronista del '600:

 

" Erano forzati... a servirsi, per così dire, della feccia del mondo cioè de Ministri ignoranti, banditi o inquisiti d'alcun delitto, confinandoli per penitenza e castigo dentro li suddetti luoghi...

Almeno certa cosa era che li poveri agonizzanti stavano allora o tre giorni interi, stentando e penando nelle loro penose agonie se ch'alcuno mai gli dicesse una pur minima parola di consolatione o conforto...

Quante volte... per mancamento di chi gli aiutasse e cibasse passavano li giorni interi che non gustavano alcuna sorta di cibo? Quanti poveri gravi, per non essergli rifatti i letti appena qualche volta tutta la settimana, si marcivano ne' vermi e nelle bruttezze?

Quanti poveri fiacchi levando da letto per alcun loro bisogno, cascando in terra morivano o si ferivano malamente? Quanti spasimandosi della sete non potevano haver un poco d'acqua per sciacquarsi rinfrescarsi la bocca? Onde molti come arrabbiati dal grande ardore sappiamo che si bevevano l'orina...

Ma questa che dirò hora chi la crederebbe mai? Quanti poveri morenti non ancor finiti di morire erano da quei giovani mercenari poco accorti pigliati subito da' letti e portati così mezzi vivi tra' corpi morti per essere poi sepolti vivi?...".

 

Non sono esagerazioni, perché riscontri simili abbiamo da altri ospedali.

Quando Camillo e i suoi cominceranno a lavorare nell'ospedale maggiore di Milano (la " Ca' granda ") troveranno che i luoghi di decenza sono in tale stato che Camillo li considera " causa di morte":

" Iddio sa quanti ne morirono l’anno per questo andare a quelli sporchi, fetosi e fangosi lochi! ".

 

Oltre ad una generale incuria, ci sono poi le violenze fisiche con cui i mercenari trattano i malati e li costringono letteralmente con pugni e schiaffi a prendere le medicine previste. A volte li sollevano dai letti con tale violenza che i malati gli muoiono in braccio.

Agli " Incurabili " Camillo è ormai noto per la sua conversione. Ben presto lo nominano Maestro di Casa, colui cioè che ha la responsabilità immediata dell'andamento economico ed organizzativo. Comincia a mettere ordine.

Sa per esperienza come e fatta quella " diavolata gente anormale ", conosce i trucchi degli scioperati per averli lui stesso esercitati, e diviene onnipresente. Notte e giorno. Compare quando nessuno se lo aspetta: richiama, rimprovera, costringe ognuno a far il suo lavoro e bene.

Controlla gli acquisti, litiga con i mercanti, rimanda indietro le partite di merce avariata. E, per quello che non può imporre, offre come modello se stesso.

Si tratta della " tenerezza ".

Lo vedono pulire a mani nude i volti dei poverelli divorati dal cancro, e baciarli.

Introduce, e cura lui personalmente il rito dell'accoglienza: ogni malato viene ricevuto alla porta, abbracciato, gli vengono lavati e baciati i piedi, viene spogliato dei suoi stracci, rivestito di biancheria pulita, sistemato in un letto ben rifatto.

Spiega ai mercenari che: " I poveri infermi sono pupilla et cuore di Dio et... quello che facevano alli detti poverelli era fatto allo stesso Dio ".

Comincia a radunare intorno a sé i più sensibili, prega con loro e a loro comunica (lui che a mala pena sa leggere e scrivere) i primi principi di una teologia della sofferenza.

Un pensiero fisso lo va ormai ossessionando; bisogna sostituire tutti i mercenari con persone disposte a stare coi malati solo per amore.

Vuole gente che " non per mercede, ma volontariamente e per amore d'Iddio gli servissero con quell'amorevolezza che sogliono fare le madri verso i propri figli infermi ". Questo è il progetto. E desta subito preoccupazione. Quei pochi amici che sì ritrovano a pregare e a discutere sull'argomento sono isolati: c'è chi intravede già che interessi e abitudini verranno messi in discussione, altri sospettano che Camillo voglia impadronirsi dell'ospedale, altri ancora considerano il progetto irrealizzabile.

Lo stesso S. Filippo Neri, confessore di Camillo, lo sconsiglia perché crede che quell'uomo ignorante e senza lettere non è atto né sufficiente a governare gente congregata assieme ".

Da parte sua Camillo è tranquillo: " Mi pareva che tutto l'inferno non mi poteva disturbare né impedire l'incominciata impresa ". È convinto che gliela chiede lo stesso Cristo Crocifisso.

Capisce tuttavia che, per acquistare credibilità, lui e i suoi devono imboccare la strada del sacerdozio Riesce miracolosamente a farsi ordinare anche se di teologia speculativa non sa quasi nulla e non riesce nemmeno a scrivere una pagina senza fare molteplici e ridicolissimi errori di ortografia.

Lascia l'ospedale degli " Incurabili " dove ormai non lo vogliono più e raduna i suoi in una poverissima casetta dove hanno due coperte in tre, e la notte devono fare a turno per coprirsi; Cominciano la loro libera attività nel grande ospedale romano di Santo Spirito.

È il glorioso Hospitium Apostolorurn, l'ospedale voluto direttamente dal Papa e da lui affidato ai religiosi di S. Spirito. L'ha fondato Innocenzo III, il grande Papa del '200, perché in esso " abitassero i padroni (cioè i malati) e i servi (cioè tutti gli altri cristiani) ".

I frati che lo dirigono hanno fatto voto di essere " servi " dei loro padroni, gli infermi, per tutta la vita ".

[Modificato da Credente 15/12/2011 12:00]
OFFLINE
24/02/2012 21:15
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Figura esemplare di uomo di chiesa il Cardinale Paul Emile Lèger (1904-1991) elevato al cardinalato da Pio XII nel 1953, rinuncia nel 1964 alla comoda sede Cardinalizia di Montrèal, per andare missionario in un lebbrosario in Africa in Camerun.


PAUL EMILE LEGER IL ' CARDINALE DEI LEBBROSI'

E' morto il "cardinale dei lebbrosi", il canadese Paul Emile Leger. Nel 1968 aveva rinunciato alla prestigiosa arcidiocesi di Montreal per condividere la vita degli ospiti di un lebbrosario del Camerun. La sua scelta fece scalpore anche perché il card. Leger era un personaggio importante della nomenklatura ecclesiastica. A lui, ad esempio, è indirizzata la "Octuagesima adveniens", la famosa lettera pastorale scritta da Paolo VI per gli ottant' anni della "Rerum novarum". Leger, che era l' unico superstite tra i cardinali nominati da Pio XII, aveva 87 anni. A causa dell' età era rientrato in patria dove animava campagne di sensibilizzazione sui problemi del sottosviluppo. Giovanni Paolo II ne ha rievocato la figura in un telegramma di cordoglio indirizzato all' attuale arcivescovo di Montreal, mons. Jean Claude Turcotte.
[Modificato da Credente 15/08/2014 20:13]
OFFLINE
07/03/2012 09:32
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

L'esempio di Chiara Luce
OFFLINE
10/03/2012 21:37
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Pontifex.RomaDALLA RIBELLIONE ALLA SANTITA' 

Juan Ciudad nasce a Montemor - o - novo, vicino Evora, in Portogallo nel 1495 e a otto anni scappa di casa. 

Si ferma a Oropesa, nella Nuova Castiglia, dove la gente, non conoscendone le generalità, comincia a chiamarlo Giovanni di Dio, che da allora sarà il suo nome. 

Fece il contadino e il pastore fino all’età di 27 anni, quando si arruolò come soldato di ventura. Diventò uno dei soldati di Carlo V, durante la battaglia di Pavia, che lo vede vincitore contro Federico I. Più tardi partecipò alla difesa di Vienna, stretta d’assedio da Solimano II; anche qui risulterà vincitore. Chiusa la parentesi militaresca, girò l’Europa in lungo e in largo, fino a che ebbe soldi a sufficienza. 

Poi tornò a fare il pastore, il bracciante in Africa e persino il venditore ambulante a Gibilterra. Da qui si stabilì a Granada, in Spagna, dove aprì una piccola libreria. Fu qui, che grazie ad un’omelia del Beato Giovanni d’Avila, cambiò drasticamente vita. Vendette la libreria, tutti i suoi beni e perfino le scarpe e cominciò a mendicare per le vie di Granada, ripetendo ai passanti la celebre frase: “Fate del bene a voi stessi, fratelli”.

La gente non lo capì e venne rinchiuso in manicomio, in quel luogo si accorse delle terribili condizioni dei malati mentali negli istituti e le lacune con cui venivano curati.

Così, appena riuscì a dimostrare la sua sanità di mente, uscì dal manicomio e grazie ad alcuni benefattori fondò un suo ospedale psichiatrico; pur non avendo approfondito gli studi di medicina, inaugurò un innovativo metodo di cura psicoanalitico e psicosomatico, anticipando di quattro secoli Freud e gli altri psicanalisti.

Disse sempre che la cura dello spirito era la premessa per la cura del corpo.

Giovanni di Dio raccolse i suoi collaboratori in una grande famiglia religiosa, “l’Ordine dei Fratelli Ospedalieri”, meglio conosciuto come Fatebenefratelli.

Morì a soli 55 anni, il giorno del suo compleanno, l’8 Marzo del 1550.

Nel 1690 fu canonizzato da Papa Alessandro VII, mentre Leone XIII lo dichiarò patrono degli ospedali e di quanti si adoperano per la salute degli infermi.

Insomma per un ragazzo turbolento, scappato di casa a soli 8 anni, un bel percorso di vita, dimostrazione di quanto siano infinite le vie della santità.

[Fonte Santiebeati.it]



OFFLINE
26/04/2012 13:24
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

P. Matteo Ricci (1552 - 1610)

Un sapiente che si incultura 


Il destino di certi uomini illustri sembra talvolta essere quello di rimanere nell'oscurità della storia. Uno di questi uomini è senza dubbio Matteo Ricci, più conosciuto, almeno fino a qualche anno fa, in Cina che in Italia. La sua tomba a Pechino è stata distrutta e ricostruita ben tre volte in epoche diverse (l'ultima una decina di anni fa, dopo la Rivoluzione Culturale delle Guardie Rosse di Mao); il suo nome figura tra i pochi stranieri nell'enciclopedia nazionale di quel paese. Da noi la sua conoscenza è stata ristretta, per secoli, a pochi esperti.
Il "rilancio", per così dire, è stato fatto nel 1982 per celebrare il quarto centenario del suo arrivo in Cina. In un discorso tenuto in quell'occasione alla Pontificia Università Gregoriana, Giovanni Paolo II ne tracciava il profilo accostandolo addirittura ai Padri della Chiesa. Riferendosi allo sforzo del Ricci per esprimere il Vangelo nei termini e nelle categorie della cultura cinese, il Papa diceva: «Come già i Padri della Chiesa per la cultura greca, così padre Matteo Ricci era giustamente convinto che la fede in Cristo non solo non avrebbe portato alcun danno alla cultura cinese, ma l'avrebbe arricchita e perfezionata ... A 400 anni dal suo arrivo in Cina, la figura e l'opera del padre Ricci appaiono assumere oggi una grande attualità per il popolo cinese, proteso come è in un processo di modernizzazione e di progresso». In queste poche espressioni troviamo la sostanza della vita e dell'opera del missionario gesuita maceratese.

Matteo Ricci nasce a Macerata il 6 ottobre 1552, lo stesso anno in cui a Sanciano, di fronte a Canton, muore Francesco Xavier senza realizzare l'ambìto sogno di sbarcare nell' "Impero Celeste"; sarà proprio il Ricci, esatamente tret'anni dopo, a sstabilirsi nel territorio cinese e a fondare la prima missione cattolica a Sciaochin (oggi Zhaoqin).

La ricca personalità di Matteo Ricci ha dato un apporto fondamentale al dialogo e alla reciproca comprensione tra Cina e Europa. Grazie alla sua preparazione scientifica egli introdusse in Cina la matematica e la geometria dell'Occidente; presentò le grandi acquisizioni del Rinascimento nel campo della geografia, della cartografia e dell'astronomia. Sull'altro versante, egli dette all'Europa, grazie ai suoi scritti, una conoscenza esatta, e per quanto possibile ampia e comprensiva dei contenuti e del pensiero della civiltà cinese per cui «può ben essere considerato il fondatore della moderna sinologia, cioè la scienza che studia la civiltà cinese in tutti i suoi aspetti».

A questi importanti contributi nel campo scientifico dobbiamo aggiungere quello nel campo specificamente religioso, come missionario dell'ancora giovane Compagnia di Gesù. Il suo metodo di evangelizzazione si può riassumere nella breve espressione «farsi cinese con i cinesi», cioè l' "inculturazione" linguistica, sociale, intellettuale e religiosa. Per raggiungere questo obiettivo si adeguò, anche nel modo di vivere esterno, alle usanze e tradizioni cinesi, cosa che non mancò di procurargli noie e critiche da altri missionari e talvolta anche dai confratelli.

Una delle conseguenze di questo atteggiamento è il rispetto del Ricci per il confucianesimo (fu più critico invece con il taoismo e con il buddhismo), la religione più diffusa in Cina (ma che il Ricciconsiderava tuttavia più come una dottrina morale che come una religione vera e propria), nella quale trovava molte concordanze con il cristianesimo. E ai cinesi, soprattutto ai letterati e alle persone colte, piacque l'interpretazione cristiana di Confucio che portò il Ricci e i suoi confratelli missionari a una grande tolleranza verso numerose usanze locali e verso alcune cerimonie con cui si veneravano gli antenati.
Un segno di quanto Matteo Ricci fosse ben accetto in Cina è quanto avvenne in occasione della sua morte, avvenuta a Pechino l' 11 maggio 1610. La tradizione cinese voleva che gli stranieri che morivano nella capitale non vi potessero essere sepolti. Padre De Pantoja, superiore dei gesuiti a Pechino, inoltrò allora una richiesta alla'imperatore chiedendo un pezzo di terra per seppellervi ilRicci, rifacendosi agli anni in cui il missionario era stato alla corte imperiale e agli onori ricevuti per i suoi meriti. E l'imperatore acconsentì: dall'antichità, disse, non si era mai visto un solo straniero con la virtù, la scienza e l'amore per i cinesi come Matteo Ricci.

Fonte: http://www.gesuiti.it/storia/24/27/1...ersonaggio.asp
__________________
"Vi scongiurososteniamoci in questo cammino" Card.Angelo Scola
OFFLINE
26/05/2012 11:52
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

.Filippo Neri

L'uomo che sarebbe stato chiamato "l'Apostolo della città di Roma" era figlio di un notaio fiorentino di buona famiglia. Ricevette una buona istruzione e poi fece pratica dell'attività di suo padre; ma aveva subito l'influenza dei domenicani di san Marco, dove Savonarola era stato frate non molto tempo prima, e dei benedettini di Montecassino, e all'età di diciott'anni abbandonò gli affari e andò a Roma. Là visse come laico per diciassette anni e inizialmente si guadagnò da vivere facendo il precettore, scrisse poesie e studiò filosofia e teologia. A quel tempo la città era in uno stato di grande corruzione, e nel 1538 Filippo Neri cominciò a lavorare fra ? g?ovam della città e fondò una confraternita di laici che si incontravano per adorare Dio e per dare aiuto ai pellegrini e ai convalescenti, e che gradualmente diedero vita al grande ospizio della Trinità. Filippo passava molto tempo in preghiera, specialmente di notte e nella catacomba di san Sebastiano, dove nel 1544 sperimentò un'estasi di amore divino che si crede abbia lasciato un effetto fisico permanente sul suo cuore. Nel 1551 Filippo Neri fu ordinato prete e andò a vivere nel convitto ecclesiastico di san Girolamo, dove presto si fece un nome come confessore; gli fu attribuito il dono di saper leggere nei cuori. Ma la sua occupazione principale era ancora il lavoro tra i giovani.

Sopra la chiesa fu costruito un oratorio in cui si tenevano conferenze religiose e discussioni e si organizzavano iniziative per il soccorso dei malati e dei bisognosi; là, inoltre, furono celebrate per la prima volta funzioni consistenti in composizioni musicali su temi biblici e religiosi cantate da solisti e da un coro (da qui il nome "oratorio"). San Filippo era assistito da altri giovani chierici, e nel 1575 li aveva organizzati nella Congregazione dell'Oratorio; per la sua società (i cui membri non emettono i voti che vincolano gli ordini religiosi e le congregazioni), costruì una nuova chiesa, la Chiesa Nuova, a santa Maria "in Vallicella". Diventò famoso in tutta la città e la sua influenza sui romani del tempo, a qualunque ceto appartenessero, fu incalcolabile.

Ma san Filippo non sfuggì alle critiche e all'opposizione: alcuni furono scandalizzati dall'anticonvenzionalità dei suo discorsi, delle sue azioni e dei suoi metodi missionari. Egli cercava di restituire salute e vigore alla vita dei cristiani di Roma in modo tranquillo, agendo dall'interno; non aveva una mentalità clericale, e pensava che il sentiero della perfezione fosse aperto tanto ai laici quanto al clero, ai monaci e alle monache. Nelle sue prediche insisteva più sull'amore e sull'integrità spirituale che sulle austerità fisiche, e le virtù che risplendevano in lui venivano trasmesse agli altri: amore per Dio e per l'uomo, umiltà e senso delle proporzioni, gentilezza e gaiezza - "riso" è una parola che compare spesso quando si tratta di san Filippo Neri.
OFFLINE
24/08/2012 12:13
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

I Martiri di una cittadina della Frigia:
Lo storico Lattanzio racconta che gli abitanti cristiani furono tutti rinchiusi nella cattedrale. Poi fu loro imposto di uscire come segno che intendevano abbandonare la religione cristiana cattolica. Se non fossero usciti significava che volevano rimanere cattolici e perciò sarebbero stati bruciati vivi. Nessuno uscì. Tutti preferirono morire tra le fiamme piuttosto che rinnegare la Chiesa.

sull’esempio di questi gloriosi martiri dovremmo amare tanto la Chiesa da tenerci pronti, se è necessario, a essere bruciati vivi o a essere fatti a pezzi pur di conservare la fedeltà alla sua Chiesa: Chiesa che “è necessaria alla salvezza”; Chiesa che è “ il Regno di Cristo già presente”, che è “ dimora dello Spirito Santo”; Chiesa che “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”; Chiesa “che brilla ora quale segno di sicura speranza”, fino a quando, questa Chiesa pellegrinante sarà trasformata in Chiesa trionfante attorno alla Madre del Signore nella luce e nella gioia senza fine del Cristo risorto.
OFFLINE
27/08/2012 22:05
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Una cinese che ha avuto un doppio coraggio: salvare 30 neonati/e dalla immondizie nonostante i divieti governativi di recupero dei loro corpicini.

Pontifex.RomaLou Xiaoyng, 88 anni, sta per morire. Viveva riciclando rifiuti. Ha salvato tanti bambini, quattro li ha tenuti con sé. «È una santa» - Per milioni di cinesi, che solo in questi giorni hanno conosciuto la sua storia, è già una «santa moderna». Lou Xiaoyng, 88 anni, è ormai condannata a morte da una gravissima insufficienza renale. Ma tutta la sua esistenza è stata un vero inno alla vita: dal 1972 sino a pochi  anni fa ha infatti salvato ben trenta bambini abbandonati sul ciglio della strada o nei bidoni della spazzatura nella città di Jinhua,  provincia orientale dello Zhejiang. Abbandoni frutto della miseria e soprattutto della politica del figlio unico imposta dal governo cinese nel 1978. Una politica, i dati sono stati resi noti dal governo stesso, che solo nel 2010 ha impedito 400 milioni di nascite. Nonostante la condanna della comunità internazionale, un sondaggio indipendente realizzato nel 2008 mostrava come il 76 per cento  ...

... della popolazione fosse d’accordo con questo genere di pianificazione. Lou, come racconta il Daily Mail, ha fatto una scelta diversa. Il suo lavoro era quello di andare alla ricerca di rifiuti riciclabili. E lì, tra quei rifiuti, c’erano anche loro: neonati che piangevano in modo straziante, abbandonati da famiglie povere o vittime dell’indottrinamento del regime. «Quei bambini così fragili  avevano bisogno d’amore, di cure – ha detto al Daily Mail – .

Non capisco davvero come i loro genitori avessero potuto gettarli tra le immondizie. Tutte le vite sono preziose». Quattro di quei piccoli sono divenuti parte della sua famiglia: li ha cresciuti ed educati insieme al marito Li Zin morto 17 anni fa. Lou ha anche una figlia biologica, Zhang Caiying, oggi 49enne. Tutti gli altri neonati, invece, è riuscita ad affidarli ad amici e ad altre famiglie. «Lou è una santa – hanno dichiarato molte persone che la conoscono -.

Il nostro governo dovrebbe vergognarsi: lei non aveva né potere, né soldi, viveva in una casa modesta, eppure guardate cosa è riuscita a fare…».  «La prima neonata – ha raccontato Lou  – l’ho trovata nel 1972 : se non l’avessimo tirata fuori dal cassonetto sarebbe senza’altro morta. Voi non sapete quanta gioia e quanta speranza ci hanno dato veder crescere questi bambini. Ho sempre pensato: se ho la forza di riciclare rifiuti come posso sottrarmi dal “ricicalre” qualcosa di ben più importante come la vita umana?». (Articolo di Vatican Insider)

da http://www.associazionelatorre.com/

OFFLINE
09/10/2012 23:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

IL GIARDINO DELLA GIOVINEZZA CHE IL MONDO NON CONOSCE

Ricordate quel milione di giovani, per l’anno santo del 2000, a Roma, attorno a papa Wojtyla? Cantavano “Jesus Christ, you are my life”. I giornali laici li sbeffeggiarono dicendo che in realtà quella era una fede di facciata, superficiale.

Era vero? Che ne è di loro?

Chiara Corbella è la risposta. La sua storia sta commuovendo il mondo. Chiara è una bella ragazza nata a Roma nel 1984. La sua famiglia, credente, frequenta il “Rinnovamento carismatico cattolico” in cui anche lei è cresciuta.

A 18 anni, nel 2002, durante un pellegrinaggio a Medjugorje, conosce Enrico, si innamora e dopo pochi mesi sono fidanzati.

E’ un rapporto vivace e turbolento, fatto pure di rotture, stando al suo racconto. La vicinanza dei frati francescani aiuta i due giovani a fare le scelte decisive.

Si sposano il 21 settembre 2008 ad Assisi. Presto Chiara si trova incinta. Ma qui accade il primo dramma. Maria, la bambina che porta in grembo, ha una grave malformazione per la quale non potrà vivere al di là della nascita.

Chiara ed Enrico decidono egualmente di accoglierla, anzi con un amore più grande, sebbene molti si stupissero e suggerissero un aborto terapeutico.

La bambina nasce, ma muore dopo trenta minuti. Quel giorno Chiara disse ai suoi che non importava la durata di una vita: per lei quella mezz’ora con sua figlia era stata uno dei doni più preziosi della sua esistenza.

“Ho pensato alla Madonna” ricorda Chiara “anche a lei il Signore aveva donato un Figlio che non era per lei, che sarebbe morto e lei avrebbe dovuto vederlo morire sotto la croce. Questa cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che forse non potevo pretendere di capire tutto e subito e forse il Signore aveva un progetto che io non riuscivo a comprendere”.

Presto arriva una seconda gravidanza. Incredibilmente anche stavolta si annunciano malformazioni gravi e i due giovani si preparano egualmente ad accogliere Davide come il loro bimbo amato.

Poi si scopre che anche lui non avrebbe potuto sopravvivere dopo la nascita.

Più avanti, nel gennaio 2011, Chiara, in un incontro pubblico dirà: “Il Signore ha voluto donarci dei figli speciali, Maria e Davide, ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita. Ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e gioia sconvolgenti”.

Quel giorno aggiunse una cosa che sconvolse tutti, una nuova gravidanza e una diagnosi di tumore per lei:

“Ora ci ha affidato questo terzo figlio, Francesco che sta bene e nascerà tra poco, ma ci ha chiesto anche di continuare a fidarci di Lui, nonostante un tumore che ho scoperto poche settimane fa che cerca di metterci paura del futuro. Ma noi continuiamo a credere che Dio farà anche questa volta cose grandi”.

Il piccolo Francesco è nato sano nel maggio del 2011. Chiara – per non perdere il figlio – ha deciso di non curarsi come il carcinoma richiedeva. Solo dopo il parto ha affrontato l’operazione e le dolorose chemioterapie, nella speranza di essere ancora in tempo.

Invece il mercoledì santo di quest’anno ha saputo dai medici che il tumore aveva vinto e lei era in pratica una malata terminale. Chiara è morta a 28 anni il 13 giugno di quest’anno. In una lettera al suo piccolo Francesco ha scritto: “Vado in cielo ad occuparmi di Maria e Davide e tu rimani con il papà. Io da lì prego per voi”.

Poco prima della “nascita al cielo” Chiara ha ringraziato: “Vi voglio bene! A tutti!”.

Il funerale non è stato un funerale. C’erano più di mille persone. C’era la foto del bel volto di Chiara la quale ha voluto che a ciascuno fosse dato il segno di una vita che comincia: infatti tutti hanno avuto un vasetto con una pianticina.

Il cardinale Vallini, Vicario del Papa, ha detto: “abbiamo una nuova Gianna Beretta Molla”.

Si riferiva alla giovane dottoressa morta nel 1962 e canonizzata nel 2004 da Giovanni Paolo II. Anche lei, incinta, avendo scoperto un tumore all’utero, rifiutò le cure che avrebbero fatto male al bambino che portava in grembo e dopo il parto morì.

Un paragone impressionante. Chiara è proprio una ragazza dei nostri giorni. Su Youtube c’è un filmato di venti minuti dove, col suo simpatico accento romano, racconta l’inizio della sua vicenda.

A un certo punto dice: “Il Signore mette la verità dentro ognuno di noi, non c’è possibilità di fraintendere”.

Il marito Enrico, richiesto di spiegare oggi queste parole di Chiara, ha detto:

“Quella frase si riferisce al fatto che il mondo di oggi, secondo noi, ti propone delle scelte sbagliate di fronte all’aborto, di fronte a un bimbo malato, di fronte a un anziano terminale, magari con l’eutanasia…

Il Signore risponde con questa nostra storia che un po’ si è scritta da sola: noi siamo stati un po’ spettatori di noi stessi, in questi anni. Risponde a tante domande che sono di una profondità incredibile.

Il Signore, però, risponde sempre molto chiaramente: siamo noi che amiamo filosofeggiare sulla vita, su chi l’ha creata, e quindi alla fine ci confondiamo da soli volendo diventare un po’ padroni della vita e cercando di sfuggire dalla Croce che il Signore ci dona. In realtà” ha continuato Enrico “questa Croce, se la vivi con Cristo, non è brutta come sembra.

Se ti fidi di Lui, scopri che in questo fuoco, in questa Croce non bruci e che nel dolore c’è la pace e nella morte c’è la gioia”.

Poi ha detto:

“Quando vedevo Chiara che stava per morire, ero ovviamente molto scosso. Quindi ho preso coraggio e poche ore prima gliel’ho chiesto.

Le ho detto: ‘Chiara, amore mio, ma questa croce è veramente dolce come dice il Signore?’. Lei mi ha guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: ‘Sì, Enrico, è molto dolce’. Così, tutta la famiglia, noi non abbiamo visto morire Chiara serena: l’abbiamo visto morire felice, che è tutta un’altra cosa”.

Il padre di Chiara, Roberto, imprenditore, che aveva un incarico in Confindustria, quando ha saputo che le chemio per la figlia non avevano dato risultato positivo, ha scritto una lettera con la quale annunciava di ritirarsi da quell’incarico per stare più vicino alla famiglia “ma anche per fare una scelta di vita: aiutare il prossimo”.

In una toccante testimonianza a TV2000 (anch’essa reperibile su Youtube) ha raccontato che, paradossalmente, quando, a Pasqua, hanno saputo che non c’era più niente da fare è iniziato “un periodo splendido per la nostra famiglia… abbiamo vissuto insieme come mai… tutti uniti per cercare salvezza di Chiara… che stando alle sue parole è avvenuto in maniera diversa”.

Il signor Roberto ha sussurrato: “ho imparato da mia figlia che non conta la durata di una vita, ma come la viviamo. Ho capito da lei in un anno più di quanto avevo capito nella mia intera esistenza e non posso sprecare questo insegnamento”.

Poi ha ricordato che Chiara, vivendo “vicissitudini che avrebbero messe al tappeto chiunque, non ha subito, ma ha accettato. Lei si fidava totalmente. Era certa che se il Signore le dava da vivere una cosa voleva dire che era la cosa giusta”.

Chiara suonava il violino e amava ripetere: “siamo nati e non moriremo mai più”.

C’è un giardino nel mondo dove fioriscono queste meraviglie. Dove accadono cose stupende, inimmaginabili altrove. E’ la Chiesa di Dio. Nessuno dei potenti e dei sapienti lo conosce.

Per loro e per i loro giornali la Chiesa è tutt’altro. I giornali strapazzano il Vaticano e Benedetto XVI per Vatileaks. I riflettori dei media sono tutti per i Mancuso, i don Gallo, gli Enzo Bianchi. O per ecclesiastici da loro ritenuti “moderni”.

Ma nel luminoso giardino di Dio, che Benedetto XVI ama e irriga, fioriscono silenziosamente giovani come Chiara. Non solo nelle terre dove il nome cristiano è bandito come il Pakistan, la Cina, Cuba o l’Arabia Saudita. Ma anche tra noi.

In quel giardino Gesù passa davvero, affascina e chiama anche questa generazione e noi vediamo i figli diventare gli amici del Salvatore del mondo. Sono invisibili ai media, ma grandi agli occhi di Dio.

 

Antonio Socci

OFFLINE
19/10/2012 21:38
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Padre Jerzy Popieluszko nacque il 14 settembre 1947 a Okopy provincia di Bialystok. I suoi genitori erano contadini, in questo ambiente semplice maturò la sua vocazione. Entrato nel 1965 nel Seminario Maggiore di Varsavia, ricevette l'anno dopo l’ordine di chiamata alle armi, dovendo svolgere il servizio triennale di leva in una u
nità militare speciale, dove le autorità militari comuniste svolgevano opera di indottrinamento antiecclesiale e antireligioso per distogliere i seminaristi dalla loro vocazione. Fu oggetto di vessazioni e persecuzioni, che indebolirono il suo stato di salute. Fu ordinato sacerdote il 28 maggio 1972 a Varsavia dal cardinale Stefan Wyszynsky. Fino al 1980 fu cappellano nel suo villaggio di origine, occupandosi principalmente dell'educazione di bambini e ragazzi, da quel momento iniziò ad avvicinarsi al movimento operaio polacco e a temi di giustizia sociale. 

Nell’agosto 1980 era stato inviato dal cardinal Wyszyński tra gli operai in sciopero nei cantieri siderurgici di Varsavia fino a diventare uno dei sacerdoti più legati a Solidarność. Oltre al lavoro parrocchiale, nella Chiesa di San Stanislao Kostka, svolgeva il suo ministero tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera anche per medici ed infermieri, assisteva gli ammalati, i poveri, i perseguitati. 

Don Popiełuszko si impegnò nella celebrazione delle “Messe per la Patria”, nelle cui omelie affrontava temi religiosi e spirituali ma anche questioni di attualità, di carattere sociale e politico-morale, illustrando i documenti fondamentali della Dottrina Sociale della Chiesa e gli insegnamenti al riguardo di Giovanni Paolo II e del Cardinale Stefan Wyszyński. 

Per il suo coraggio, la difesa dei diritti umani, la richiesta di libertà e giustizia, la capacità di amare anche i suoi persecutori, divenne subito una minaccia per il regime dittatoriale. Don Popieluszko aiutava tutti gli operai, dava loro coraggio, li educava all’amore fraterno, li invitava a non reagire quando venivano colpiti, li confessava, sosteneva le loro famiglie. 

Gli insegnava a rispondere con preghiere e canti sacri e patriottici alle minacce e alle aggressioni. Sosteneva Solidarnosc nelle sue battaglie per garantire migliori condizioni sociali, per la libertà, la giustizia, il progresso. Tentarono in vario modo di minacciarlo e spaventarlo. Uccisero i figli e i parenti delle persone a lui più vicine. 

Qualcuno dei suoi collaboratori cedette alle minacce e divenne una spia dei servizi segreti. Ma don Popieluszko, non cedette mai alle provocazioni. 

Mai si piegò al sentimento di odio. In un momento molto duro, quando scopre di essere tradito , quando i suoi amici non ne possono più dell’oppressione e del terrore, pronunciò questa frase: “combatto il peccato non le sue vittime”. Questa sua capacità eroica di amare tutti cristianamente, lo rende libero e invincibile. Il regime non sa cosa fare. Cercano di screditarlo e di accusarlo di cospirazione politica, ma lui non parla mai di politica. 

La situazione sta per precipitare e la Chiesa prova a convincerlo di rifugiarsi a Roma. Popieluszko è cosciente della sua missione e va avanti, fiducioso, ubbidiente e fedele a Cristo. Così il 19 ottobre 1984 di ritorno da un servizio pastorale da Bydgosszcz a Gorsk vicino a Torun viene rapito da tre funzionari del Ministero dell’Interno, selvaggiamente picchiato e seviziato. Pur legato dentro al cofano dell’auto cerca di fuggire. 

I persecutori lo braccano, lo colpiscono ancora più violentemente, lo sfigurano, lo legano tra bocca e gambe, in modo che non possa distendersi senza soffocare. Gli stringono un masso ai piedi e lo buttano ancora vivo in un fiume. La notizia dell'assassinio causò disordini in Polonia, e gli autori dell'omicidio - i capitani Grzegorz Piotrowski, Leszek Pekala, Waldemar Chmielewski ed il colonnello Adam Petruszka - furono giudicati colpevoli e condannati a 25 anni di carcere, ma furono rilasciati a seguito di amnistia qualche anno dopo. 

Aveva 37 anni. Il regime pensa di aver messo a tacere il più coraggioso dei suoi oppositori, e invece è il segno della sua fine. Da lì a poco non solo la Polonia sarà liberata, ma l’intero sistema comunista collasserà. Nonostante le minacce e la violenza, oltre mezzo milione di persone sfilò al funerale di padre Popieluszko. 

Tra i giovani che sfilarono oranti dietro a quella bara, c’era il regista del film (Popiełuszko. Non si può uccidere la speranza) Rafał Wieczyński, il quale ha rivelato a Radio Vaticana: “avevo 16 anni quando partecipai ai funerali di padre Popiełuszko. Insieme a 600 mila persone riuscivo a percepire i sentimenti della gente in quel periodo. E’ diventato una sorta di maestro, una figura con la quale mi confrontavo e volevo che la nuova generazione provasse le sensazioni di quei tempi, quando la gente era unita fondandosi sui valori del Vangelo”. Da allora la tomba di padre Popiełuszko che si trova accanto alla chiesa di San Stanislao Kostka, a Varsavia, è meta continua di pellegrinaggi di fedeli provenienti dalla Polonia e dal mondo intero. 

In questa città, a poca distanza dal luogo dell’assassinio, Giovanni Paolo II celebra una Messa il 7 giugno del 1991. “Il Muro è caduto da poco e l’Europa - afferma Papa Wojtyla - ha bisogno di redenzione dall’odio che l’ha sfigurata nel Novecento. In questo scenario, don Jerzy- afferma- è un martire che va considerato non solo nella misura in cui servì in una certa causa di ordine politico, anche se si trattava di una causa profondamente etica, bensì si deve guardare a lui e leggere la sua figura nell’intera verità della sua storia, dal punto di vista dell’uomo interiore.- E conclude:- Proprio quest’uomo interiore può essere testimone, testimone dei nostri tempi difficili, del nostro difficile decennio, così come egli è stato (...) Insieme a don Jerzy, piego le ginocchia di fronte al Padre. Chiedo il rafforzamento dell’uomo interiore, imploro il rafforzamento per l’uomo interiore, per tutti i figli e le figlie di questa terra, della mia patria, ora, alla soglia dei tempi che sono giunti e che verranno.”

Alcuni giorni dopo il suo funerale, celebrato il 3 novembre del 1984, incominciarono a pervenire al Primate della Polonia, lettere che chiedevano di iniziare il processo di beatificazione. La Chiesa iniziò il processo di beatificazione nel 1997. Il 19 dicembre 2009 papa Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le cause dei santi a promulgare il decreto riguardante "il martirio del Servo di Dio Giorgio Popiełuszko, sacerdote diocesano; nato il 14 settembre 1947 ad Okopy Suchowola (Polonia) e ucciso in odio alla fede il 20 ottobre 1984 nei pressi di Włocławek (Polonia)" 

Domenica 6 giugno 2010, Padre Jerzy Popiełuszko viene proclamato Beato. La solenne celebrazione, presieduta dall'Arcivescovo Angelo Amato S.D.B., prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, rappresentante del Santo Padre, si è svolta alle 11.00 nella Piazza Maresciallo Józef Pilsudski, La cerimonia della sua beatificazione è avvenuta in una data significativa per la Polonia: quella in cui il Paese celebra la “Giornata del ringraziamento per la libertà”, per ricordare il primo viaggio in patria di Giovanni Paolo II, nel giugno 1979. La grande Piazza Pilsudski di Varsavia si è vestita a festa. Una moltitudine di fedeli ha pregato per il suo amato padre Jerzy. Alla cerimonia, tra i tanti esponenti istituzionali ed ecclesiali, c’era anche la madre novantenne di padre Popiełuszko, Marianna. L’'arcivescovo di Varsavia, Kazimierz Nycz, ha dato inizio alla cerimonia definendo l’evento “un grande giorno per la Chiesa di Polonia e la patria”. Nella sua omelia, il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, mons. Angelo Amato, ha ripercorso la vita dell’eroico sacerdote assassinato a 37 anni perché diventato troppo scomodo al regime comunista polacco. “Padre Popiełuszko, ha detto, è stato un testimone eroico della bellezza e della verità del Vangelo di Gesù. Un martire che trovò la sua forza nel Signore presente nell’Eucaristia. Con la sua testimonianza, ha affermato l’arcivescovo Amato, padre Popiełuszko ci ha mostrato che i regimi passano come temporali d’estate lasciando solo macerie, ma la Chiesa e i suoi figli restano per beneficare l’umanità con il dono della carità senza limiti”. 

Il messaggio universale del Beato Jerzy Popiełuszko, è quello della fraternità tra gli uomini, del rispetto della dignità di ogni persona umana, anche piccola, indifesa, inerme; della libertà di coscienza, che nessun regime e nessuna ideologia deve violare. L’esperienza tragica del secolo scorso insegna: "i regimi e le ideologie passano come tempeste violente, lasciando macerie fisiche e spirituali, mentre la fede cristiana, radicata sul Vangelo, rimane e porta gioia, pace e concordia”.

OFFLINE
06/12/2012 08:56
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

La spiritualità del
Beato Giacomo Alberione

 

Il Beato Giacomo Alberione può ritenersi, per acclamazione popolare, il patrono della Rete, degli utenti di Internet e dei programmatori informatici.

Don Giacomo Alberione era nato a San Lorenzo di Fossano (Cuneo) il 4 aprile 1884, ricevette il Battesimo il giorno successivo. La famiglia Alberione, composta da Michele e Teresa Allocco e da sei figli, era di condizione contadina, profondamente cristiana e laboriosa.

Giacomo Alberione aveva avvertito presto la chiamata di Dio. Fu lui stesso a raccontare:

La vocazione comincia dal grembo della madre. E credo di farvi questa confidenza: io sono stato orientato ai sette anni. Andavo a scuola e la maestra ha domandato: "Cosa fai, cosa vorresti fare nella vita?" Sacerdote e basta! E' stato così. Ma se non lo interrogava la maestra, non veniva a galla. E sì, poteva essere in fondo all'animo ma non veniva a galla. La cosa non si scopriva e stava nell'intimo e quasi era neppure sentito questo invito a Dio.”

La sua vocazione andò maturando in famiglia e poi in Seminario.

Nella notte del 31 dicembre 1900, che divide i due secoli, per rispondere agli inviti del Papa Leone XIII, il giovane seminarista prega per quattro ore davanti al Santissimo Sacramento. Una “particolare luce” gli viene dall'Ostia, e da quel momento si sente “profondamente obbligato a far qualcosa per il Signore e per gli uomini del nuovo secolo”: “obbligato a servire la Chiesa” con i mezzi nuovi offerti dall'ingegno umano. Egli comprese la missione vera del sacerdote, il modo di esercitarla più efficacemente come "apostoli di oggi", e prega che la Chiesa abbia un nuovo slancio missionario sullo stile di san Paolo.

Sentiva che doveva fondare una società di apostoli dove si coniugasse santità e apostolato, per «Vivere e dare al mondo Gesù Cristo Via e Verità e Vita».

Trovò in San Paolo apostolo il modello e il protettore: «È stata una vera ispirazione mettere la Famiglia [paolina] sotto la protezione di san Paolo; in un istante; illuminazione» (Alle Pie Discepole, 1961).

Ispirandosi a Lui, don Alberione, fonda la Famiglia Paolina (cinque Congregazioni , quattro Istituzioni e una Associazione di Collaboratori), che ha la missione di essere "faro di verità in un mondo spesso privo di saldi riferimenti ideali” (G.P.II), attraverso i moderni mezzi della comunicazione.

Se san Paolo vivesse”, diceva, “continuerebbe ad ardere di quella duplice fiamma, di un medesimo incendio, lo zelo per Dio ed il suo Cristo, e per gli uomini d’ogni paese. E per farsi sentire salirebbe sui pulpiti più elevati e moltiplicherebbe la sua parola con i mezzi del progresso attuale: stampa, cine, radio, televisione”

Maria fu una presenza viva e significativa durante tutta l'esistenza di Don Alberione, fin dalla prima infanzia. Per lui, la Madre di Gesù merita il titolo di "Regina degli Apostoli" perché ha esercitato tutti gli apostolati che erano possibili a una donna del suo tempo: l'apostolato dell'esempio, della parola, della preghiera, della sofferenza, dell'azione.

Maria Regina degli Apostoli è stata la Madre Spirituale di don Alberione e ancora continua a essere Madre di tutta la famiglia Paolina. A Lei è stato dedicato un santuario in Roma, per ringraziarla di aver protetto tutti i suoi figli durante la seconda guerra mondiale.

In occasione della consacrazione del Santuario, don Alberione spiegò: "Gli editori possiedono la Parola, la moltiplicano, la diffondono vestita di carta, caratteri, inchiostro. Essi hanno sul piano umano la missione che nel piano divino ebbe Maria: che fu Madre del Verbo Divino; Ella ha captato il Dio invisibile e lo ha reso visibile ed accessibile agli uomini, presentandolo in umana carneCome ha accolto, formato e donato il Cristo, Maria diventa madre che accoglie e forma gli apostoli di tutti i tempi, facendo sì che in ciascuno di essi risplendano le fattezze del Figlio".

Negli anni 1962-1965 don Alberione è protagonista silenzioso ma attento del Concilio Vaticano II, alle cui sessioni partecipa quotidianamente. 
Lo ricordiamo così come lo descrisse Il Papa Paolo VI durante una visita della Famiglia Paolina in Vaticano:

Eccolo: umile, silenzioso, instancabile, sempre vigile, sempre raccolto nei suoi pensieri, che corrono dalla preghiera all'opera, sempre intento a scrutare i “segni dei tempi”, cioè le più geniali forme di arrivare alle anime, il nostro Don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato, nuova capacità e nuova coscienza della validità e della possibilità della sua missione nel mondo moderno e con i mezzi moderni. “

A 87 anni, compiuta l'opera che Dio gli aveva affidata, il 26 novembre 1971 ha lasciato la terra per prendere il suo posto nella Casa del Padre. Il 27 aprile 2003 Giovanni Paolo II lo ha proclamato beato.

---------

Don Giacomo Alberione
«Eccolo umile, silenzioso, instancabile, raccolto nei suoi pensieri che corrono dalla preghiera, all'opera, sempre intento a scrutare i segni dei tempi. Il nostro don Alberione ha dato alla Chiesa nuovi strumenti per esprimersi, nuovi mezzi per dare vigore e ampiezza al suo apostolato... Lasci che il Papa, a nome di tutta la Chiesa, esprima la sua gratitudine.»Don Giacomo Alberione

Così si esprime Paolo VI il 28 giugno 1969. Don Alberione è in udienza dal Papa accompagnato dai partecipanti al secondo Capitolo generale e da una folta rappresentanza di Paolini e Paoline. In questa occasione il Papa conferisce al fondatore della Famiglia Paolina la croce "Pro Ecclesia et Pontifice".

Due anni più tardi, il 26 novembre del 1971, nel tardo pomeriggio, Paolo VI visita in forma privata don Alberione morente. Alle 18,26 dello stesso giorno don Alberione chiude la sua esistenza terrena. Le ultime parole lasciate come testamento spirituale ai suoi figli e alle sue figlie sono un invito alla speranza: "Muoio... prego per tutti, Paradiso!".

Queste sono le tappe essenziali della sua vita:

  • 1884, 4 aprile - Giacomo Alberione nasce a San Lorenzo di Fossano(Cuneo).

  • 1890-1891 - Frequenta la prima classe elementare a Cherasco.

  • 1896, 25 ottobre - Entra nel seminario di Bra.

  • 1900, mese di aprile - Viene invitato a lasciare il seminario di Bra.

  • 1900, mese di ottobre - Entra nel seminario di Alba.

  • 1900, 31 dicembre-1° gennaio 1901 - Partecipando all'adorazione notturna nel duomo di Alba, si sente obbligato a fare qualche cosa per il Signore e gli uomini del nuovo secolo.

  • 1907, 29 giugno - Viene ordinato sacerdote ad Alba.

  • 1908 - Per alcuni mesi svolge attività pastorale a Narzole.

  • 1908, 1° ottobre - Rientra in seminario e viene nominato direttore spirituale dei giovani e dei chierici.

  • 1913, mese di settembre - Assume la direzione del settimanale Gazzetta d'Alba.

  • 1914, 20 agosto - Fonda la Società San Paolo

  • 1915, 15 giugno - Fonda le Figlie di San Paolo.

  • 1921, 5 ottobre - Si costituisce, con l'emissione dei voti (privati) di alcuni suoi membri, la Pia Società San Paolo.

  • 1921, 23 novembre - Alberione chiede a monsignor Giuseppe Francesco Re, Vescovo di Alba, di erigere la Società San Paolo in congregazione diocesana.

  • 1924, 10 febbraio - Fonda le Pie Discepole del Divin Maestro.

  • 1936, mese di agosto - Dà inizio, a Roma, alle Pastorelle.

  • 1938, 7 ottobre - A Genzano (Roma) nascita ufficiale delle Pastorelle.

  • 1947, 3 aprile - Le Pie Discepole diventano una congregazione di diritto diocesano.

  • 1957, 4 aprile - Inizia il primo capitolo generale della Società San Paolo, nel quale don Alberione viene confermato superiore generale.

  • 1959, 8 settembre - A Castelgandolfo (Roma) nascono le Apostoline.

  • 1960, 8 aprile - La Sacra Congregazione dei Religiosi approva l'"Associazione Paolina" composta di tre istituti aggregati: Gesù Sacerdote, San Gabriele Arcangelo e Maria SS. Annunziata.

  • 1969, 5 agosto - Il secondo capitolo generale della Società San Paolo proclama don Alberione superiore generale emerito ed elegge don Luigi Damaso Zanoni come nuovo superiore generale dell'istituto.

  • 1971, 26 novembre - Alle 18,30 circa don Alberione muore a Roma, nella casa generalizia, dopo aver ricevuto la visita di Paolo VI.

  • 1981, 4 maggio - Viene concesso il nulla osta per la causa della sua beatificazione.

  • 1996, 25 giugno - Viene firmato il Decreto di Venerabilità, con il quale si stabilisce l'eroicità delle sue virtù

  • 2002, 20 dicembre - S.S. Giovanni Paolo II, promulga il decreto di Beatificazione del nostro Fondatore, Don Giacomo Alberione.

  • 2003, 27 aprile - S.S. Giovanni Paolo II, dichiara Beato il nostro Fondatore, Don Giacomo Alberione.

Questa sua grande opera era già stata prefigurata nel lontano 1918 quando don Alberione, parlando ad un piccolo gruppo dei suoi primi giovani, ispirato dallo Spirito diceva loro: "Alzate gli occhi, mirate in alto un grande albero di cui non si vede la cima: questa è la nostra Casa, che è davvero un "alberone"; voi non siete che alle radici. La Casa attuale, infatti, è soltanto la radice di questo grandissimo albero. Voi siete ai piedi di una grande montagna, salite su, mirate l'orizzonte, è tutto il mondo". Oggi i Paolini e le Paoline, sparsi in tutto il mondo, ringraziano il Signore per avere dato alla sua Chiesa questo apostolo instancabile.

Mission della Società San Paolo
L'obiettivo della missione è di mettere in contatto la totalità del Cristo (riassunta nel titolo "Cristo Maestro Via, Verità e Vita") con tutte le facoltà della persona (mente, cuore e volontà) mediante la comunicazione che si realizza con i mezzi moderni. La metodologia usata include la proposta di tutta l'esperienza cristiana (dogma, morale e culto) e la presentazione di tutte le realtà umane in prospettiva cristiana.

Lo sviluppo storico della missione paolina segue l'evoluzione della comunicazione. Inizialmente don Alberione ha adottato la stampa; in seguito egli associa alla stampa anche il cinema, la radio, la televisione e i dischi. Attualmente i Paolini, impegnati nell'evangelizzazione con i mass media, si preparano ad incarnare il Cristo Maestro Via, Verità e Vita nella "cultura" creata dalla comunicazione.

Seguendo le indicazioni di don Alberione di "protendersi sempre in avanti", i Paolini vogliono essere nella Chiesa del 2000 tra i pionieri di una spiritualità evangelica integrale che sa inculturarsi nella comunicazione globale e multimediale. Per don Alberione e per i Paolini la comunicazione, infatti, nell'opera di evangelizzazione non è un semplice aiuto ma una forma originale di autentica predicazione che raggiunge le masse lontane dalla parrocchia.

Il marchio che caratterizza tutti i prodotti e le attività dei Paolini rappresenta efficacemente la dinamica della loro presenza.

Famiglia Paolina
Dal 1914 al 1959 don Giacomo Alberione fonda un insieme di istituzioni raggruppate nella denominazione unitaria "Famiglia Paolina". Ne fanno parte cinque Congregazioni religiose (Società San PaoloFiglie di San PaoloPie Discepole del Divin MaestroSuore di Gesù Buon PastoreSuore di Maria Regina degli Apostoli), quattro Istituti secolari (Gesù SacerdoteSan Gabriele ArcangeloMaria Santissima AnnunziataSanta Famiglia) e un'Associazione di laici (Cooperatori Paolini).

Nel 1960 don Alberione, considerando ultimato il difficile periodo fondazionale delle varie istituzioni, traccia la missione della Famiglia Paolina:
"Dev'essere uno lo spirito, quello contenuto nel cuore di San Paolo, 'Cor Pauli, cor Christi'; sono uguali le devozioni; e i vari fini convergono in un fine comune e generale: dare Gesù Cristo al mondo in modo completo, come Egli si è definito: 'Io sono la Via, la Verità e la Vita'".

primi modelli di vita paolina
Procede spedito il riconoscimento da parte della Chiesa della santità di donGiacomo Alberione: il 25 giugno 1996 si è concluso il processo canonico ed è stato firmato il Decreto di Venerabile, con il quale si stabilisce l'eroicità delle sue virtù.

Ma anche tra i figli e le figlie di don Alberione ve ne sono alcuni che stanno raggiungendo il riconoscimento pubblico della santità. Il merito di don Alberione non è solo il fatto di aver offerto alla Chiesa nuovi mezzi che danno vigore ed ampiezza all'evangelizzazione, ma anche di avere contribuito a formare uomini e donne che usando i mezzi della comunicazione sociDon Giuseppe Timoteo Giaccardoale, possono raggiungere il più alto grado di santità.

Storicamente, la strada verso la santità dei figli e figlie di don Alberione è stata aperta dal primo sacerdote e primo vicario generale della Società San Paolo, don Giuseppe Timoteo Giaccardo, che don Alberione stesso aveva definito: "fedelissimo tra i fedeli". Il 22 ottobre 1989 don Giaccardo (1896-1948) viene proclamato Beato da Giovanni Paolo II.    Maestra Tecla Merlo

   

Ugualmente rilevante è la figura di una donna che ha operato in perfetta sintonia con don Alberione: la Venerabile Suor Tecla Merlo (1894-1964), prima superiora generale delle Figlie di San Paolo, modello della donna che crede fermamente nell'efficacia delle nuove forme di apostolato.    Canonico Francesco Chiesa

   

Tra questi grandi testimoni non poteva, poi, mancare il direttore spirituale di don Alberione e padrino della Famiglia Paolina, il Venerabile Canonico Francesco Chiesa (1874-1946), modello per ogni consigliere spirituale.    Maggiorino Vigolungo

  

Un frutto particolare del metodo educativo di don Alberione, che entusiasmava persino i ragazzi all'apostolato,è il Venerabile Maggiorino Vigolungo(1904-1918), modello per tutti i giovani che aspirano all'apostolato paolino.     Fratel Andrea Borello

  

Altro esempio di vita donata ai fratelli è quello del Venerabile Fratel Andrea Borello (1916-1948), modello per tutti coloro che consacrano la loro vita 
all'apostolato della comunicazione sociale come Discepoli del Divin Maestro.    Suor Maria Scolastica Rivata

   

Vi è poi lo splendido esempio della Serva di DioSuor Maria Scolastica Rivata (1897-1987), prima Pia Discepola del Divin Maestro e prima Madre della Congregazione.

 

Chi volesse avere notizie sui vari processi di beatificazione può contattare il seguente indirizzo:

Postulazione Generale        
00148 Roma RM
Via della Fanella 39
Tel 06.657.488.11
Fax 06.657.488.00
E-mail: posgen@stpauls.it



Il marchio
Nel 1991 la Società San Paolo avvia lo studio per riprogettare l'identità visiva della sua missione: "evangelizzare con i moderni mezzi di comunicazione".
Il creatore Giorgetto Giugiaro ha ideato e concretizzato il nuovo marchio San Paolo.
Dall'indagine test sul marchio presso il pubblico è emerso:

  • apprezzamento per la sua bellezza formale ed estetica

  • leggendolo in termini di associazioni libere è stato identificato come caratterizzato dall'accostamento di due elementi diversi e da un grande dinamismo

  • i principali valori associati al marchio sono stati: precisione, energia, tensione, apertura, dinamismo, creatività, spiritualità, infinito

  • i prodotti suggeriti per abbinarsi al marchio sono stati: prodotti culturali, di opinione pubblica, di creazione spirituale.

Per sua natura il segno che esprime la sintesi visiva della missione di una società non è l'equivalente di un ragionamento logico o di un'affermazione verbale. Il marchio San Paolo non contraddice, anzi può suggerire sia la missione di mettere in contatto la Parola di Dio e il flusso della storia sia il ricco dinamismo apostolico di San Paolo.

 
[Modificato da Coordin. 17/09/2013 15:52]
OFFLINE
13/01/2013 18:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Annalena Tonelli

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
 

Annalena Tonelli (Forlì2 aprile 1943 – Borama5 ottobre 2003) è stata una missionaria italiana cattolica. Fu insignita dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati del prestigioso premio Nansen per l'assistenza ai profughi (Nansen Refugee Award), il 25 giugno 2003[1]. Spese circa trentatré anni della sua vita come volontaria in Africa prima di venir uccisa il 5 ottobre 2003 da un commando islamico nel centro assistenziale che dirigeva in Somalia.

Nata a Forlì nel 1943, dopo il liceo classico e la laurea in giurisprudenza, e dopo "sei anni di servizio ai poveri di uno dei bassifondi della mia città natale, ai bambini del brefotrofio, alle bambine con disabilità mentale e vittime di grossi traumi di una casa-famiglia"[2], nel 1969 la venticinquenne Annalena Tonelli si sposta in Africa grazie alle attività del Comitato per la lotta contro la fame del mondo di Forlì, che aveva contribuito a fondare, e che ancora oggi è attivo[3].Biografia 

Inizialmente lavora come insegnante in una scuola superiore governativa a Wajir, nell'estremo nord-est del Kenya, regione semidesertica ove risiedono popolazioni di origine somala. Le precarie condizioni igienico-sanitarie locali la spingono ad approfondire le sue conoscenze mediche: consegue certificati e diplomi di controllo della tubercolosi in Kenya, di medicina tropicale e comunitaria in Inghilterra, di cura della lebbra in Spagna.

Già nel 1976 Annalena Tonelli diviene responsabile di un progetto pilota dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la cura della tubercolosi nelle popolazioni nomadi: invita i nomadi tubercolotici ad accamparsi per la terapia di fronte alRehabilitation Centre for Disabled (Centro di Riabilitazione per Disabili), dove essa lavorava insieme ad altre volontarie che nel frattempo le si erano unite nella cura dei poliomielitici, ma che accoglieva anche ciechi, sordomuti, disabili fisici e mentali. Il sistema garantisce lo svolgimento della terapia per i circa sei mesi necessari; quest'ultima è stata poi adottata dall'OMS col nome di DOTS (Directly Observed Therapy Short)[4].

Nel 1984, a seguito di lotte politico-tribali intestine, l'esercito del Kenya compie azioni repressive sulle tribù somale intorno a Wajir [5]. Le denunce pubbliche di Annalena Tonelli aiutano a fermare le uccisioni. Arrestata e portata davanti alla corte marziale, si sente dire che l'essere scampata a due imboscate non era garanzia di sopravvivere anche alla seguente, ed è costretta ad abbandonare il Kenya.

Annalena Tonelli si sposta allora in Somalia, prima a Merca (dove nel 1995 fu assassinata la dottoressa della Caritas Italiana Graziella Fumagalli) e poi a Borama, nel Somaliland. Qui le sue attività includono un ospedale con 250 posti letto (centro di riferimento di tutta la regione, Etiopia e Gibuti compresi), una scuola di Educazione Speciale (263 studenti)[6] per bambini sordi, ciechi e disabili (unica in tutta la Somalia), un programma contro le mutilazioni genitali femminili (infibulazione), cura e prevenzione HIV/AIDS, assistenza ai fuori casta, orfani, poveri.

Nel giugno 2003, Annalena Tonelli è insignita dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati del prestigioso premio Nansen per l'assistenza ai profughi (Nansen Refugee Award).

Il 5 ottobre 2003, nell'ospedale da lei stessa fondato a Borama, in Somalia, Annalena Tonelli è uccisa a colpi d'arma da fuoco da un commando islamico somalo (chiamato Al-Itihaad al-Islamiya)[7].

Due settimane dopo lo stesso gruppo di fuoco assassina gli operatori umanitari britannici Dick e Enid Eyeington all'interno della scuola dove lavorano, SOS Sheikh Secondary, nel nord-ovest della Somalia[8]

 [modifica]

 

  1. ^ UNHCR - Italian woman wins Nansen Refugee Award for work in Somalia
  2. ^ http://www.centroannalenatonelli.it/pdf/tonelli.pdf
  3. ^ Comitato .html
  4. ^ WHO | Pursue high-quality DOTS expansion and enhancement
  5. ^ US and UK Government International Intervention Since 1945: Kenya
  6. ^ Awdalnews
  7. ^ Bandits murdered two aid workers, BBC (23 December, 2005)
  8. ^ issue 200




OFFLINE
27/01/2013 23:29
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

La Giornata mondiale dei malati di lebbra è un grande appuntamento di solidarietà che si rinnova da cinquant'anni. Capi di Stato, autorevoli ricercatori, persone semplici, offrono il proprio contributo alla celebrazione di questo evento.

Fu istituita nel 1954 da Raoul Follereau, scrittore, poeta e giornalista
francese che per il suo impegno nella lotta alla lebbra fu definito "apostolo dei malati di lebbra".
Follereau inseriva la lotta alla lebbra in un impegno più ampio contro ogni forma di emarginazione
e di ingiustizia. Costante è stato il suo impegno per la pace.

OFFLINE
04/02/2013 07:51
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

DA AVVENIRE

«Padre Lardo», la carità oltre la Cortina di ferro

di Stefania Careddu

31/01/2013 - Il 31 gennaio di dieci anni fa moriva padre Werenfried, fondatore di "Aiuto alla Chiesa che soffre". Dall'inizio nel 1947 con l'aiuto ai profughi tedeschi ai "boat-people" vietnamiti del 1976. Un uomo sempre fiducioso in «Colui che ci dà la forza»

Nei suoi nomi sono racchiusi la storia, lo stile e la fede di un uomo che ha dedicato la vita ai sofferenti e ai perseguitati, scomparso il 31 gennaio di 10 anni fa. Werenfried - che significa combattente per la pace - è quello che scelse quando, a 21 anni, l’olandese Philip Van Straaten decise di farsi monaco premostratense. 

"Padre Lardo" invece è l’appellativo con cui era conosciuto in tutto il mondo, segno indelebile della campagna a favore dei 14 milioni di profughi tedeschi provenienti dalla Germania orientale per i quali, alla fine della seconda guerra mondiale, raccolse viveri, scarpe, vestiti e tonnellate di lardo bussando alle porte dei contadini delle Fiandre, con il suo storico cappello da mendicante. «Sapeva che le massaie fiamminghe non avevano soldi da dare, ma era certo che ognuna di loro avesse un bel pezzo di grasso di maiale appeso accanto al camino», spiega Massimo Ilardo, direttore dell’ufficio italiano di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs), l’opera fondata da padre Werenfried per soccorrere i rifugiati tedeschi, ma anche per dare voce alla Chiesa del silenzio aldilà della cortina di ferro e per aiutare, materialmente e spiritualmente, le chiese perseguitate e prive di risorse. 

«La sua straordinaria inventiva gli ha permesso di rispondere alle esigenze pastorali della Chiesa in modo efficace ed originale», sottolinea Ilardo ricordando le «cappelle-volanti» che servivano a portare il Vangelo in una Germania ormai senza chiese. «Un "format" vincente», lo definisce il direttore di Acs Italia, che fu ripreso in Russia con i battelli-cappella. L’aiuto alla Chiesa ortodossa, del resto, è uno dei tratti significativi dell’opera di padre Werenfried, «a cuiGiovanni Paolo II affidò il compito di "restaurare l’amore" tra le due Chiese sorelle». «Sin dai primi anni '90 - rileva Ilardo - Acs ha sostenuto in Russia la Chiesa ortodossa, ma anche alcuni media cristiani che attraverso un’informazione obiettiva hanno contribuito al miglioramento dei rapporti tra ortodossi e cattolici». Non solo: nel 1956, in occasione della sollevazione popolare in Ungheria, padre Lardo promosse una grande azione di soccorso, mentre negli anni '70 trasformò oltre 300 autocarri dell’esercito svizzero in mezzi di trasporto per i missionari dell’Amazzonia e nel 1976 sollecitò gli aiuti per i boat-people vietnamiti in fuga dalla dittatura comunista. 

«La sua fiducia in Dio era illimitata al punto che diceva ai suoi collaboratori: "Nel predisporre i nostri programmi di aiuto, deve essere determinante non ciò che possiamo fare, bensì ciò che dobbiamo fare, poiché tutto possiamo in Colui che ci dà forza"», rivela Ilardo. Nell’arco della vita, padre Werenfried ha raccolto più di tre miliardi di dollari di offerte. «Il suo straordinario carisma - osserva il direttore di Acs Italia - riusciva a toccare il cuore delle persone. Asia, Africa, America Latina, Europa dell’Est: negli innumerevoli viaggi ha assistito in prima persona alla sofferenza dei fratelli, in cui vedeva Cristo piagato e sofferente». 

«Ricordo la prima volta che l’ho incontrato. Era il 2002: aveva quasi novant’anni, ma quel fisico così debilitato e la sedia a rotelle non riuscivano a contenere la sua indomabile energia», confida Ilardo che all’epoca era un collaboratore di Acs invitato alla riunione annuale dei sacerdoti che beneficiano di una borsa di studio. «L’arrivo di padre Werenfried non era previsto. I suoi collaboratori - continua - gli avevano tenuto nascosto che ci sarebbe stato quell’incontro perché non volevano si affaticasse troppo». Ma «era impossibile fermare padre Werenfried». Così «quel giorno irruppe nella sala accolto da un fragoroso applauso: si formò una lunghissima fila di sacerdoti, religiosi e religiose che volevano ringraziarlo non solo per la borsa di studio, ma per tutto quello che quel gigante della carità aveva fatto per la loro Chiesa». «Angola, India, Perù, Iraq, Polonia, Ucraina. Venivano da ogni parte del mondo. E lì - conclude Ilardo - mi accorsi di quanto realmente fosse immensa la sua opera»

OFFLINE
28/05/2013 08:01
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Ricordiamo il grande e umile fratel Ettore Boschini che, lontano da tutti i salotti e i riflettori, per anni, portando in giro la statua della Madonna di Fatima e col crocifisso rosso dei camilliani sulla veste, ogni notte nei gironi infernali di Milano raccoglieva, lavava amorevolmente, nutriva e curava barboni, clochard, sbandati, tossici e disperati, in un “rifugio” ricavato nel tunnel sotto la stazione centrale di Milano.

Non aveva tempo né per dormire, né per mangiare, tanto ardeva di compassione per Gesù crocifisso che vedeva nei suoi fratelli sofferenti, nelle loro piaghe coperte di sporcizia maleodorante.

E’ morto in fama di santità nel 2004. Sconosciuto ai salotti tv, ma conosciutissimo dai più poveri e dagli angeli di Dio (inizia ora a Milano il processo di beatificazione).

Mi è tornato in mente molte volte in queste settimane, sentendo ripetere a papa Francesco l’esortazione ai cristiani ad uscire dalle sacrestie e andare per le strade a portare la carezza del Nazareno a tutte le creature ferite dalla vita.



I VOLTI DA GUARDARE



Fratel Ettore era davvero “il prete degli ultimi”, come don Oreste Benzi, don Puglisi, padre Aldo Trento. E’ a figure come queste che occorre pensare quando si ascolta l’invito di papa Francesco a far risplendere la misericordia di Cristo nelle periferie esistenziali del mondo.

E non sono solo preti, ma anche religiosi come le suore di Madre Teresa, come suor Elvira della comunità Cenacolo, o come padre Cantalamessa che predica a migliaia di persone nei raduni carismatici, laici come Chiara Amirante, Andrea Aziani, Kiko Arguello, Paola Bonzi (quella del centro di aiuto alla vita della Mangiagalli), opere come Radio Maria (che il papa ha recentemente elogiato per la sua splendida opera) o Cometa di Como o i tanti sacerdoti che passano le ore nel confessionale (dove vorrebbe stare anche papa Bergoglio).

E poi i meravigliosi missionari sparsi ai quattro angoli del pianeta o i preti e religiosi, ancora meno conosciuti, che in tanti oratori, parrocchie, santuari accompagnano migliaia di giovani nel cammino della vita, alla ricerca del senso dell’esistenza, dell’amare, del lavorare, del soffrire.
OFFLINE
29/09/2013 14:09
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Il devoto cattolico Gino Bartali salvò 800 ebrei

Gino BartaliUn grande campione e un buon cristiano. Si chiamava Gino Bartali, a cui il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, nel 2006, conferì la medaglia d’oro al merito civile per i gesto di grande solidarietà compiuto a favore degli ebrei con la seguente motivazione: “Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale con encomiabile spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò con una struttura clandestina che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti in Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei.

Da oggi, Gino Bartali è anche “Giusto tra le nazioni”, l’importante riconoscimento proveniente dallo Yad Vashem, l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoah fondato nel 1953. «Uncattolico devoto»spiega lo Yad Vashem, «che nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’Arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa (anch’egli riconosciuto Giusto tra le Nazioni da Yad Vashem). Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito dell’occupazione tedesca e all’avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia».

Nell’autunno del 1943, ha raccontato Cristiano Gatti, non esitò un attimo a raccogliere l’invito del vescovo fiorentino EliaGino Bartali e Pio XII Della Costa, il cardinale gli proponeva corse in bicicletta molto particolari e molto rischiose: doveva infilare nel telaio documenti falsi e consegnarli agli ebrei braccati dai fascisti, salvandoli dalla deportazione.

Il grande campione viveva la sua profonda fede come terziario carmelitano e membro dell’Azione Cattolica«Prese i voti nella chiesa di San Paolo a Firenze»ha raccontato il figlio Andrea. «Già a dieci anni si iscrisse all’Azione cattolica. Quando passava per Padova, dove aveva moltissimi amici, era d’obbligo la tappa al Santo. Era un uomo di fede, ma sempre nel suo stile, nei fatti più che nelle parole».

OFFLINE
01/10/2013 08:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

SANTA TERESINA del Bambin Gesù

Una ragazza morta a ventiquattro anni diventa dopo neppure cinquant'anni modello di tutta la Chiesa. Pio XI era molto devoto di santa Teresa di Gesù Bambino e la nominò patrona delle Missioni, lei, la cui breve vita si svolse tutta fra Alenon e Lisieux e che dopo i suoi quindici anni non usci più dal convento. 
Quanto spesso Gesù dimostra che i pensieri di Dio non sono i nostri pensieri, né le sue vie le nostre vie I nostri pensieri vengono dall'orgoglio, quelli di Dio dall'umiltà; le nostre vie sono tutte uno sforzo per essere grandi, quelle di Dio si percorrono solo diventando piccoli. Come sulle strade per andare a Nord bisogna prendere la direzione opposta al Sud, così per camminare sulle vie di Dio dobbiamo prendere la direzione opposta a quella verso cui il nostro orgoglio ci spinge. 
Teresa aveva grandi ambizioni, grandi aspirazioni: voleva essere contemplativa e attiva, apostolo, dottore, missionario e martire, e scrive che una sola forma di martirio le sembrava poco e le desiderava tutte... il Signore le fece capire che c'è una sola strada per piacergli: farsi umili e piccoli, amarlo con la semplicità, la fiducia e l'abbandono di un bimbo verso il padre da cui si sa amato. "Non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre". ~ bellissimo salmo 130 può essere applicato alla lettera alla vita di Teresa. 
Così questa giovanissima donna ravvivò nella Chiesa il più puro spirito evangelico ricordando una verità essenziale: prima di dare a Dio è necessario ricevere. Noi abbiamo la tendenza a guardare sempre a quello che diamo; Teresa ha capito che Dio è amore sempre pronto a dare e che tutto riceviamo da lui. Chi vuol mettere la propria generosità prima della misericordia, prima dell'amore misericordioso di Dio, è un superbo; chi riceve quello che Dio gli dà con la semplicità di un bambino arriva alla santità: è contento di non saper far nulla e riceve tutto da Dio. È un atteggiamento spirituale che è anch'esso dono di Dio ed è tutt'altro che passività. Teresa fece di sé un'offerta eroica e visse nella malattia e nella prova di spirito con l'energia e la forza di un gigante: la forza di Dio si manifestava nella sua debolezza, che ella abbandonava fiduciosamente nelle mani divine. Riuscì così in modo meraviglioso a trasformare la croce in amore, una croce pesante, se ella stessa dirà alla fine della sua vita che non credeva fosse possibile soffrire tanto. 
Impariamo questa grande lezione di fiducia, di piccolezza, di gioia e preghiamo Teresa che ci aiuti a camminare come lei nella povertà di spirito e nell'umiltà del cuore. Saremo come lei inondati da un fiume di pace.
 
OFFLINE
01/10/2013 08:23
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Raoul Follereau

Foto Follereau con le mani appoggiate sul bastone
Raoul Follereau

Raoul Follereau nasce a Nevers, in Francia il 17 Agosto 1903, in una famiglia di industriali. Nel 1918 incontra per la prima volta Madeleine Boudou, che sposerà 7 anni dopo (22 giugno 1922) e che sarà sua inseparabile compagna di vita e di ideali. A 15 anni tiene la prima conferenza, organizzata a beneficio delle Suore dei poveri del suo Paese, affermandosi subito come un oratore capace di catturare l'attenzione del pubblico, nonostante la giovane età. A 17 anni scrive il suo primo libro, "Il libro d'amore", che si caratterizza per una frase che diventerà il motivo ispiratore di tutta la sua attività: "essere felici è far felici". Si laurea giovanissimo in legge, alla Sorbona di Parigi, ma rinuncia alla carriera di avvocato per dedicarsi alla poesia e al teatro: ottiene i primi successi con due commedie ("Piccole bambole" e "I nuovi cavalieri"), che da subito compariranno nel cartellone della Comédie Française, la più antica e prestigiosa compagnia teatrale francese. Nel 1935, mentre si trova in Africa come corrispondente di un giornale argentino, ha due incontri che si rivelano decisivi per la strada che decide ben presto di intraprendere: l'incontro spirituale con Padre Charles de Foucauld, in occasione di un servizio sulla sua vita e la sua morte, che gli permette di conoscere questo personaggio interessante e la sua lotta a favore dei più deboli, ed un incontro-choc con i malati di lebbra, nella foresta tropicale della Costa d'Avorio, durante il quale si rende conto, in modo sconvolgente, delle condizioni in cui i malati di lebbra sono costretti a vivere, a causa della paura e dell'ignoranza che ancora circondano questa malattia. Già da tempo aveva incominciato a tenere conferenze in varie zone della Francia, in nome dell'amore universale e delle iniziative verso i più poveri e i più deboli, ma dopo questi incontri la sua strada si indirizza con più precisione a favore dei malati di lebbra. Le sue proposte, quindi, le campagne, gli scritti e le opere vengono tutti finalizzati a sensibilizzare l'opinione pubblica di ogni Paese e a rendere concreti il maggior numero possibile di interventi a favore dei lebbrosi e di tutte le vittime di quelle che egli definisce come 'altre forme di lebbra' (razzismo, povertà, emarginazione...).Nel 1937 crea le Fondazioni Charles de Foucauld, per la diffusione della testimonianza d'amore fraterno, iniziando una nuova serie di conferenze e di viaggi.Nel 1940 viene richiamato sotto le armi, ma prima che possa raggiungere il fronte, l'esercito tedesco ha già occupato Parigi. A causa di alcuni articoli intitolati "Hitler, l'anticristo", pubblicati sul suo giornale, è costretto a nascondersi, in un primo momento presso alcuni amici, in periferia. In questo periodo, tuttavia, la sua attività non si ferma e, grazie all'aiuto di molti corrispondenti, continua a scrivere messaggi e articoli di denuncia e di informazione. Successivamente, nel 1942, trova rifugio nel Convento di Venissieux, nei dintorni di Lione (presso le Suore di Nostra Signora degli Apostoli), all'interno del quale viene a conoscenza del progetto per una città dei lebbrosi che le Suore vorrebbero costruire nella foresta vergine, ad Adzopè, nella Costa d'Avorio. Egli offre immediatamente il proprio aiuto per la raccolta dei fondi e, nonostante la guerra, riesce a tenere una serie di conferenze per raccogliere il denaro necessario a ricominciare i lavori nella foresta. Una volta sopraggiunta la liberazione dai tedeschi, gli sforzi per sostenere questa opera grandiosa si intensificano ancora di più e, dopo 13 anni di lavori, la 'città dei lebbrosi' viene finalmente inaugurata.Dopo il successo di quella prima e importante iniziativa, giungono a Follereau decine di richieste di aiuto da ogni regione colpita da questa malattia, che lo porteranno a compiere numerose volte il giro del mondo per portare aiuti e affetto, e per verificare e denunciare le condizioni di vita scandalose in cui i malati di lebbra sono costretti a vivere. Decide, a questo proposito, di suddividere ogni anno in due parti: sei mesi per percorrere le terre lontane in cui sono relegati i malati, per cercarli, abbracciarli e distribuire loro ciò che è stato raccolto, e sei mesi per viaggiare nelle nazioni ricche e scuotere, attraverso discorsi, conferenze, interviste e ogni altro mezzo utile, le coscienze di tutti, mobilitandole in favore della sua missione.Nel 1942 lancia l'iniziativa l'ora dei poveri, con la quale chiede a ciascuno di dedicare almeno un'ora all'anno del proprio salario, guadagno o rendita a favore degli infelici. L'importanza di questo semplice gesto risiede non solo nel denaro che viene dato, ma soprattutto nel significato profondo che assume il fatto di pensare ai più sfortunati, di offrire loro un momento della propria vita. Inoltre, non caratterizzandosi per la somma offerta, ma per l'atto fraterno che la costituisce, permette a tutti, ricchi o poveri che siano, di unirsi nella più autentica carità. E, non a caso, come Follereau testimonia nei suoi scritti, sono proprio i più poveri che, per primi, quando tutti giudicavano utopica questa iniziativa, hanno avuto fede in essa e hanno contribuito a renderla sempre più significativa anno dopo anno. Nel 1944, dopo aver compiuto il primo viaggio intorno al mondo ed aver riempito intere pagine di denuncia per lo sdegno provato di fronte a ciò che ha visto, Follereau scrive una lettera al Presidente degli USA Franklin Roosevelt, rimasta senza risposta, nella quale chiede di destinare la cifra corrispondente ad un giorno di guerra alle opere di pace.Nel 1946, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Charles de Foucauld, lancia un'altra importante iniziativa, il Natale di Padre de Foucauld: ricordando le piacevoli feste natalizie della sua infanzia, Follereau chiede a ciascuno di condividere la gioia del Natale con chi è più sfortunato, inviando doni per i bambini più poveri e coinvolgendo le persone anziane, sole o sfortunate all'interno della propria famiglia, per festeggiare insieme la festa del Natale.Lo stesso anno fonda l'Ordine della Carità, che intende essere una libera associazione per chiunque voglia impegnarsi con se stesso ad essere fraterno nei pensieri, nelle parole, nelle azioni e che diventerà, dopo qualche anno, la Fondazione Raoul Follereau. Questa iniziativa ambisce a dare fondamento comune a tutti coloro che vogliono vivere nella carità, intesa, nel suo senso più ampio, come principio ispiratore per colui che vuole condividere i problemi di chi è più sfortunato, comprenderli, risolverli. Nel 1947 proclama, per il Venerdì Santo, lo "sciopero generale dell'egoismo", alle ore 15, "nell'ora in cui gli egoisti e i corrotti hanno messo a morte Colui che diceva: Amatevi gli uni gli altri. Che ciascuno dedichi quest'ora della propria vita ai più diseredati". Attraverso tutte le associazioni, senza distinzione di confessioni, questa iniziativa viene diffusa in tutti gli Stati ed è finalizzata a rendere ancora più significativa, in modo particolare dal punto di vista religioso, quella precedente dell'ora della carità; anche la Santa Sede si è espressa a favore di essa, attraverso un elogio esplicito inviato personalmente a Raoul Follereau.Il 20 settembre 1952 invia una Richiesta all'ONU nella quale suggerisce di stabilire una Convenzione che fissi lo statuto dei malati di lebbra e assicuri la salvaguardia dei loro diritti e della loro dignità.Nel 1953 compie il giro delle capitali europee per un'ulteriore campagna di sensibilizzazione della stampa, dei poteri pubblici, delle associazioni filantropiche al problema dei malati di lebbra.Nel 1954 invia le due famose Lettere ai grandi, indirizzate al Generale Eisenhower, Presidente degli USA, e al presidente del Consiglio dei Ministri dell'URSS Malenkov, per chiedere loro due bombardieri, vendendo i quali si sarebbero potuti curare tutti i malati di lebbra del mondo (non ottenendo risposta).Nello stesso anno fonda la "Giornata mondiale dei lebbrosi", fissata nell'ultima domenica di gennaio, che diventerà una delle manifestazioni più significative per sensibilizzare l'opinione pubblica al doloroso problema dei malati di lebbra.Il 16, 17 e 18 aprile 1956 si tiene a Roma, su iniziativa di Follereau, il Congresso internazionale per la difesa e la riabilitazione sociale dei lebbrosi, che riunisce le personalità più competenti in leprologia per discutere del problema scientifico e sociale della lebbra. Nel 1959 invia nuovamente la "Lettera ai Grandi" (Eisenhower e Kruscev) per chiedere ad entrambi un bombardiere, senza però ottenere risposta.Nel 1962 decide di scrivere una lettera a tutti i Capi di Stato del mondo, con la quale sensibilizzare e attivare iniziative concrete a favore della cura della lebbra e della riabilitazione sociale dei malati.Il 25 ottobre 1966, a Berna, promuove la fondazione dell'ELEP (Comitato europeo di coordinamento delle associazioni europee contro la lebbra), di cui diviene Presidente Onorario a vita. Nel 1975 l'associazione diventa internazionale, con sigla ILEP (International Leprosy Federation).Nel 1972 compie l'ultimo dei numerosissimi viaggi in Africa, nel corso del quale festeggia la XIX Giornata mondiale dei lebbrosi presso gli amici del Benin e dell'attuale Burkina Faso.Muore a Parigi il 6 dicembre 1977.

OFFLINE
04/10/2013 08:06
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Francesco ha veramente realizzato il Vangelo che la liturgia ci fa proclamare nella sua festa: ha ricevuto la rivelazione di Gesù con il cuore semplice di un bambino, prendendo alla lettera tutte le parole di Gesù. Ascoltando il passo evangelico nel quale Gesù invia i suoi discepoli ad annunciare il regno, ha sentite rivolte a sé quelle parole, che diventarono la regola della sua vita. Ed anche a quelli che lo seguirono egli non voleva dare altra regola se non le parole del Vangelo, perché per lui tutto era contenuto nel rapporto con Gesù, nel suo amore. Le stimmate che ricevette verso la fine della sua vita sono proprio il segno di questo intensissimo rapporto che lo identificava con Cristo. Francesco fu sempre piccolo, volle rimanere piccolo davanti a Dio e non accettò neppure il sacerdozio per rimanere un semplice fratello, il più piccolo di tutti, per amore del Signore.
Per lui si sono realizzate in pieno le parole di Gesù: "il mio giogo è dolce e il mio carico leggero". Quanta gioia nell'anima di Francesco, povero di tutto e ricco di tutto, che accoglieva tutte le creature con cuore di fratello, che nell'amore del Signore sentiva dolci anche le pene!
Anche per noi il giogo del Signore sarà dolce, se lo riceviamo dalle sue mani.
Nella lettera ai Galati san Paolo ci dà la possibilità di capire meglio alcuni aspetti di questo giogo con due espressioni che sembrano contradditorie ma sono complementari. La prima è: "Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo". I pesi degli altri: questo è il giogo del Signore. San Francesco l'aveva capito agli inizi della sua conversione. Raccontò alla fine della vita: "Essendo io in peccato, troppo amaro mi sembrava vedere i lebbrosi, ma lo stesso Signore mi condusse fra loro ed io esercitai misericordia con loro". Ecco il giogo, che consiste nel caricarsi del peso degli altri, anche se farlo ci sembra duro. E continua: "E partendomene, ciò che mi era apparso amaro mi fu convertito in dolcezza nell'anima e nel corpo". Per chi se ne è veramente caricato, il giogo diventa dolce.
Poche righe più avanti troviamo la seconda frase di san Paolo: "Ciascuno porterà il proprio fardello". Si direbbe in contrasto con la prima, ma nel contesto il significato è chiarissimo: si tratta di non giudicare gli altri, di essere pieni di comprensione per tutti, di non imporre agli altri i nostri modi di vedere e di fare, di guardare ai propri difetti e di non prendere occasione dai difetti altrui per imporre alle persone pesi che non sono secondo il pensiero del Signore. San Francesco si preoccupava di questo e nella sua regola scrive: "Non ritenersi primo fra i fratelli": essere umili; "Non si considerino mai come padroni": non imporre pesi agli altri; e aggiunge: "Chi digiuna non giudichi chi mangia". E la delicatezza della carità, che se vede il fardello degli altri non li critica, non li giudica, ma piuttosto li aiuta.
Prendiamo così su di noi il giogo di Cristo. Carichiamoci dei pesi degli altri e non pesiamo su di loro con critiche e giudizi privi di misericordia, perché possiamo conoscere meglio il Figlio di Dio che è morto per noi, e in lui conoscere il Padre che è nei cieli, con la stessa gioia di san Francesco.
OFFLINE
05/10/2013 14:25
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

San Francesco non è il mito laico creato dai media

San FrancescoDispiace ripetere quello che gli storici sanno benissimo e da tempo, ma la presenza di Papa Francesco oggi ad Assisi – e delle ormai consuete strumentalizzazioni -, impone un riassunto: san Francesco (1182 – 1226) fu un uomo diverso dalla caricatura dolciastra che, purtroppo con successo, gli è stata cucita addosso.

Perché? Per più ragioni. Tanto per cominciare, non era affatto un personaggio ossessionato dalla povertà materiale alla quale anteponeva, come preoccupazione, quella spirituale. Mai, infatti, esortò i bisognosi alla rivolta bensì, semmai, allapazienza; fu seguito anche dai rampolli della nobiltà italiana del suo tempo ai quali disse che la povertà era una strada per il Paradiso senza però mai – attenzione – azzardarsi a suggerirla come unica.

Francesco lottò dunque contro la vanità terrena ma non demonizzò i materiali preziosi, che difatti raccomandava esplicitamente ai suoi di impiegare per la Messa: «Vi prego […] i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi.E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (Prima lettera ai Custodi).

Se poi pensiamo che fra gli studiosi c’è chi sostiene che pure la moderna teoria del libero mercato debba molto al contributo culturale dei teologi discepoli del Poverello, si può definitivamente comprendere l’infondatezza del mito di un predicatore della povertà assoluta quale Francesco mai, di fatto, volle essere.

Priva di fondamento è anche l’idea di un san Francesco eternamente sorridente e dalla personalità tiepida e buonista: basti ricordare che un giorno – stando agli scritti di Tommaso da Celano (1200-1270) – informato della presenza di detrattori del suo Ordine si rivolse al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, intimandogli quanto segue: «Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo (Chiamava col nome di pugilatore frate Giovanni di Firenze, uomo di imponente statura e dl grandi forze)». Un tono e un atteggiamento, converrete, che mal si concilia con l’immagine mielosa che i più hanno in mente. Ma questo non è certo il solo episodio significativo.

Possiamo anche ricordare, per rendere giustizia del Francesco della storia – così diverso da quello di certa propaganda -, che quando costui, nell’anno 1219, si trovò al cospetto delSultano Malik al-Kami, anziché tessere l’elogio del dialogo e della pace non esitò a ricorrere a parole oggettivamente forti: «Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo». Che il Poverello fosse guerrafondaio? Ma no, ci mancherebbe. Semplicemente era un uomo non solo di solidi principi ma anche di solida personalità, incline all’amore, certo. Ma non ai compromessi. Mai.

 

OFFLINE
08/10/2013 08:40
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

 Plinio Corrêa de Oliveira

(13 dicembre 1908 — 3 ottobre 1995) 

sdpamparo1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

         Il 3 ottobre 1995, dopo una lunga e sofferta malattia, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira chiudeva gli occhi al mondo per aprirli nell’eternità. “Ho la coscienza del dovere compiuto, per il fatto di avere fondato la mia cara e gloriosa TFP”, aveva scritto nel 1978 sul suo Testamento spirituale. Si riferiva, ovviamente, alla Società brasiliana di difesa della Tradizione, Famiglia e Proprietà. 

       Plinio Corrêa de Oliveira è ricordato come pensatore. Venti libri, 2.500 tra saggi e articoli, ventimila conferenze riportate in quasi un milione di pagine, fanno di lui uno degli autori cattolici più prolifici di tutti i tempi. Egli è stato un vero maestro del pensiero contro-rivoluzionario. 

      Plinio Corrêa de Oliveira è ricordato come leader e fondatore. Dirigente delle Congregazioni mariane, presidente d’Azione Cattolica, deputato per la Lega Elettorale Cattolica, fondatore di movimenti civici, egli è all’origine di una vasta famiglia di associazioni oggi diffusa nei cinque continenti. In quasi settanta anni di militanza cattolica, egli ha condotto numerose campagne dottrinali contro gli errori del secolo, alcune con ripercussione mondiale. 

        Plinio Corrêa de Oliveira è ricordato per la sua sorprendente capacità di prevedere certi sviluppi futuri, con mesi e addirittura anni di anticipo, che gli è valso l'appellativo di profetico“Un gigante della fede, una delle maggiori figure della Chiesa del nostro secolo, un maestro di pensiero dei cattolici odierni, un vero e grande profeta inviato dalla Provvidenza per portarci la speranza”, esclamava mons. Luigi Villa nell’omelia della Messa di requiem per il prof. Plinio Corrêa de Oliveira a Milano nel 1995. 

       Plinio Corrêa de Oliveira è ricordato come maestro della vita spirituale. Non solo nelle sue conferenze pubbliche, ma anche nella concreta direzione delle singole anime, egli mostrava di possedere il dono del discernimento, insieme a quello del consiglio, che gli permetteva di orientare in modo sicuro le persone verso il bene, cioè verso la Santa Chiesa Cattolica, la Madonna e Nostro Signore Gesù Cristo. 

       Plinio Corrêa de Oliveira è ricordato come contemplativo. Tanto quanto combatteva per la buona causa, egli si occupava con altrettanta solerzia della visione in chiave metafisica e religiosa di tutta la realtà che lo circondava. “Io sono un contemplativo in lotta”, solleva dire. Proprio a questo aspetto della sua personalità è dedicato il libro recentemente pubblicato in Italia: «Innocenza primordiale e contemplazione sacrale dell’universo» (Cantagalli, 2013). 

       Fra tutti i titoli per i quali Plinio Corrêa de Oliveira potrebbe essere ricordato, però, nessuno più nobile e appropriato di cattolico. Egli stesso dichiarava: “Io non voglio altro che essere figlio della Santa Chiesa, membro della Chiesa e obbediente alla Chiesa. Questa è la mia definizione. La parola cattolico contiene tutto ciò che di buono, di bello, di vero e di giusto esiste nel vocabolario umano, di più non si può dire! Se qualcuno mi scrivesse come epitaffio Fuit vir catholicus, io esulterei di gioia nel mio sepolcro!”. 

       In un’epoca di crescente confusione, in cui tanti rischiano di perdere i punti di riferimento, si fa sentire sempre di più il bisogno di testimonianze forti e decise. Invitiamo i nostri cari lettori a conoscere più da vicino questa straordinaria figura del cattolicesimo contemporaneo, leggendo una sua breve biografia online:

http://www.atfp.it/2005/76-ottobre-2008.html

[Modificato da Coordin. 08/10/2013 08:41]
OFFLINE
23/06/2014 07:32
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota




Genoveffa e i suoi mille figli






Vita e morte di una piccola donna che ha salvato un popolo






 Andrea Bonzo

Alcuni studiosi l’hanno definita una delle esperienze più riuscite della storia dell’antropologia. Per i teologi, invece, si tratta di un modello di vera evangelizzazione. Di sicuro – quella delle missionarie Genoveffa e le sue consorelle – è una storia che sembra uscire direttamente dalla penna di Gabriel Garcia Marquez.

Siamo in Brasile, nella giungla del Mato Grosso. Tra le varie tribù che abitano questa zona minacciata dalla deforestazione c’è anche quella dei Tapirapé. Quando Genoveffa – meglio conosciuta come Veva – arriva in missione tra di loro è il 1952. E trova una tribù ridotta male, molto male: a un passo dall’estinzione. Una cinquantina i membri rimasti, perlopiù uomini.

Il declino era iniziato nel 1909. Le malattie portate dai bianchi – influenza, febbre gialla, vaiolo – iniziano lo sterminio. Nel 1935, dai 2000 che erano, sono già ridotti a 135. Al resto, ci pensano le guerre con le tribù vicine.
Dice il capo villaggio quasi in lacrime a Veva e alle sue compagne, poco dopo il loro arrivo: “La terra vale, i pesci valgono, il legno vale, solo noi Tapirapé non valiamo niente”. Non sa, tuttavia, che il motto della fondatrice della comunità delle “Sorelle di Gesù” è proprio: “Andare tra i dimenticati, tra gli scomparsi, tra quelli per cui nessuno ha interesse”.

L’arrivo di Veva, Clara e Denise costituisce uno spartiacque nella sfortunata storia dei Tapirapé. Un prima e un dopo.
Da subito, l’obbiettivo delle missionarie è stato quello di vivere come loro, mangiando lo stesso cibo e seguendo lo stesso stile di vita. E grazie al loro lavoro, un mix di cure e prevenzione delle malattie, la mortalità viene ben presto ridotta, fino ad essere poi quasi sradicata. Il tutto, sempre rispettando il modo di essere dei Tapirapé, che grazie all’impegno delle sorelle oggi sono tornati a contare un migliaio di membri.

Veva, unica tra tutte le missionarie, non uscì mai più dal villaggio. Nata in Francia nel 1923, capelli bianchi e lisci, aspetto fragile, si svegliava ogni giorno prima dell’alba per curare l’orticello dietro le case di fango secco e canne del villaggio.

Veva non uscì mai più dal villaggio e nel villaggio si è spenta all’età di 90 anni. Il dolore della “sua” gente è stato enorme, come se a morire fosse stata un po’ la madre di tutti loro. Pianti e lamenti e canti funebri ritmati con i passi sono proseguiti ininterrotti per due giorni interi, notte compresa. E’ stata sepolta secondo il rito Tapirapé: nella casa in cui abitava, su un’amaca ricoperta di terra raccolta dalle donne e poi bagnata perché diventasse fango secco, in una cerimonia accompagnata da canti. Da quel momento, su quella stessa amaca in cui dormiva in vita, il corpo di Genoveffa riposa tra quelli che ha scelto perché fossero il suo popolo.

E c’è già chi paragona la sua storia a quella di Madre Teresa di Calcutta. In effetti, l’accostamento sembra calzante, se non altro per l’approccio adottato dalle due donne: avvicinarsi al “diverso” per convivere con lui, conoscerlo e valorizzare la sua diversa cultura e religione. Non solo per parlagli dell’amore di Dio, ma per essere, diventare quello stesso amore. Perché si sa, l’esempio vale sempre più di mille parole.
OFFLINE
30/06/2014 10:23
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Don Zeno, un vero sacerdote


 


Molti di voi hanno forse sentito parlare di don Zeno e della comunità da lui fondata. Una "vera comunità cristiana", come ebbe a dire lo stesso Giovanni Paolo II, in un elogio pubblico di questo straordinario uomo e sacerdote. Proprio ieri, ho scritto un articolo sulla scelta che ogni cristiano e' chiamato a fare; parlavo di quella radicale, senza la quale ogni tipo di religiosità e' esercizio vano. Nel vangelo Gesù non contrappone nulla a se stesso, se non "mammona", ossia tutto ciò che per sua natura impedisce all'uomo di confidare in Dio. 

Nomadelfia e' un insieme di famiglie dove non esistono proprietà private, ma tutto e' messo in comune e distribuito secondo le esigenze di ciascuno. Una comunità dove la giustizia si fonde con l'amore e l'attenzione ai più bisognosi. Non era forse questa la caratteristica di fondo delle prime comunità cristiane? (cfr. Atti degli Apostoli 4) Non sono forse le famiglie di Nomadelfia delle persone che vivono una vita felice e serena, pur senza beneficiare di tutte quelle garanzie sulla vita senza le quali non riusciamo neppure a pensare una vita su questa terra?

Don Zeno, diciamolo, era un prete vero. Uno di quelli che pensava al Vangelo non come un libro da leggere in Chiesa, ma da vivere fino in fondo, comprese quelle scelte che per noi oggi sembrano impossibili da fare. Non dico, ovviamente, che dovremmo progettare di cambiare radicalmente l'assetto delle nostre famiglie ed ancor meno di abbandonare il lavoro che permette di sostentarle.

Ponendo pero' a se stesso come unico contraltare "mammona", Gesù vuole che nulla - neppure il lavoro - sia anteposto a Dio, che dev'essere l'unico Signore della nostra vita, così come tra l'altro recita il primo comandamento (Esodo 20,2-6). Ciò concretamente significherebbe saper rinunciare anche al lavoro, se viene illecitamente promesso dietro prestazioni o ricatti sotterranei fatti dal potente di turno!



Oggi, purtroppo, vi e' chi pur di lavorare e' disposto anche a scendere a compromessi inaccettabili, consegnando incautamente la propria vita non nelle mani di Dio, ma in quelle sporche di chi ha potere. Occorre denunciare con chiarezza chi promette lavoro - spesso neppure mantenendo tale promessa - in cambio, per esempio, di prestazioni sessuali o del versamento di ingenti somme di denaro. Questo vuol dire concretamente mettere i soldi prima di Dio. L'essere creati ad immagine e somiglianza di Dio (cfr. Genesi 1), conferisce agli uomini ma dignità che nessuno può osare di calpestare. Chi si sottomette a questo ricatto rinuncia alla propria libertà, una volta per tutte. E' ben consapevole che il protagonista della propria vita che perciò e' retta e sorvegliata da un altro ed abbietto essere umano. Come potrà mai questa persona avere un rapporto autentico con Dio, la cui base e' proprio l'affidamento nelle sue mani?

Nomadelfia e' una vera e propria "profezia" del nostro tempo. Indica uno stile di via possibile, per chi vuole. Per tutti, e' un richiamo alle scelte di fondo del cristianesimo, la prima delle quali e' non anteporre nulla a Dio. Per farlo occorre modificare posizioni esistenziali consolidate, per pensare a percorsi e progetti nuovi che conferiscano alla realtà mondane il loro giusto significato. Altrimenti, dobbiamo essere onesti con noi stessi e dire che non solo non siamo veri cristiani, ma neppure persone religiose in generale. Lo so, questo ragionamento da' fastidio ed irrita pure, tuttavia e' quanto mai necessario farlo, soprattutto in questo periodonti crisi.

Don Zeno e' però anche un forte richiamo ai sacerdoti e ai vescovi, ora che c'è Papa Francesco, perché sappiano annunciare coraggiosamente che esiste un'alternativa rispetto a quella dell'affidarsi unicamente ai nostri punti di vista e al conto in banca! Io e mia moglie abbiamo pianto al termine del film, perché piace vedere che l'impero dei soldi e di "mammona" può essere concretamente sopraffatto; magari senza cambiare lavoro, ma solo subordinando tutto, ma proprio tutto a Dio, autore e sorgente di vita! 

OFFLINE
15/07/2014 12:12
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Iqbal Masih: piccolo martire per la giustizia

Nato nel 1983 a Murdike, in Pakistan, da una famiglia poverissima, già a quattro anni Iqbal Masih lavorava in una fabbrica di mattoni come nel martoriato Pakistan sovente accade ai più miseri e ai cristiani, che spesso sono la medesima cosa. Quando la sua famiglia s’indebitò sino al collo per pagare il matrimonio del loro primogenito, il piccolo, che aveva cinque anni, fu ceduto a un fabbricante di tappeti per 600 rupie, più o meno 12 dollari americani. Lavorava quindi un minimo di 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, incatenato al telaio, spesso picchiato, con uno stipendio pari ad una sola rupia, vale a dire pochi centesimi di euro. Ogni suo tentativo di fuga da quell’inferno terrestre è sempre stato vano.


 


Nel 1992 riuscì però a uscire di nascosto dalla fabbrica per prendere parte, con altri bimbi costretti in condizioni analoghe alle sue, a una manifestazione Fronte di liberazione dal lavoro schiavistico, una organizzazione fondata dall’attivista Ehsan Ullah Khan che in quello stesso anno riuscì a far promulgare la legge che aboliva l’impiego di manovalanza coatta. Ma l’abolizione era ancora lontana e così quando Iqbal rientrò in fabbrica dopo la manifestazione, essendosi rifiutò di tornare al lavoro, e avendo subito per questo gravi percosse, il padrone dell’impianto disse alla famiglia del piccolo che il loro debito nei suoi confronti contratto anziché diminuire era aumentato, ammontando adesso a diverse migliaia di rupie, pretendendo inoltre di addossare alla famiglia persino il costo dello scarso nutrimento fornito dato a Iqbal, i costi dei certi presunti errori di lavorazione, e così via.  La famiglia decise allora di fuggire, abbandonare il villaggio e Iqbal, ospitato in un ostello gestito dall’organizzazione di Ullak Khan, riprese ad andare a scuola. Il suo corpo era comuqneu irrimediabilmente segnato dalle condizioni patite e 10 anni Iqbal aveva la statura e il peso di un bimbo di 6.



Ma quel 1993 aveva segnato il punto, felice, di non ritorno. Iqbal era un piccola celebrità, riconosciuta ovunque per il suo coraggio e al sua abnegazione. Cominciò a viaggiare e a partecipare a conferenze internazionali, sensibilizzando l'opinione pubblica sui diritti che nel suo Paese erano negati ai bambini, e contribuendo alacremente alla battaglia contro le nuove vecchie schiavitù del mondo.

Nel dicembre del 1994 ottenne un premio (sponsorizzato da un'azienda di calzature) di 15mila dollari e con questo denaro decise di finanziare una scuola nel suo Pakistan. Nel 1995 partecipò a Lahore a una conferenza contro la schiavitù dei bambini. Grazie a lui, circa 3mila piccoli schiavi furono liberati. E sotto la pressione internazionale, il governo pakistano iniziò a chiudere decine di fabbriche di tappeti. «Da grande», diceva Iqbal, «voglio diventare avvocato e lottare perché i bambini non lavorino troppo».


Non ne ha avuto il tempo. Il 16 aprile 1995 (e non il 12, come qualcuno scrive) uscì di casa come ogni mattina. Era diretto in chiesa, nella chiesa che poco distava dalla casa della nonna che poi sarebbe andato a trovare. Con lui c’erano i cuginetti Liaqat e Faryad. Era la Domenica di Pasqua (e non la Domencica delle Palme, come il pur bel filmato qui proposto erroneamente afferma) e i tre ragazzi seguirono la Messa. Poi nel pomeriggio Iqbal saltò in sella alla sua bicicletta per un bel giro di gioco e svago. Cadde subito a terra morto, raggiunto dai proiettili esplosi da una macchina dai finestrini oscurati che gli si era rapidamente avvicinata. Così dissero alcuni testimoni, perché la polizia locale attribuì tutto grossolanamente e sbrigativamente a “un contadino” con cui Iqbal aveva litigato… «Un complotto della mafia dei tappeti», sentenziò il suo vecchio amico Ullah Khan subito dopo l’omicidio.

Iqbal aveva 12 anni. La sua fede cattolica non l’aveva trascurata ed essa non lo aveva mai abbandonato. Con sé Iqbal il giorno della morte aveva una Bibbia e un libro sulla santa Pasqua, più un’immaginetta con il volto di Gesù che non è difficile immaginare usasse teneramente pure come segnalibro durante quelle sante letture.
OFFLINE
23/07/2014 15:41
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota


La suora più veloce del West
che sfidò Billy the Kid

di Marco Respinti

Il Far-West lo hanno fatto i cow-boy, gli indiani, i missionari cattolici e le suore. Sì, le suore: energiche, coraggiose, talora eroiche e magari anche sante come suor Blandina Segale, per la quale – lo ha annunciato mons. Michael J. Sheehan, arcivescovo di Santa Fe, nel New Mexico – si apre ora, dopo il nulla osta della Santa Sede, la causa di beatificazione.
Suor Blandina era italiana, nata a Cicagna, in provincia di Genova, il 23 maggio 1850 con il nome di Rosa Maria. Quando aveva quattro anni, i suoi genitori (Giovanna Malatesta e Francesco Segale) si spostarono a Cincinnati, in Ohio, è così la futura suora divenne americana. Blandina fu il nome della martire del II secolo che Rosa volle assumere entrando nelle Suore della Carità l’8 dicembre 1868, a 16 anni. Così fece subito dopo pure la sorella maggiore, Maria Maddalena, che, dopo avere rifiutato diverse proposte di matrimonio, la seguì nello stesso convento come suor Giustina (spesso anglicizzato in Justina).

La prima missione di suor Bladina fu l’insegnamento nelle cittadine di Steubenville (dove oggi sorge, fondata nel 1946, una ben nota università francescana, fiore all’occhiello della Chiesa statunitense) e di Dayton, in Ohio. Poi, il 27 novembre 1872, fu inviata in missione in Colorado, precisamente (fate caso ai nomi) nella cittadina mineraria di Trinidad, contea di Las Ánimas, valle del fiume Purgatoire (che gli spagnoli chiamavano “El Río de las Ánimas Perdidas en Purgatorio”) noto tra l’altro per le molte menzioni che gli tributa il classico del cinema western L’uomo che uccise Liberty Valance, diretto nel 1962 da John Ford, con John Wayne e James Stewart.
Ora, il Colorado di allora non era quello di oggi, raggiungibile comodamente in areo, famoso per i resort e rinomato per alcune tra le piste da sci più belle del mondo. Era invece un territorio semiselvaggio di frontiera infestato da indiani e pistolero. Suor Blandina non se ne accorse subito. Quando le dissero Trinidad, aveva pensato alla lussureggiante isola delle Piccole Antille davanti al Venezuela o all’omonima cittadina tropicale di Cuba. A bordo del treno che attraversava le polveri roventi del deserto si accorse invece che l’attendeva tutt’altro. 22enne, viaggiò da sola nella desolazione e il 9 dicembre arrivò a destinazione: poche case al limite dell’ecumene umano che per i fuorilegge del West erano come la Tortuga per i pirati caraibici e dove il linciaggio era il modo usuale per regolare i conti. Suor Blandina insegnava ai ragazzi di quel mondo surreale, e una volta riuscì anche a salvare la pelle a un tale che aveva sparato a un tizio: la folla lo aveva strappato dalla cella in cui era rinchiuso per impiccarlo in piazza, ma suor Blandina convinse uno sceriffo attonito a farsi consegnare l’assassino, questi a chiedere perdono alla sua vittima e la folla, sbigottita, a tornarsene a casa.
Ben altra minaccia incombeva però su Trinidad e il suo nome (meglio, nomignolo) era Billy the Kid, il famoso ladro e assassino, al secolo Henry McCarty (1859-1881) ‒ e anche Henry Antrim o William Harrison Bonney ‒, reso celebre da cinema, tivù e fiction. Quelle erano le sue zone di bottino. Ma nemmeno per il più smaliziato dei criminali le cose filavano lisce sempre. Durante un alterco, uno della banda aveva sparato a Billy, che ora agonizzava in una baracca poco lontana da Trinidad. Appena lo seppe da un ragazzino della scuola, suor Blandina corse dal bandito: a dargli cibo e acqua certo, ma soprattutto a rispondere alle domande su Dio e sulla religione che quel furfante introverso e caratteriale non cessava mai di farsi. Poi Billy guarì, ma solo dalle ferite: l’aveva giurata ai medici che non lo avevano voluto curare perché era un brigante e così diede loro, anzi al loro scalpo, appuntamento per un assolato sabato alle 14,00 precise.
Giunto a Trinidad, però, Billy non incontrò i dottori, ma suor Blandina. La salutò con estrema cortesia, impegnandosi per riconoscenza a esaudire qualsiasi desiderio ella avesse espresso. E, ovvio, suor Blandina disse a Billy di lasciar stare lo scalpo dei quattro medici. Billy sussultò, si adirò meravigliato che la suora conoscesse il motivo del suo arrivo in città, ma poi si quietò e risparmiò le vite che aveva deciso di prendere. La storia della suorina genovese che nel selvaggio Ovest ferma il famoso “Attila” da film fece il giro del mondo e ancora oggi passa di bocca in bocca. Tanto da averle guadagnato il soprannome di “suora con gli speroni” e “suora più veloce del West”: più lesto il suo amore in Dio di qualsiasi revolver. Dopo Trinidad suor Blandina fu assegnata - era il dicembre 1873, a Santa Fe, nel New Mexico. Per arrivare laggiù, all’epoca si percorreva un bel tratto dei 1400 chilometri di pista per mandrie e carovane che partiva da Franklin, nel Missouri.
Nel mezzo del nulla; perché se qualcosa c’era, erano gli indiani. Il Colorado faceva ancora parte dei Territori non organizzati che erano di chi di fatto li occupava; il Texas aveva appena smesso di essere una repubblica indipendente; e la pista si snodava lungo la Comanchería, la patria dei non proprio amichevoli indiani omonimi. Una esodo, che la suora ricorda nel suo libro At the End of the Santa Fe Trail, pubblicato postumo per la prima volta nel 1932. Giunta a Santa Fe, andò subito a trovare un vecchio amico. Billy the Kid, che, catturato, se ne stava in prigione. Per poco, però, perché presto fuggì. Un giorno, a bordo di una diligenza, suor Blandina e altri furono molestati dai banditi.
All’avvicinarsi dei predoni, i viaggiatori tremavano e lei recitava il rosario. Poi il capo della banda gettò uno sguardo rapace dentro la diligenza, fece un gesto di riverenza col cappello e voltò il cavallo altrove. Era sempre Billy, e la presenza di suor Blandina ne aveva ancora una volta stemperato i propositi malvagi. Per un altro ventennio abbondante la vita della suorina genovese portò Gesù nel Far West, ma anche l’istruzione, l’educazione, la cura dei malati e la difesa dei diritti umani di indiani e d’ispanici, inaugurando scuole, ospizi e ospedali. Nel 1882 ricostruì il convento distrutto di Albuquerque e, sempre lì, nel 1901 portò a termine la costruzione del St. Joseph Hospital. Quando, a Trinidad, qualcuno le disse con disprezzo che con quell’abito da consacrata non poteva certo insegnare, suor Blandina sfoderò una copia della Costituzione federale degli Stati Uniti sventolandone il Primo Emendamento che definisce al libertà religiosa la prima libertà dei cittadini e americani, e continuò per la sua strada tipo “ragazzo scansati, che debbo lavorare”.
Poi la piccola grande suora rientrò, oramai anziana, a Cincinnati, dove, con la sorella suor Giustina, creò un centro di assistenza per italiani che le occupò gli ultimi anni di vita, appena prima di sapere che l’altrettanto famoso sceriffo Pat Garrett (Patrick Floyd Garrett, 1850-1908), da sempre alle calcagna di Billy the Kid, aveva finalmente ucciso il bandito. Il pensiero di suor Blandina tornò ai loro primi colloqui, chiedendosi se quell’assassino e ladro avesse avuto il tempo di trovare quella pace divina cui tanto bislaccamente da sempre anelava. A Cincinnati suor Blandina si spense il 23 febbraio 1941. Fu una delle prime donne a prendere la patente; ovviamente guidava una Ford.
Il suo nome, l’ennesimo nome italiano di un consacrato a Dio nel selvaggio West americano, è legato a storie di eroismo e di abnegazione vere che sono più affascinanti di qualsiasi romanzo d’appendice, tant’è che Rosa Maria Segale è persino finita in una puntata della serie della CBS Death Valley Days; negli anni 1960 è stata protagonista di due storie edite sul periodico cattolico di fumetti Treasure Chest of Fun & Fact, illustrate da Loyd Ostendorf (1921-2000) ‒ artista e storico, noto per le biografie del presidente Abraham Lincoln ‒; e anche in Italia l’editore di comics Bonelli l’ha immortalata in un albo della serie Magico Vento. Cosa non riesce a produrre l’amore dei santi per Cristo…

Sarà santa la suora più veloce del West che sfidò Billy the Kid

di Marco Respinti01-07-2014 

Il Far-West lo hanno fatto i cow-boy, gli indiani, i missionari cattolici e le suore. Sì, le suore: energiche, coraggiose, talora eroiche e magari anche sante come suor Blandina Segale, per la quale – lo ha annunciato mons. Michael J. Sheehan, arcivescovo di Santa Fe, nel New Mexico – si apre ora, dopo il nulla osta della Santa Sede, la causa di beatificazione.
Suor Blandina era italiana, nata a Cicagna, in provincia di Genova, il 23 maggio 1850 con il nome di Rosa Maria. Quando aveva quattro anni, i suoi genitori (Giovanna Malatesta e Francesco Segale) si spostarono a Cincinnati, in Ohio, è così la futura suora divenne americana. Blandina fu il nome della martire del II secolo che Rosa volle assumere entrando nelle Suore della Carità l’8 dicembre 1868, a 16 anni. Così fece subito dopo pure la sorella maggiore, Maria Maddalena, che, dopo avere rifiutato diverse proposte di matrimonio, la seguì nello stesso convento come suor Giustina (spesso anglicizzato in Justina). 

La prima missione di suor Bladina fu l’insegnamento nelle cittadine di Steubenville (dove oggi sorge, fondata nel 1946, una ben nota università francescana, fiore all’occhiello della Chiesa statunitense) e di Dayton, in Ohio. Poi, il 27 novembre 1872, fu inviata in missione in Colorado, precisamente (fate caso ai nomi) nella cittadina mineraria di Trinidad, contea di Las Ánimas, valle del fiume Purgatoire (che gli spagnoli chiamavano “El Río de las Ánimas Perdidas en Purgatorio”) noto tra l’altro per le molte menzioni che gli tributa il classico del cinema western L’uomo che uccise Liberty Valance, diretto nel 1962 da John Ford, con John Wayne e James Stewart.
Ora, il Colorado di allora non era quello di oggi, raggiungibile comodamente in areo, famoso per i resort e rinomato per alcune tra le piste da sci più belle del mondo. Era invece un territorio semiselvaggio di frontiera infestato da indiani e pistolero. Suor Blandina non se ne accorse subito. Quando le dissero Trinidad, aveva pensato alla lussureggiante isola delle Piccole Antille davanti al Venezuela o all’omonima cittadina tropicale di Cuba. A bordo del treno che attraversava le polveri roventi del deserto si accorse invece che l’attendeva tutt’altro. 22enne, viaggiò da sola nella desolazione e il 9 dicembre arrivò a destinazione: poche case al limite dell’ecumene umano che per i fuorilegge del West erano come la Tortuga per i pirati caraibici e dove il linciaggio era il modo usuale per regolare i conti. Suor Blandina insegnava ai ragazzi di quel mondo surreale, e una volta riuscì anche a salvare la pelle a un tale che aveva sparato a un tizio: la folla lo aveva strappato dalla cella in cui era rinchiuso per impiccarlo in piazza, ma suor Blandina convinse uno sceriffo attonito a farsi consegnare l’assassino, questi a chiedere perdono alla sua vittima e la folla, sbigottita, a tornarsene a casa.
Ben altra minaccia incombeva però su Trinidad e il suo nome (meglio, nomignolo) era Billy the Kid, il famoso ladro e assassino, al secolo Henry McCarty (1859-1881) ‒ e anche Henry Antrim o William Harrison Bonney ‒, reso celebre da cinema, tivù e fiction. Quelle erano le sue zone di bottino. Ma nemmeno per il più smaliziato dei criminali le cose filavano lisce sempre. Durante un alterco, uno della banda aveva sparato a Billy, che ora agonizzava in una baracca poco lontana da Trinidad. Appena lo seppe da un ragazzino della scuola, suor Blandina corse dal bandito: a dargli cibo e acqua certo, ma soprattutto a rispondere alle domande su Dio e sulla religione che quel furfante introverso e caratteriale non cessava mai di farsi. Poi Billy guarì, ma solo dalle ferite: l’aveva giurata ai medici che non lo avevano voluto curare perché era un brigante e così diede loro, anzi al loro scalpo, appuntamento per un assolato sabato alle 14,00 precise.
Giunto a Trinidad, però, Billy non incontrò i dottori, ma suor Blandina. La salutò con estrema cortesia, impegnandosi per riconoscenza a esaudire qualsiasi desiderio ella avesse espresso. E, ovvio, suor Blandina disse a Billy di lasciar stare lo scalpo dei quattro medici. Billy sussultò, si adirò meravigliato che la suora conoscesse il motivo del suo arrivo in città, ma poi si quietò e risparmiò le vite che aveva deciso di prendere. La storia della suorina genovese che nel selvaggio Ovest ferma il famoso “Attila” da film fece il giro del mondo e ancora oggi passa di bocca in bocca. Tanto da averle guadagnato il soprannome di “suora con gli speroni” e “suora più veloce del West”: più lesto il suo amore in Dio di qualsiasi revolver. Dopo Trinidad suor Blandina fu assegnata - era il dicembre 1873, a Santa Fe, nel New Mexico. Per arrivare laggiù, all’epoca si percorreva un bel tratto dei 1400 chilometri di pista per mandrie e carovane che partiva da Franklin, nel Missouri.
Nel mezzo del nulla; perché se qualcosa c’era, erano gli indiani. Il Colorado faceva ancora parte dei Territori non organizzati che erano di chi di fatto li occupava; il Texas aveva appena smesso di essere una repubblica indipendente; e la pista si snodava lungo la Comanchería, la patria dei non proprio amichevoli indiani omonimi. Una esodo, che la suora ricorda nel suo libro At the End of the Santa Fe Trail, pubblicato postumo per la prima volta nel 1932. Giunta a Santa Fe, andò subito a trovare un vecchio amico. Billy the Kid, che, catturato, se ne stava in prigione. Per poco, però, perché presto fuggì. Un giorno, a bordo di una diligenza, suor Blandina e altri furono molestati dai banditi.
All’avvicinarsi dei predoni, i viaggiatori tremavano e lei recitava il rosario. Poi il capo della banda gettò uno sguardo rapace dentro la diligenza, fece un gesto di riverenza col cappello e voltò il cavallo altrove. Era sempre Billy, e la presenza di suor Blandina ne aveva ancora una volta stemperato i propositi malvagi. Per un altro ventennio abbondante la vita della suorina genovese portò Gesù nel Far West, ma anche l’istruzione, l’educazione, la cura dei malati e la difesa dei diritti umani di indiani e d’ispanici, inaugurando scuole, ospizi e ospedali. Nel 1882 ricostruì il convento distrutto di Albuquerque e, sempre lì, nel 1901 portò a termine la costruzione del St. Joseph Hospital. Quando, a Trinidad, qualcuno le disse con disprezzo che con quell’abito da consacrata non poteva certo insegnare, suor Blandina sfoderò una copia della Costituzione federale degli Stati Uniti sventolandone il Primo Emendamento che definisce al libertà religiosa la prima libertà dei cittadini e americani, e continuò per la sua strada tipo “ragazzo scansati, che debbo lavorare”.
Poi la piccola grande suora rientrò, oramai anziana, a Cincinnati, dove, con la sorella suor Giustina, creò un centro di assistenza per italiani che le occupò gli ultimi anni di vita, appena prima di sapere che l’altrettanto famoso sceriffo Pat Garrett (Patrick Floyd Garrett, 1850-1908), da sempre alle calcagna di Billy the Kid, aveva finalmente ucciso il bandito. Il pensiero di suor Blandina tornò ai loro primi colloqui, chiedendosi se quell’assassino e ladro avesse avuto il tempo di trovare quella pace divina cui tanto bislaccamente da sempre anelava. A Cincinnati suor Blandina si spense il 23 febbraio 1941. Fu una delle prime donne a prendere la patente; ovviamente guidava una Ford.
Il suo nome, l’ennesimo nome italiano di un consacrato a Dio nel selvaggio West americano, è legato a storie di eroismo e di abnegazione vere che sono più affascinanti di qualsiasi romanzo d’appendice, tant’è che Rosa Maria Segale è persino finita in una puntata della serie della CBS Death Valley Days; negli anni 1960 è stata protagonista di due storie edite sul periodico cattolico di fumetti Treasure Chest of Fun & Fact, illustrate da Loyd Ostendorf (1921-2000) ‒ artista e storico, noto per le biografie del presidente Abraham Lincoln ‒; e anche in Italia l’editore di comics Bonelli l’ha immortalata in un albo della serie Magico Vento. Cosa non riesce a produrre l’amore dei santi per Cristo…

OFFLINE
12/08/2014 16:20
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota

Il rischio di essere missionari

di Manuel Bru

Il fatto che l'unico spagnolo contagiato dall'ebola sia un missionario – non sarò il primo a sottolinearlo – non è una casualità. Quando noi europei ci rechiamo in alcuni Paesi africani, in genere non condividiamo le condizioni di vita della gente del posto. E molto raramente viaggiamo con un biglietto di sola andata. Non è però il caso dei missionari, perché la loro dedizione alle missioni è per la vita, è per sempre. Un'altra cosa è come i loro superiori li cambino di missione nel corso della loro vita nel contesto delle missioni al plurale, ovvero della missione della Chiesa nel suo insieme.

I missionari, oltre ad andare in Africa senza biglietto di ritorno, vanno nei luoghi peggiori del continente, i più poveri, i più isolati e pericolosi, quelli che hanno più bisogno di solidarietà. E i missionari, in questi luoghi, non svolgono solo missioni isolate e protette, ma vivono tra la gente, nelle loro case e condividendo le stesse condizioni di vita. Per questo vanno lì, per condividere umilmente con loro il destino della loro vita e per condividere umilmente il senso stesso della vita.

Miguel Pajares, unico spagnolo contagiato dall'ebola, missionario destinato alla Sierra Leone, non è un'eccezione. Aveva irrimediabilmente tutte le carte in regola per rimanere vittima del contagio, che non è dovuto ad alcuna imprudenza da parte sua, ma al rischio inseparabile dal suo stato di missione. I fratelli di San Giovanni di Dio già avevano previsto, per via della sua età, il suo ritorno in Spagna, anche se non avevano mai immaginato che sarebbe arrivato nelle condizioni in cui è arrivato, avvolto in una capsula plastica di isolamento e con tutti i mezzi di comunicazione in attesa.

Alla fine del XIX secolo, con il “boom” missionario vissuto dalla Chiesa (creazione di Propaganda Fide, nascita di centinaia di ordini religiosi missionari...), su ogni dieci missionari che andavano in Africa, sette morivano pochi mesi dopo contagiati da malattie sconosciute alle quali gli europei non erano immuni. Nonostante questo, erano in continuo aumento le vocazioni missionarie, e le congregazioni non cessavano di inviare missionari in Africa.

Quando sono stato alcuni anni fa in Angola con Aiuto alla Chiesa che Soffre, ho condiviso la vita con i missionari salesiani (anch'essi spagnoli) destinati lì. Vivevano con e come gli abitanti delle loro missioni, ed erano la porta della massima speranza della gioventù angolana. Alcuni di loro, dopo anni di vita in missione, e pur prendendo le massime precauzioni, hanno contratto la malaria. Quanti missionari, giovani e anziani, restano vittima di malattie contagiose incurabili e non fanno notizia neppure sul giornale del loro paesino!

Da Aleteia

OFFLINE
15/08/2014 20:03
 
Email
 
Scheda Utente
 
Modifica
 
Cancella
 
Quota


«Il contagio della speranza fu più forte della malattia». 
Le sei suore morte di Ebola che restarono accanto ai malati

Era il 1995, il virus si diffuse in Zaire e sei religiose italiane dell’ordine delle Suore delle Poverelle diedero la vita affrontando l’epidemia. Per il loro sacrificio è stata aperta una causa di beatificazione
SuoreEbola (1)Morirono tutte e sei, messe a letto dal contagio di Ebola che in tre mesi nel 1995 provocò la morte di 244 persone in Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). Avevano scelto di rimanere tra quei malati fino all’ultimo le quattro religiose bergamasche e due bresciane delle Suore delle Poverelle, alle prese anche loro con quel male che sembrava incurabile e che all’epoca era poco conosciuto, presentatosi in una misura minore a quella che stiamo conoscendo in questi mesi, ma pur sempre minaccioso.

CAUSA DI BEATIFICAZIONE. Erano infermiere, per cui sapevano cosa significava rimanere in ospedale tra i malati. E così, per quel sacrificio si è chiuso, lo scorso 25 gennaio, il processo diocesano di beatificazione che ha riguardato Clarangela Ghilardi, Floaralba Rondi, Vitarosa Zorza, Annelvira Ossoli, Dinarosa Beller e Danielangela Sorti.

L’INIZIO DEL CONTAGIO. Il racconto della loro storia porta indietro a 19 anni fa, con toni e vicende del tutto simili a quanto accade in Africa in questi giorni. Era il 15 marzo del ’95 quando un uomo tornò a casa da una giornata di lavoro febbricitante, in un villaggio non lontano dalla cittadina di Kikwit, Zaire. Morì dopo 10 giorni, dissanguato, seguito dopo poco anche dal figlio, il fratello e altri famigliari. Era l’inizio di un’epidemia che avrebbe messo con le spalle al muro tutta la città. Ma dove non venì mai meno la testimonianza di carità delle sei consorelle delle Suore delle Poverelle, «avvolte tra i poveri», come diceva Luigi Maria Palazzolo, beato e fondatore del loro ordine.
È dalle testimonianze delle suore stesse che si riesce ad avere un’immagine di come si diffuse Ebola: «Il primo malato sospetto è arrivato i primi di aprile del 1995», è il ricordo della congolese suor Nathalie, che all’epoca stava in ospedale con suor Floralba, assistente in sala operatoria. «Veniva da un altro ospedale. Aveva la pancia gonfia. Ricordo che, quando lo vidi, qualcosa dentro di me mi disse di non toccarlo, di non avvicinarmi».

ebolaIL FAX ALLA MADRE GENERALE. Un articolo apparso su Credere lo scorso aprile riporta anche i fax che le suore scrissero alla madre generale in Italia nel pieno dell’emergenza, e fanno capire la grande fede con cui rimasero tra quella gente. «Carissima madre generale, comprendiamo la tua trepidazione, ma siamo totalmente nelle mani di Dio. Nessuna evacuazione può essere fatta. È molto duro per voi e per noi accettare questa separazione dalle sorelle. Avvenimenti dolorosi ci hanno travolto ma la vita della Congregazione deve continuare: la situazione è abbastanza drammatica soprattutto all’interno. Ma è necessario conservare la calma. A Kinshasa non ci sono focolai e tutte le strade verso l’interno sono bloccate. Anche le sorelle di Kisangani sono isolate in casa senza contatti. Le sorelle dell’interno le abbiamo sentite ora. Suor Daniela e suor Dina non stanno troppo bene. Le altre sorelle della comunità  salutano e ringraziano. Ma le comunicazioni sono difficili. Con affetto vi abbracciamo. Sul posto stanno dandosi da fare per frenare l’epidemia». Suor Floralba fu la prima ad essere contagiata, proprio mentre assisteva un paziente: morì il 25 aprile. Una dopo l’altra si ammalarono anche le altre missionarie: l’ultima, suor Vitarosa, morì il 28 maggio, dopo aver assistito le consorelle in letto di morte.

«IL VERO CONTAGIO FU DARE SPERANZA». «Non c’è amore più grande che dare la vita come Gesù», disse di loro il vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi nel chiudere il processo diocesano di beatificazione. «In queste sei vite vediamo entusiasmo e passione nella consacrazione alle missioni fino alla donazione totale». Avevano sì ottime abilità infermieristiche, «ma la loro competenza più grande è stata la capacità di trasformare un ospedale in un luogo di speranza. Sta qui il loro contagio, più forte della malattia. La carità verso i poveri è stata la loro regola di vita».


Amministra Discussione: | Chiudi | Sposta | Cancella | Modifica | Notifica email Pagina precedente | 1 2 3 | Pagina successiva
Nuova Discussione
Rispondi
Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
*****************************************
Feed | Forum | Album | Utenti | Cerca | Login | Registrati | Amministra | Regolamento | Privacy
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 18:52. Versione: Stampabile | Mobile - © 2000-2024 www.freeforumzone.com