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VITE ESEMPLARI

Ultimo Aggiornamento: 22/06/2021 17:38
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23/08/2014 14:09
 
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La testimonianza di Meter contro la pedofilia

Don Fortunato Di Noto
 è un sacerdote che passa la sua vita tra riunioni, matrimoni (la prima volta che l'ho contattato ne aveva appena celebrato uno) e tutte quelle attività che ci si aspetta da un uomo che ha consacrato la vita a Dio e dunque al fratello. Senza voler dipingere un “santino”, non credo che ci perdonerebbe, bisogna riconscere però l'opera infaticabile di questo sacerdote siciliano nei confronti della tutela dell'infanzia. Una lotta titanica, davvero Davide contro Golia, per cercare di combattere quei fenomeni o di alleviare le sofferenze di quei piccoli che hanno incontrato gli orchi invece che l'affetto. Don Di Noto è il fondatore di “Meter”, una realtà che quasi vent'anni si occupa di tutela dell'infanzia e contrasto alla piaga della pedopornografia in rete. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per farci raccontare cosa fa e cosa vuol dire sostenere l'umanità bambina.

Don Fortunato, è notizia di oggi, un nuovo caso di omicidio, questa volta a San Giovanni La Punta a Catania, dove un 40enne ha tentato di uccidere entrambe le sue bambine...
[Don Fortunato sospira] La cosa che più sta impressionando è l'accanimento crudele di tanti genitori verso i bambini. I “bambinicidi” io li chiamo, ormai avvengono sempre più frequentemente e questo avviene spesso in famiglia. Così come gli abusi avvengono negli ambiti familiari, cioé tra le persone che frequentano la casa e via discorrendo. Meter si occupa anche di questi casi, li accogliamo, li proteggiamo...

Come funziona Meter, e in quanti ci lavorano? 
È una onlus di volontariato cattolico, perché nasce più di 20 anni in una intuizione di parrocchia, innamorati del web io e alcuni parrocchiani ci siamo ritrovati di fronte fin da subito al fenomeno della pedopornografia su internet. Noi forniamo un servizio di “prossimità” in quelle che chiamo le favelas tecnologiche. Abbiamo accompaganto negli ultimi 10 anni 1200 persone con il nostroCentro di Ascolto. Siamo un po' i pioneri nella lotta alla pedofilia dentro e fuori il web. Poi l'Osservatorio Mondiale contro la Pedofilia, grazie al quale abbiamo segnalato oltre 1 milione di siti pedofili e pedopornografici alle autorità competenti.

Tutti volontari? Di che risorse dispone? 
La mancanza di risorse non ci permette di praticare la carità verso tutte le vittime, per accoglierle, curarle, proteggerle legalmente. La fortuna è che la CEI ci ha sempre sostenuto per pagare affitti e i pochi dipendenti rimasti. Viviamo di volontariato e di offerte! Ma abbiamo bisogno di professionisti che è giusto pagare: psicologi, terapeuti, medici, avvocati. Comunque contiamo anche su 350 volontari su tutto il territorio nazionale.

Collaborate con la polizia ?
Si abbiamo un protocollo ufficiale con la Polizia Postale per lo scambio delle informazioni. Siamo l'unica associazione ad avere questo tipo di intese.

In Italia dal 2012 c'è una legge specifica contro la pedofilia, è una buona norma?
L'Italia e l'Europa si sono dotate di leggi ad hoc. Il problema è che la pedofilia è un fenomeno globale che travalica le nazioni. Ormai il fenomeno è di gravità inaudita: torture e abusi che cominciano anche sui neonati. La norma non basta più, serve uno scatto culturale: la pedofilia è un crimine contro l'umanità bambina. Il materiale prodotto e il coinvolgimento dei milioni di bambini, è ingente, ed è anche un enorme business, circolano molti soldi in questo mondo. C'è poi il dramma dei bambini che in guerra oltre a subire tutto quello che si può immaginare, diventano anche oggetto sessuale.

La pedofilia si sta lentamente insinuando nel dibattito pubblico, in Nord America e nel nord Europa (segnatamente l'Olanda) le associazioni che inneggiano all'annullamento dell'età legale per fare sesso trovano un sempre più ampio sostegno, anche in Italia è così?

Nel 1995 scoprii il “fronte di liberazione pedofili”, uno dei movimenti con diramazioni internazionali. Il problema è della ideologizzazione della pedofilia: è un fenomeno che affonda negli anni '70 con alcuni intellettuali che tentano di distinguere gli atti sessuali dalla violenza verso i bambini. Come se fossero separabili.
Il monitoraggio dei movimenti della cosiddetta “pedofilia buona” è costante, noi li denunciamo e li segnaliamo alle autorità. Oggi la promozione della pedofilia è reato. Purtroppo il movimento pro-pedofilia è molto vasto e presente ovunque in Brasile, Bolivia, Israele e nel mondo arabo che promuove la pedofilia come benessere per i bambini. E per questo che all'ONU c'è difficoltà a far passare l'idea della pedofilia come “crimine contro l'umanità”. Anche le attuali correnti culturali del gender che vogliono nascondersi dietro “l'orientamento sessuale” rendono più complicate le cose: le parole fanno passare strani messaggi di giustificazione, e già ora la pedofilia è derubricata a questo. Un orientamento sessuale come altri.

Come si fa a non impazzire ad osservare tutti i giorni le immagini o a leggere le chat e i forum del mondo pedofilo?
Io ringrazio il Signore che sono anche sacerdote. Io traggo la forza dal Crocifisso, solo la fede e una maturità interiore ci aiuta a conservare l'equilibrio. Noi dobbiamo guardare il dolore e non voltarci indietro, dobbiamo dare risposte a questi piccoli sofferenti. Sono più di vent'anni che giornalmente aiutiamo nel nostro piccolo le vittime perché riconosciamo in loro il Cristo crocefisso.

Vi aiutano anche psicologi? 
Abbiamo dei professionisti che ci aiutano, ma fortunatamente noi non entriamo in contatto con i pedofili, quello spetta alla Polizia Postale, fortunatamente la condivisione e il confronto aiuta a sopportare quello che a volte siamo costretti a vedere. L'indagine poi però spetta alle forze dell'ordine, italiane e internazionali con cui collaboriamo.  


Lo sforzo di Meter continua nella difesa dei veramente piccolissimi, che spesso finiscono nelle mire di persone orrende, per le quali sono solooggetti sessuali, anche in casi di infanti con meno di due anni, che finiscono nei cataloghi di immagini di questi portali, per lo più localizzati nel cosiddetto "deep web". 

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22/09/2014 08:43
 
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«Convertiti all’islam o sarai decapitata». Ma Khiria non ha abiurato: «Sarò felice di essere una martire cristiana»





 Leone Grotti





A 54 anni, la donna è stata presa a Qaraqosh (Iraq), detenuta per 10 giorni, frustata a ripetizione. «Sono nata cristiana e preferisco morire cristiana» ha detto, anche quando aveva una spada alla gola



khiria-cristiana-iraq-profughi-stato-islamico«Sono nata cristiana e se per questo dovrò morire, preferisco morire cristiana». Così Khiria Al-Kas Isaac (foto a fianco), 54 anni, cristiana irachena di Qaraqosh, fuggita dallo Stato islamico in Kurdistan, ha risposto agli islamisti che imprigionandola, frustandola e premendola una spada sulla gola le imponevano di convertirsi all’islam.



ARRIVANO I JIHADISTI. La donna e il marito Mufeed Wadee’ Tobiya si sono ritrovati la mattina del 7 agosto in una città improvvisamente conquistata dai jihadisti. Fin da subito, i miliziani l’hanno minacciata così: «Convertiti all’islam o sarai decapitata», racconta il Catholic Herald. Essendosi rifiutata, insieme ad altre 46 donna è stata presa, separata dalla sua famiglia e imprigionata per dieci giorni.


FRUSTATE E MINACCE. Durante la segregazione, le donne venivano ripetutamente frustate davanti a tutte le altre perché la sofferenza di una convincesse tutte a convertirsi. «Ho risposto loro immediatamente che preferivo morire cristiana e poi ho citato il Vangelo di san Matteo (10,33). Gesù disse: “Chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”». Durante le frustate, «piangevamo tutte ma tutte ci siamo rifiutate di convertirci».


«FELICE DI ESSERE UNA MARTIRE». Un giorno un terrorista, frustandola, disse a Khiria: «Convertiti o ti farò ancora più male». Ma lei gli ha risposto: «Sono una donna vecchia e malata. Non ho figlie o figli che possano incrementare il numero dei musulmani o seguirvi, che vantaggio ne avrete se mi convertirò?». Non ottenne risposta. Ma l’ultimo giorno «un terrorista mi ha premuto la spada sul collo davanti a tutte le altre e mi ha detto: “Convertiti o sarai decapitata”. Io gli ho risposto: “Sarò felice di essere una martire”».


DERUBATA DI TUTTO. Dopo aver dato l’ennesima testimonianza della propria fede, Khiria è stata derubata di tutto quello che aveva, compresi i soldi messi da parte per un’operazione al rene, e rilasciata. Il 4 settembre, alla donna è stato permesso di scappare e ha così potuto raggiungere gli altrisfollati cristiani ad Ankawa insieme al marito e due altre donne. Il giorno successivo, altre 14 persone sono state rilasciate. Non è chiaro cosa sia successo agli altri cristiani.



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25/09/2014 17:42
 
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Biagio, croce sulle spalle, accoglie i poveri della stazione






La singolare opera del laico consacrato di Palermo (e che rischia di chiudere a causa della burocrazia)








Una croce sulle spalle, il suo solito saio verde, il bastone da pellegrino, i sandali ai piedi e tantissime immaginette di Gesù nelle tasche. Che fosse un po' bizzarro lo sapevano tutti, dopo quasi venticinque anni di missione a Palermo, ma vederlo addirittura trascinare una croce lungo la Circonvallazione, diretto sulle colline attorno alla città, ha destabilizzato molti. Qualcuno lo ha preso per pazzo, qualcun altro lo ha tacciato di teatralizzare il bisogno, seppur reale. La maggior parte di coloro che l'hanno visto compiere l'ennesimo atto fuori moda, però, gli è andato incontro col sorriso di chi non giudica, ma chiede preghiere e benedizioni.



Biagio Conte, il laico consacrato che a Palermo ha fondato la missione Speranza e Carità con oltre mille "ultimi" della società in tre strutture attorno alla Stazione centrale, ha scelto la ribellione del silenzio. Una scelta controcorrente in un mondo dove tutti urlano e usano la violenza per affermare pseudo-diritti.

"Il mio unico conforto è la montagna, mi metterò in ascolto con il buon Dio e sento nel mio cuore che Lui, Dio, mi dirà come mi devo comportare nei prossimi giorni", ha detto due settimane fa salutando i volontari e gli altri fratelli della missione. E sì che di motivi per urlare Biagio ne ha da vendere. Il 3 settembre scorso aveva lanciato un duro atto d'accusa e contemporaneamente un appello alla città, dicendosi "stanco di lottare contro i mulini a vento, l'eccessiva burocrazia e l'indifferenza che mi opprimono e mi schiacciano quotidianamente. Siamo ormai al limite delle forze fisiche e mentali". Biagio Conte che ha dedicato la sua vita ai senzatetto e ai migranti si era detto pronto "a malincuore a restituire le tre preziose strutture" e coloro che vi sono accolti. "Purtroppo non riesco più a garantire loro la luce, il gas l'acqua, i viveri, le medicine e i tantissimi bisogni per poter portare avanti le comunità, come una mamma che non ha da dare da mangiare al proprio bimbo ed è costretta ad abbandonarlo". Parole di disfatta e di sconforto: "Tutti siete a conoscenza di quanto la missione ha donato per aiutare questa città martoriata, ma mi rendo conto adesso che non si può fare niente di buono in questa terra di Sicilia, Italia, Europa".

Frasi durissime, dopo le quali le istituzioni (Comune, Regione, Demanio) hanno deciso di sedersi attorno a un tavolo per trovare le soluzioni adatte a permettere alla missione di continuare a svolgere la sua opera sociale dal valore insostituibile. C'è una cartella esattoriale da 84 mila euro di tassa sui rifiuti non pagata. Ci sono 300 mila euro di debiti per utenze di acqua, luce e gas, mentre le donazioni diminuiscono in tempo di crisi. Ci sono inerzie burocratiche che rendono impossibile perfino installare un impianto fotovoltaico già esistente, che renderebbe quasi autonoma la produzione di energia elettrica in missione.

Così Biagio ha detto basta e si è ritirato in silenzio. Le migliaia di persone che lo stimano per quello che fa hanno fatto sentire la loro vicinanza, offrendo un contributo, scrivendo messaggi su Facebook, organizzando raccolte di beneficenza. Adesso finalmente Biagio è tornato a casa, "fisicamente stremato", ma carico spiritualmente: "Non vado via. Il mio cuore è qua. Ma anche la croce di legno è qua, pronta a partire di nuovo".

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05/10/2014 18:32
 
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Migliaia di cristiani in marcia: sono tutti "Nazareni"
di Anna Bono
Bangalore, cristiani in preghiera

Domenica 15 settembre in India, a Bangalore, capitale dello stato del Karnataka, migliaia di cristiani sono sfilati per le vie cittadine per esprimere solidarietà ai fratelli perseguitati in Iraq, Siria e Africa. A conclusione della marcia, una delegazione ha presentato al governatore del Karnataka un memorandum e la richiesta che l’India pronunci “una forte denuncia dell’olocausto dei cristiani iracheni”. Inoltre i cristiani di Bangalore hanno rivolto un appello a tutte le comunità religiose del paese – indù, sikh, giainisti, buddisti, parsi… – affinché a loro volta condannino le persecuzioni. “Dobbiamo far sentire la nostra voce – ha spiegato l’arcivescovo della città, monsignor Bernard Moras – restare in silenzio davanti a questo olocausto, alle brutali torture e agli omicidi, significa essere complici di tali violenze contro l’umanità”.

I cristiani di Bangalore hanno offerto non solo un ammirevole esempio di solidarietà e fratellanza, ma anche una grande lezione di unità e di coraggio.

Alla “Domenica di solidarietà” hanno infatti aderito cattolici, anglicani, metodisti, battisti, pentecostali, siriaco-ortodossi, evangelici e altre denominazioni ancora: tutti uniti nell’intento comune.

Quanto al coraggio dimostrato, come è noto in India la vita dei cristiani è tutt’altro che facile e sicura a causa degli ultranazionalisti indù. Proprio il Karnataka è considerato uno dei sei stati indiani più pericolosi per le minoranze e in cui le persecuzioni anticristiane sono più frequenti e feroci. Nel 2012 quasi un terzo degli atti di violenza registrati in India ai danni di cristiani si è verificato in questo stato: 41 su 135. Nel 2013 il Gcic, Global Council of Indian Christians, ha portato all’attenzione delle autorità centrali la violenza “brutale e senza tregua” contro i cristiani, le loro chiese e le loro proprietà; e Delhi ha ammesso la gravità della situazione nel Karnataka senza peraltro porvi rimedio.

La scorsa primavera la vittoria elettorale del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista indù, ora al governo, ha peggiorato ulteriormente la posizione delle comunità cristiane e delle altre minoranze. Nel Karnataka le tensioni più recenti si sono avute all’inizio di settembre in un villaggio, Indabettu, allorché, istigati dai fondamentalisti indù, i genitori di una scuola cattolica siro-malabarese, la Mariambika English School frequentata da molti allievi non cristiani, hanno accusato l’istituto di aver cristianizzato le nuove uniformi degli studenti apponendovi il proprio logo che include una piccola croce e una raffigurazione di Maria (poiché la scuola prende il nome dalla Vergine, tradotto nel dialetto locale). La tensione è cresciuta il 3 settembre quando le famiglie in rivolta hanno organizzato una protesta davanti alla scuola inducendo la polizia a intervenire per evitare il peggio. Tuttavia i manifestanti hanno accettato di tornare a casa solo dopo che le autorità scolastiche avevano annunciato il ritiro temporaneo delle nuove uniformi.

Il presidente del Gcic, Sajan George, intervistato da AsiaNews, ha incolpato dell’accaduto i gruppi ultranazionalisti indù che vogliono creare diffidenza e disarmonia tra le diverse comunità: “le scuole cristiane – ha spiegato – sono tra le più stimate per la qualità dell’educazione che impartiscono. A dimostrazione di questo c’è il fatto che gli studenti cristiani sono una minoranza nei nostri istituti che accolgono un numero considerevole di alunni indù e musulmani”. La reazione al nuovo logo inoltre è stata del tutto inaspettata e tanto più sconvolgente perché “Maria è venerata da tutti gli indiani, a prescindere dalla loro religione – ha aggiunto il presidente del Gcic – tanti non cristiani compiono pellegrinaggi nei santuari mariani”.

Ancora più grave è l’episodio verificatosi pochi giorni prima a Kulesra, un villaggio dell’Uttar Pradesh. Il 31 agosto la polizia, su pressanti richieste degli abitanti del villaggio, ha arrestato dieci pastori protestanti mentre partecipavano a un digiuno rituale: l’accusa, risultata infondata, era di aver convertito a forza degli indù. La stazione di polizia dove i religiosi sono stati trasferiti è stata circondata da una folla minacciosa, aizzata da militanti del gruppo induista paramilitare Rashtriya Swayamsevak Sangh, responsabili della falsa accusa. Il reverendo Wilson Jiseph, uno dei pastori fermati, in Uttar Pradesh dal 1992, ha detto di non aver mai assistito in tanti anni a una simile tensione: “alcuni membri della nostra chiesa hanno tentato di raggiungere la stazione di polizia, ma sono stati picchiati”.

Sempre nell’Uttar Pradesh, inoltre, ad agosto gli induisti hanno riconvertito all’induismo i fedeli di due comunità cristiane, battezzati nel 1995. Ad Asroi non si sono accontentati dell’abiura, ma hanno trasformato la chiesa del villaggio in un tempio di Shiva dopo averla purificata con un rito e aver divelto la croce situata sul tetto dell’edificio.

Secondo Sajan K George, intervistato da AsiaNews, quella in corso in Uttar Pradesh è una "violenza continua. Cresce l'odio contro la piccola comunità cristiana, l'intolleranza e la violenza sono ormai a livelli d'allarme. Solo per parlare di luglio, abbiamo registrato due violenti attacchi contro i cristiani portati avanti dai leader locali del fondamentalismo indù. E la polizia, invece di proteggere i cristiani e i loro diritti, li ritiene sempre colpevoli".


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13/10/2014 15:50
 
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Cattoliche, irachene, 80 anni. Ma davanti ai jihadisti non hanno tremato: «Per la nostra fede siamo pronte a morire qui e ora»





 Leone Grotti





La testimonianza di Victoria e Gazella, due anziane finite nelle mani degli uomini del Califfato che hanno intimato loro di convertirsi.





victoria-iraq-cristiani-kurdistan-stato-islamicoQuando lo Stato islamico ha invaso ad agosto il villaggio di Caramles, nella piana di Ninive, tutti i cristiani sono scappati di notte verso il Kurdistan. Invece Victoria (a fianco, © Aid to the Church in Need), 80 anni, non si è accorta di niente. Quando la mattina seguente si è alzata, come ogni giorno si è recata in chiesa e per la prima volta l’ha trovata chiusa. Vedendo le strade deserte, la vedova cattolica si è allora resa conto che i jihadisti erano arrivati.


«SOSTENUTE DALLA FEDE». La storia di Victoria è stata raccolta dal Catholic Herald, che ha incontrato la donna sana e salva ad Ankawa (Kurdistan), dove è rifugiata oggi. La vedova è rimasta chiusa in casa per quattro giorni insieme alla sua vicina, Gazella (foto a destra, © Aid to the Church in Need), «sostenute dalla fede». Una volta finite le scorte di cibo e acqua, sono state costrette ad uscire e si sono imbattute nei soldati del Califfato. I jihadisti hanno subito chiesto loro di convertirsi e davanti a un primo rifiuto le hanno aiutate, distribuendo cibo e acqua.


gazella-iraq-cristiani-kurdistan-stato-islamico«PRONTE A MORIRE». Dopo pochi giorni, i terroristi sono tornati a prenderle e le hanno portate al santuario di santa Barbara, dove si trovavano già un’altra dozzina di persone, gli ultimi cristiani rimasti in città. «Dovete convertirvi – i terroristi hanno detto loro – la nostra fede può promettervi il Paradiso». Victoria e Gazella hanno risposto senza paura: «Noi sappiamo che se mostriamo amore e gentilezza, perdono e misericordia possiamo portare il regno di Dio sulla terra. Il Paradiso riguarda l’amore. Se voi volete ucciderci per la nostra fede, allora siamo pronte a morire qui e ora».


LA LIBERAZIONE. Davanti a questa risposta, lo Stato islamico ha lasciato andare tutti i cristiani, molti dei quali erano malati e infermi. Ora Victoria e Gazella vivono fianco a fianco su due materassi adagiati per terra in una stanza che la Chiesa ha fornito loro in Kurdistan.



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17/10/2014 10:18
 
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Iraq. Jihadisti torturano cristiano per farlo convertire.
Lui non abiura e muore. «È un martire»

Era rimasti nel suo villaggio per problemi di cuore. Scoperto, Salem ha rifiutato di convertirsi all’islam. In seguito alle torture, l’uomo è morto ieri. I terroristi hanno lasciato il suo corpo in strada. Solo oggi è stato recuperato e sepolto.

egitto-cristiani-islam-delga-1Il sito Asianews riferisce che secondo alcun fonti del Patriarcato caldeo ieri a Bartalah, paese nella piana di Ninive, alcuni terroristi islamici hanno torturato e ucciso un uomo cristiano. Il “martire”, così lo definiscono al patriarcato, si chiamava Salem Matti Kourki, aveva 43 anni e aveva deciso di non abbandonare la sua cittadina anche dopo l’arrivo dei jihadisti. Questi gli hanno imposto la conversione, che Salem ha rifiutato. In seguito alle torture, l’uomo è morto ieri. I terroristi hanno lasciato il suo corpo in strada. Solo oggi è stato recuperato e sepolto.
Un familiare ha riferito che Salem non era fuggito a causa di problemi cardiaci, che gli impedivano gli spostamenti. Era rimasto nascosto per tre settimane, cibandosi di quel che era riuscito a raccogliere e mettere in casa. Il primo settembre, poiché aveva terminato le scorte, aveva tentato una sortita allo scoperto, venendo braccato. Asianews riferisce che «per onorare al meglio la memoria del “martire” Salem, il prossimo 5 settembre nella chiesa siro-ortodossa di Oum El Nour ad Ankawa, sobborgo cristiano di Erbil, nel Kurdistan irakeno, si terrà una cerimonia funebre».

WARDUNI: «NESSUNO GRIDA PER NOI». L’Osservatore romano racconta che il vescovo di curia di Babilonia dei Caldei, Shlemon Warduni, intervenuto ad un convegni tenutosi nella chiesa di Sant’Antonio di Padova a Castellammare di Stabia (Napoli), ha esortato le nazioni occidentali «a non abbandonare l’Iraq» e ha pregato il Padre nostro in aramaico per le popolazioni martiri dell’Is in Iraq. Il presule — riporta l’Ansa — ha chiesto all’Onu, all’Europa, agli Stati Uniti di «svegliarsi», di «non agire solo per interessi», di «non abbandonare le popolazioni». Papa Francesco, ha proseguito Warduni, «ha mandato il suo rappresentante, il cardinale Filoni, che ho accompagnato in questi territori dove abbiamo pianto insieme. Abbiate misericordia, non abbiamo nessuno che grida per noi, è per questo che sono qui. Non chiediamo bombe — ha precisato il presule — solo che le nazioni non forniscano armi a questi criminali crudeli. Vorremmo essere protetti e che i Paesi che sostengono questo Is vengano messi fuori dalla comunità internazionale».
Il vescovo ha raccontato che i terroristi dell’Is sono venuti «come agnelli mansueti, parlando bene dei cristiani e poi si sono trasformati in lupi rapaci, imponendo loro di lasciare tutto al governo e di andare via. Presto sarà inverno e questi martiri sono senza casa, dormono all’aperto, in povertà assoluta. Tutto questo dovrebbe smuovere le coscienze umane, non solo cristiane»


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28/10/2014 10:52
 
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Il vero Francesco d’Assisi 

Dario Fo è uno di coloro che hanno più diffuso il tradimento di San Francesco in Italia, come ha fatto ancora recentemente. Tuttavia anche Papa Francesco, che in suo onore ha voluto chiamarsi così, lo ha ripetuto tante volte: «La pace francescana», ha affermato ad esempio nel suo viaggio ad Assisi del 2013, «non è un sentimento sdolcinato. Per favore:questo san Francesco non esiste! E neppure è una specie di armonia panteistica con le energie del cosmo… Anche questo non è francescano! Anche questo non è francescano, ma è un’idea che alcuni hanno costruito! La pace di san Francesco è quella di Cristo, e la trova chi “prende su di sé” il suo “giogo” [...] Per favore: questo san Francesco non esiste!».

Come ha ben spiegato il sociologo Giuliano Guzzo, non esiste alcun Francesco che ideologizzava la povertà, il suo obiettivo era la vanità, il rimanere legati a quel che si possiede ma non ha mai demonizzato i materiali preziosi. Francesco era sì povero (“il poverello”), ma pretendeva che le chiese fossero ricche: eppure, è stato fatto notare, oggi molti utilizzano la sontuosità degli edifici di culto, dei paramenti sacri, dei calici d’oro come strumento di attacco alla Chiesa cattolica sostenendo, invece, che sia necessario “tornare ad una povertà francescana”. Ma Francesco non avrebbe mai tollerato che l’Eucarestia fosse posata in un calice non di oro e che le chiese fossero spoglie, egli infattiraccomandava esplicitamente: «Vi prego […] i calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere preziosi. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo prezioso, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione» (Prima lettera ai Custodi).

Priva di fondamento è anche l’idea che fosse un ingenuo buonista, lo si evince ad esempio dagli scritti di Tommaso da Celano (1200-1270). Francesco, informato della presenza di detrattori del suo Ordine, si rivolse al suo vicario, frate Pietro di Cattaneo, intimandogli quanto segue: «Coraggio, muoviti, esamina diligentemente e, se troverai innocente un frate che sia stato accusato, punisci l’accusatore con un severo ed esemplare castigo! Consegnalo nelle mani del pugile di Firenze, se tu personalmente non sei in grado di punirlo [chiamava col nome di pugilatore frate Giovanni di Firenze, uomo di imponente statura e dl grandi forze, nda]». A mali estremi estremi rimedi, si potrebbe dire. In ogni caso un atteggiamento ben lontano dall’immagine mielosa che gli è stata cucita addosso.

Non esiste nemmeno un Francesco d’Assisi sincretista, indifferente all’evangelizzazione cristiana. Sostenitore delle Crociate, è famoso il suo confronto durante una crociata nel 1219 con il Sultano Malik al-Kami durante il quale, semplicemente, tentò di convertirlo, come è evidente dal tenore del suo discorso: «I cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi». Francesco, se si leggono i suoi scritti durante le Crociate, denuncia l’Islam come una religione falsa che porta alla dannazione.

Sfatiamo, infine, la cosiddetta “Preghiera semplice di San Francesco, una tra le più famose del mondo per la sua sdolcinatezza sessantottina (della serie “mettete i fiori nei vostri cannoni”): è quella che inizia con “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…”. San Francesco non l’ha mai scritta, si tratta di un testo di inizio Novecento e non è stata neppure scritta da un frate francescano. In effetti, come hanno appurato gli studiosi, sarebbe difficile attribuire a Francesco una preghiera in cui Gesù Cristo non è neppure nominato o che non faccia riferimenti alla Bibbia o nella liturgia cattolica. L’equivoco è nato perché il testo, la cui data di composizione e l’autore sono incerti, fu fatto stampare sul retro di una immaginetta di San Francesco nel 1918 da padre Etienne Benoit perché gli sembrava che la “Preghiera semplice” richiamasse tutti i valori di cui Francesco era stato portatore in vita.


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11/11/2014 14:03
 
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Maria De Unterrichter Jervolino politica cattolica Mezzogiorno donne MontessoriMaria De Unterrichter Jervolino





 






Un libro dedicato ad una delle più coraggiose protagoniste del “cattolicesimo sociale”, la cui vita era divisa tra impegno sociale, politica e passione per il Meridione. Parliamo di Maria De Unterrichter Jervolino a cui il professore

 

 

Roberto Violi, storico dell'università di Cassino, ha dedicato il volume  “Maria De Unterrichter Jervolino (1902-1975). Donne, educazione e democrazia nell’Italia del Novecento”.

UNA DONNA IN USCITA
Agensir (8 novembre) ricorda la figura della politica cattolica, parlamentare Dc e madre di Rosa Russo Jervolino, già sindaco di Napoli. Il cognome, De Unterrichter, dice abbastanza dell’origine della protagonista, nativa di Ossana (Trento). E il secondo cognome, acquisito da sposata (Jervolino) dice invece dello sviluppo di una figura di moglie, madre, donna di cultura e di insegnamento, animatrice associativa (Fuci), parlamentare e pedagogista, che nel sodalizio familiare col marito napoletano Angelo Raffaele Jervolino, anch’egli parlamentare Dc, ha scelto – come direbbe oggi Papa Francesco – di essere “una donna in uscita”, cioè profondamente dedita agli altri.



SOSTENITRICE DEL METODO MONTESSORI
La De Unterrichter è transitata, sempre con ruoli impegnativi, dall’associazionismo cattolico trentino a quello partenopeo. Ha coltivato interessi vitali, scrive l'agenzia dei Vescovi italiani, per la cultura accademica, incontrando e cimentandosi con le più belle menti dell’epoca. È stata docente ed esperta del sistema pedagogico elaborato da Maria Montessori, divenendo sostenitrice di una sua diffusione su larga scala, fino a essere nominata presidente dell’ “Opera Nazionale Montessori”. Si è occupata ampiamente di spiritualità, legando i suoi interessi in particolare ad alcune grandi mistiche, sante e martiri. È stata in contatto con figure di primissimo piano come don Sturzo e monsignor Giovan Battista Montini, che tanto hanno significato nella formazione dei futuri dirigenti del movimento cattolico.

MERIDIONALISTA "AUSTRO-UNGARICA"
L’aspetto forse più interessante e sorprendente della Unterrichter risiede nel suo “meridionalismo” ante-litteram. Bisogna riconoscere che il marito “meridionale” di una “austro-ungarica” come lei potrebbe essere letto come la causa prossima di tale affetto verso le genti del Sud Italia, dove si era trapiantata. La parte più nobile e alta mostra una donna che partendo dalla sua militanza cattolica, si accostava alle popolazioni meridionali delle zone più interne dove andava a tenere incontri e conferenze per spronare le donne a farsi artefici del loro destino

SPINGERE IL MEZZOGIORNO
Fino alla militanza politica diretta e all’azione culturale per diffondere la scolarità, che identificano una figura politica consapevole di cosa significasse per l’Italia di allora spingere per uno sviluppo del Mezzogiorno. Si cimentò infatti direttamente nel comitato promosso da Luigi Sturzo nella Dc e poi a livello parlamentare per investimenti statali, soprattutto per la scolarità nel Sud.

ORIENTATA AL BENE COMUNE
La De Unterrichter, conclude Agensir, riporta a quelle generazioni di cattolici che dettero vita a scuole, centri di formazione professionale, università, assistenza, cooperazione, banche, associazionismo, mondo di cura, accoglienza. L’esempio di quanti, come lei, vissero una coerenza di impegno su diversi fronti, induce alla speranza che non sia del tutto tramontata l’immagine del politico “cattolico” seriamente formato e orientato al bene comune.
sources: ALETEIA

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23/12/2014 15:11
 
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Educazione_Rossana Stanchi by Malapelle


Anche la solidarietà porta in alto il nome dell’Italia nel mondo. Il 2 dicembre a Città del Messico, Rossana Stanchi, responsabile AVSI in Messico, riceve il “Premio Solidarietà” del Premio Italia Mexico, assegnato dalla Camera di commercio e dall’Ambasciata Italiana in Messico per il suo lavoro al fianco dei più vulnerabili.


Noi abbiamo creduto in te, e attraverso te abbiamo conosciuto e imparato a stimare il lavoro di AVSI in Messico”, con queste parole il presidente della Camera di Commercio italiana in Messico ha comunicato alla responsabile di AVSI in Messico, Rossana Stanchi, l’assegnazione del Premio Solidarietà per l’educazione e il sostegno familiare nel paese centramericano.


AVSI è presente in Messico dal 1987 nelle città di Oaxaca e Campeche, dove coopera con due organizzazioni locali, rispettivamente Crecemos DIJO e Centro de Solidariedad Juvenil (CSJ), con il progetto di sostegno a distanza a favore di oltre 700 bambini e ragazzi di aree periurbane povere, nei settori dell’educazione informale, dell’educazione nutrizionale e del sostegno famigliare.


I progetti di AVSI in Messico


Siamo orgogliosi del lavoro dei nostri italiani impegnati nei progetti di AVSI nel mondo – ha commentato Giampaolo Silvestri, Segretario Generale di Fondazione AVSI – I riconoscimenti ufficiali, come quello assegnato al lavoro di Rossana Stanchi in Messico, ci onorano. Va anche ricordato, però, che l’impegno di Rossana al fianco dei più vulnerabili dura da anni, così come quello di tutto il nostro personale in giro per il mondo, sono 93 gli espatriati, che lavora ogni giorno, spesso lontano dai riflettori, ma senza mai risparmiarsi”.


Giunto alla sua VI edizione, il Premio Italia-Mexico, durante il quale Rossana Stanchi sarà premiata, intende assicurare la massima visibilita’ della presenza italiana in Messico, posizionandola a lato della classe dirigente messicana, incrementandone il peso specifico e costruendo un’immagine vincente e di sostegno per future azioni imprenditoriali nel Paese. All’evento, sono coinvolte circa 400 personalità del mondo imprenditoriale e politico.


Il progetto prevede l’organizzazione di una serata di incontri istituzionali tra il top management delle aziende italiane, gli imprenditori italiani e la classe dirigente politica e imprenditoriale messicana. Il momento piu’ alto della serata culminera’ con la consegna di premi e onoreficenze a: individui ed istituzioni rappresentativi della traiettoria italiana in Messico che, con il loro operato, hanno favorito la creazione di solide relazioni commerciali tra i due Paesi; aziende italiane che si sono distinte in Messico (verra’ consegnato un premio per ciscuna categoria: piccola, media e grande impresa); aziende ed operatori messicani che sono stati piu’ vicini all’Italia e che hanno istaurato rapporti con il nostro Paese.



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15/07/2015 22:07
 
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Sophrony Kirilov, il sacerdote russo che celebra Messa in Antartide a 25 gradi sotto zero





 


SOPHRONY KIRILOV, IL SACERDOTE RUSSO
CHE CELEBRA MESSA IN ANTARTIDE A 25 GRADI SOTTO ZERO

“Anche i lavoratori russi del Polo Sud, così come qualsiasi altro credente, vogliono appoggio spirituale, una Chiesa dedicata a Dio”. Parola di Sophrony Kirilov, sacerdote “inviato speciale” nell’isola King George (o 25 de Mayo, se si preferisce il nome argentino), nell’arcipelago delle Shetland del sud. La chiesa più australe del mondo.

Il sacerdote russo è una delle 100 persone a rimanere a queste latitudini anche durante l’inverno, quando le temperature arrivano a 25 gradi sotto zero; durante l’estate invece la zona si “popola” fino ad ospitare 500 persone.

Kirilov, di 38 anni, è fa parte di un gruppo di preti russi che si danno il cambio per abitare in Antartide durante un anno. Questo – secondo quanto raccontato ad AP – è la sua quarta volta nel continente bianco. Un luogo per lui speciale: “Nel mondo non c’è tranquillità e silenzio. Ma qui è silenzioso abbastanza”, ha spiegato.

La sua chiesa, dedicata alla Santa Trinità, è un piccolo edificio di legno fatto arrivare direttamente dalla Siberia, consacrato nel 2004 e posto su una collina rocciosa nei pressi della base scientifica russa di Bellinghausen, in cui abitano tra le 15 e 30 persone. D’estate i turisti ed il personale delle stazioni internazionali della zona sfidano i venti per raggiungere la chiesa, ogni volta – secondo quanto racconta il prete -colpiti dalla bellezza del muro in cui sono situate le tipiche icone dorate della tradizione russa, raffiguranti santi e angeli. Mentre di notte la chiesa viene illuminata dal basso per essere un punto di riferimento luminoso – come una specie di faro – per le navi che solcano i mari australi.

Kirilov ogni domenica officia messa, leggendo le scritture in russo. “Grazie a Dio, questo è un regalo prezioso per noi”, spiega, aggiungendo tuttavia che gli piacerebbe avere più fedeli alle messe domenicali, per ora frequentate da un pugno di russi. Il resto della settimana, invece, il sacerdote lavora anche come muratore e falegname. Sono suoi per esempio i fiori sulla porta della chiesa, dipinti per avere un ricordo della natura durante il buio inverno antartico. Nel tempo libero invece si trasforma in un vero e proprio esploratore, battendo la zona in sci e motoslitta. Certo, racconta, la vita in Antartide non è facile e la lontananza dalla famiglia (Mosca è distante 16 mila chilometri) si fa sentire. Eppure Kirilov sente che il giorno in cui partirà per dare il cambio a un nuovo sacerdote inizierà a sentire nostalgia per questa terra inospitale.  “Qui puoi pregare Dio in pace”, ha detto. “Sì, puoi farlo in qualunque parte della Russia, ma qui è qualcosa di speciale”.


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28/07/2015 17:22
 
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ALBERTO MAGNO

La sapienza universale

di Maurizio Schoepflin


Teologo, mistico e filosofo tra i più grandi. Maestro di san Tommaso, scrisse anche opere di fìsica e matematica, di botanica e zoologia, di chimica e mineralogia, di geologia e meteorologia, di astronomia e medicina, di agricoltura e arte nautica. Alberto Magno, un genio del Medioevo cristiano.

Ricordato soprattutto per essere stato maestro di Tommaso d'Aquino, sant'Alberto Magno risulta una figura non adeguatamente conosciuta ed apprezzata: eppure i suoi meriti di uomo di cultura e di fede sono numerosi e assai rilevanti.
Alberto nacque nella cittadina sveva di Launingen sul Danubio tra la fine del secolo XII e gli inizi del XIII. Entrato assai giovane nell'Ordine domenicano, manifestò grande propensione per gli studi, che seguì in varie sedi in Italia, per concluderli a Colonia, diventando teologo. Dopo un soggiorno a Parigi, ove tenne cattedra per tre anni, rientrò a Colonia, con il compito di dirigere lo "Studium generale", da poco istituito dai frati predicatori: qui egli ebbe come discepolo 1'Aquinate, del quale promosse e incoraggiò la brillante carriera.
A Colonia Alberto si impose non soltanto quale ottimo docente, ma anche come personalità di grande prestigio pubblico: nel 1252 fu artefice della pacificazione fra la municipalità e l'arcivescovo e due anni più tardi venne nominato provinciale dell'importantissima provincia teutonica. Sollevato da questo gravoso compito - peraltro da lui assolto con abnegazione e notevole sensibilità pastorale - Alberto potè tornare a Colonia e riprendere gli studi; ma non per molto: nel 1260 il papa Alessandro IV lo volle vescovo di Ratisbona.
Ottenuto di poter lasciare questa nuova carica, riprese con grande lena il lavoro intellettuale, non potendo tuttavia sottrarsi a ulteriori diversi incarichi che la vastissima stima di cui godeva gli procurò. Nel 1277, nonostante fosse già avanti negli anni, volle recarsi a Parigi a difendere la dottrina dell'amato discepolo Tommaso, incompresa in alcuni punti e ingiustamente attaccata. Stanco e ormai debilitato, morì nella sua cella del convento di Santa Croce di Colonia il 15 novembre 1280. Venerato da antico tempo come beato (il piano terreno della sua casa natale venne trasformato in un oratorio fin dal XIV secolo), fu dichiarato santo e Dottore della Chiesa da Pio XI nel 1931. Nel 1941 Pio XII lo elesse a protettore degli studi di scienza naturale.
Quest'ultimo riconoscimento, tributategli da papa Pacelli, ci permette di cogliere uno degli aspetti più originali del multiforme genio albertiano. Più volte è stato giustamente affermato che Alberto abbracciò tutto l'universo, dalle pietre alle stelle: scrisse opere di fìsica e matematica, di botanica e zoologia, di chimica e mineralogia, di geologia e meteorologia, di astronomia e medicina, di agricoltura e arte nautica, manifestando una mentalità davvero innovativa e assai in anticipo sui tempi, soprattutto sul piano metodologico, ove seppe comprendere l'importanza della ripetizione delle osservazioni e degli esperimenti.
Ma se Alberto si mostrò un grande studioso di scienze naturali, egli fu innanzitutto un insigne maestro di teologia, alla quale si avvicinò ricco di un'ottima preparazione filosofica, cosa che gli permise di introdurre definitivamente e compiutamente il metodo razionale nello studio della verità, aprendo il cammino che porterà alla straordinaria sintesi di san Tommaso e comprendendo appieno che filosofia e teologia non dovevano essere confuse, ma rimanere autonome. Alberto volle confrontarsi con la dottrina di Aristotele, convinto della necessità di affrontare seriamente la questione del rapporto fra sapienza classica e pensiero cristiano; e di Aristotele egli fu un convinto sostenitore, capace tuttavia di apportare correzioni e integrazioni laddove le dottrine dello Stagirita gli apparvero lacunose.
Oltrechè scienziato e teologo, il Santo Dottore fu un valido studioso di logica e di antropologia: egli indagò a fondo la questione dell'anima umana e si impegnò a costruire una scienza morale secondo un metodo razionale.
Ma qualsiasi ritratto della figura di questo protagonista della più genuina cultura cattolica risulterebbe parziale, se non ne ricordassimo la straordinaria spiritualità e l'alta levatura mistica. Attento e acuto conoscitore e commentatore della Sacra Scrittura, Alberto Magno è giustamente considerato il padre della mistica medievale tedesca, che avrà eccezionali sviluppi nell'opera di uomini quali i domenicani Johannes Eckhart ed Enrico Susone. Commentando gli scritti dello pseudoDionigi, Alberto propone una mistica di notevole valore e ispirata alle direttive più sicure.
Perciò, al termine di queste brevi note a lui dedicate, piace riprodurre la sua seguente preghiera: "Signore Gesù Cristo, che sei venuto in questo mondo per salvare i peccatori, congiungi la mia anima a te, unico vero sposo e bene insostituibile: fa che essa per tuo amore trascuri i sette mariti, cioè le sette arti liberali, e non si dedichi più alle scienze che si acquistano con lo studio. Viva invece con fede, speranza e carità secondo l'insegnamento della Sacra Scrittura e nell'annuncio della tua Parola, svolga il suo ministero durante questo pellegrinaggio terreno e possa aderire a Te con piena conoscenza e amore. E quando finalmente la carità sarà perfetta per la conformità al fine, l'elevatezza delle virtù e l'osservanza dei tuoi precetti, essa invaderà tutta l'anima e la trasformerà in modo che non potrà amare niente altro all'infuori di Te, e giungerà a vedere le cose non più nella loro immagine, ma in Te, che sei somma verità. Allora le forze dell'intelletto le permetteranno di riconoscere perfettamente Te, Dio e Uomo, invisibile ma visibile nel prossimo".
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01/01/2016 19:57
 
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Padre Byles, il sacerdote cattolico
che salvò centinaia di persone sul Titanic

TitanicLa tragedia del Titanic è nota a tutti. L’affondamento del transatlantico britannico il 15 aprile 1912, dove morirono circa 2000 persone, è entrato nella storia come una delle più grandi tragedie in mare.

Un dramma che spinse anche a riflessioni filosofiche: in pieno positivismo, il Titanic rappresentava il frutto più maturo della scienza e della tecnologia di allora, ostentato come una nave inaffondabile, il pupillo della nuova era. Colato a picco in sole 2 ore, oltre che un’immane tragedia umana diventò anche una ferita mortale alla«presuntuosa convinzione positivistica della totale affidabilità della tecnica e della indiscussa capacità della scienza di fare della specie umana l’assoluta dominatrice della natura, facendo aprire gli occhi agli intellettuali più avveduti sui limiti del sapere tecnologico-scientifico» (R. Timossi, “L’illusione dell’ateismo”, San Paolo 2009, p. 70,71).

Tra i passeggeri, quel 15 aprile, c’era anche un santo, il reverendo cattolico Thomas Byles, 42 anni, in viaggio verso New York per presiedere al matrimonio di suo fratello. Agnes McCoy, una superstite del Titanic, ha raccontato che padre Byles stava leggendo il suo breviario quando la nave urtò contro l’iceberg. Tanti altri passeggeri superstiti hanno testimoniato che il reverendo aiutò centinaia di persone a trovare delle scialuppe di salvataggio e per ben due volte rifiutò il posto sulla scialuppa per cederla agli altri passeggeri.

Desiderava consolare chi era rimasto intrappolato a bordo della nave, assolvendoli dai peccati, confortandoli con la preghiera e impartendo loro la benedizione. Scelse di restare sulla nave, morendo assieme a loro. Le testimonianze sono state raccolte nel sito web: www.fatherbyles.com. Papa Pio X lo definì «martire per la Chiesa».

In questi giorni padre Graham Smith, con il sostegno del vescovo Alan Williams della diocesi di Brentwood, ha avviato l’iter per la causa di beatificazione di padre Byles, che egli considera «un uomo straordinario che ha dato la sua vita per gli altri».

Una storia di santità che ricorda quella del francescano polacco padre Massimiliano Kolbe, che si offrì di prendere il posto di un padre di famiglia ebreo, destinato al bunker della fame, nel campo di concentramento di Auschwitz. Venne ucciso dopo due settimane di totale digiuno, durante le quali confortò e pregò assieme ai condannati superstiti. Secondo le testimonianze, mentre l’ufficiale medico di Auschwitz si apprestava ad iniettarli l’acido acido fenico nelle vene, padre Kolbe lo guardò e gli disse: «L’odio non serve a niente, solo l’amore crea!». Le sue ultime parole, porgendo il braccio, furono: «Ave Maria». Era la vigilia della Festa dell’Assunzione di Maria.


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30/06/2016 08:42
 
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Wresinski, il prete che scoprì il «quarto mondo»
 
Se l’Economist ha accusato papa Francesco di essere nientemeno che leninista, viste le sue posizioni contro il neoliberismo, chissà che definizione spregiativa avrebbe usato per uno dei preti di Francia più impegnati nel cambiare e sovvertire le condizioni di vita dei poveri...
Joseph Wresinski è un nome che in Italia non dice moltissimo, mentre in Francia – e in decine di Paesi nel mondo dove è presente la sua creatura, il Movimento Atd Quarto Mondo – la sua fama è ancora viva oggi a distanza di 28 anni dalla morte (14 febbraio 1988). Soprattutto perché è a questo prete (non «di strada», ma «di miseria», si dovrebbe dire) che si deve l’intitolazione della Giornata mondiale di lotta alla miseria (17 ottobre), da lui inaugurata l’anno prima di morire al Trocadero, di fronte alla Torre Eiffel.


Proprio in questi giorni ricorre il 60° anniversario del primo impegno di padre Wresinski contro la povertà: era il 14 luglio 1956 (non una data a caso scelse il sacerdote, nato nel 1917: la festa della République) quando entrò per la prima volta nella bidonville di Noisy-le-Grand in Piccardia, a nord-est di Parigi. Era un campo di senzatetto allestito dall’abbé Pierre nel 1954, all’indomani della «sollevazione della bontà» proclamata dal celebre sacerdote dei clochard. Un conglomerato di condizioni di vita così spaventose che perfino Madre Teresa, quando venne a visitarlo, se ne uscì con un sintomatico: «Qui è peggio dell’India».


Quasi un nuovo girone infernale per mancanza di igiene (Wresinski racconta quella volta in cui morì una persona e per mancanza di soldi il corpo rimase nella casupola della famiglia, rosicchiato dai topi fino a quando si trovò il modo di celebrare le esequie gratuitamente), per condizioni di sottoproletariato (si scontrò molte volte, il prete dei diseredati, con i sindacati che non volevano saperne di quelli di Noisy-le-Grand, considerati malvagi, nullafacenti, parassiti, disprezzati da tutti), per la mancanza di prospettive di miglioramento e di riscatto sociale.


Lui, Wresinski, la miseria la conosceva di persona, come ben evidenzia la nuova biografia a lui dedicata, L’uomo che dichiarò guerra alla miseria(Paoline, pp. 234, euro 22), firmata da Georges-Paul Cuny. Già, perché Wresinski era figlio di quelli che chiameremmo oggi "migranti economici": padre polacco, madre spagnola, così poveri (e inadatto il genitore, poi fuggito per incapacità di mantenere la famiglia) da far conoscere ai figli la mancanza di tutto. E di far sperimentare al piccolo Joseph perfino il rachitismo per fame. «Joseph sarà marchiato a fuoco dall’esperienza della vergogna, che riempie del suo fiele fino a ingozzare con il suo avvilimento. La ricorderà così bene che a questo marchio d’infamia attribuirà prima di tutto l’orrore della miseria, la sua agonia morale, la sua distruzione dell’essere», scrive il biografo.
Il giovane Joseph si impegna fin da ragazzo nella Gioventù comunista, dopo esser stato allevato nella fede cattolica. Ma lascia ben presto quella via e si inserisce nella Joc, la Gioventù operaia cristiana: da quell’esperienza maturerà la sua vocazione di prete per gli ultimi: «Essere prete nel mondo d’oggi significa raggruppare tutti gli uomini attorno ai più poveri, inscrivere i più poveri nell’avvenire del mondo».


E dopo l’ordinazione sacerdotale (1946) e i primi anni di ministero, inquieto e insofferente verso le statiche pratiche pastorali di una Chiesa che non sentiva l’urto della scristianizzazione e restava "borghese" nel dire e nel fare, ecco il passo che gli cambia la vita: entra a Noisy-le-Grand e non vi uscirà più. Se non per coronare i suoi sogni: portare i più poveri all’Eliseo (ci riesce con il presidente Valéry Giscard d’Estaing, che fa visita a una famiglia in baracca), in Vaticano (numerosi gli incontri con Giovanni Paolo II, che lo appoggiò e lo elogiò molto) e all’Onu: la stima del segretario generale del tempo, Javier Pérez de Cuéllar, è attestata da queste parole: «Senza l’impegno personale di uomini come lei, i più poveri rimarranno degli sconosciuti, destinati all’umiliazione dell’assistenza».


Nel raccontare la vicenda di Wresinski, Cuny evidenzia due particolarità notevoli nell’approccio di questo prete sociale. Anzitutto, le motivazioni religiose del suo impegno anti-miseria: «Cristo è nato fuori città, in una stalla. È morto fuori città, sulla croce. Ricordatevelo sempre: è il destino dei poveri». Già da giovane vicario scandalizzava la sua gente con scelte che sicuramente papa Francesco troverebbe pienamente azzeccate: ripara la chiesa con uomini che fino al suo arrivo non vi erano ammessi; invita alle funzioni i più poveri del paese, gli operai stagionali ad accedere in prima fila, sugli inginocchiatoi riservati alle famiglie ricche. Risultato: «In sei mesi, avevo svuotato la mia chiesa».


Ma padre Wresinski aveva in animo qualcosa di peculiare, «evangelizzare gli inevangelizzabili – scrive Cuny –. Per Joseph sarà motivo di sofferenza il fatto che la Chiesa gli appaia distolta dai suoi doveri sotto la pressione dei ricchi e dei potenti». Tanto che è di Wresinski questa massima: «Se la Chiesa non evangelizza i poveri, nessun uomo è evangelizzato, nessun ricco, nessun potente». En passant, è da notare che moltissimi dei volontari che si accodano a Wresinski in questa sua lotta corpo a corpo con la miseria erano non credenti, personalità – anche altolocate, come Bernadette Cournuau, la segretaria di direzione di L’Oréal, il celebre marchio di cosmetici – che pur non credendo in Dio volevano credere al detto di Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente».


In seconda battuta c’è un altro tratto speciale nell’atteggiamento sociale di Wresinski. Aveva un’attenzione alla qualità della vita dei miseri e dei poveri veramente singolare. Nel campo di Noisy, ad esempio, in un posto dove le persone non sempre avevano da mangiare, lui portò la scolarità dei bambini dal 50% al 90%. Anzi: inventò delle biblioteche di strada dove persone di buona volontà giravano per le catapecchie e i tuguri dei quartieri più fatiscenti con libri e fumetti, perché tutti trovassero nella cultura una fonte di elevazione; fondò pure università popolari per i poveri, perché è dal sapere che può partire il riscatto del povero, non solo da un tozzo di pane.
Fu inoltre protagonista di gesti d’anti-assistenzialismo clamorosi, come quando rovesciò per terra la minestra che veniva distribuita pubblicamente a Noisy. Quando si presentò al campo un’estetista chiedendo di fare la volontaria, e manifestando però il dubbio che le sue competenze non potessero servire in quel posto, Wresinski le ribattè: «Ogni uomo, anche il più squallido, nutre in sé un abbozzo e un segreto attraverso il quale entra in contatto con la bellezza». E fondò a Noisy un centro estetico, perché le donne povere potessero curare il loro aspetto. 


Perché di una cosa padre Wresinski era convinto, che ai poveri si dovesse la giustizia della dignità: «La necessità non uccide i valori, spinge a certe distorsioni di cui si ha vergogna. Ecco l’inferno della miseria: "Vorremmo essere diversi ma non c’è modo. Eppure il nostro onore ci costringerebbe a rimetterci a nuovo"».

Lorenzo Fazzin

[Modificato da Credente 30/06/2016 08:44]
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23/08/2016 10:24
 
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LUIGI DI LIEGRO


di Maurilio Guasco


Nacque a Gaeta (Latina)  il 16 ottobre 1928, da Cosimo e Anna Catanzano, in una famiglia numerosa e povera; fu battezzato il giorno successivo nella chiesa parrocchiale di Gaeta, S. Giacomo di Terra Rossa, da don Levi Panico. Ereditò il nome Luigi da uno dei fratelli, morto l’anno prima della sua nascita. Il padre, pescatore, aveva cercato a più riprese di trovare un lavoro più redditizio emigrando negli Stati Uniti, dove da tempo, però, l’immigrazione era regolamentata da norme più restrittive. Per questo i suoi diversi tentativi di raggiungere quel Paese non erano riusciti, ma tali esperienze segnarono il piccolo Luigi, che un giorno avrebbe messo gli immigrati al centro delle sue attenzioni.



La formazione e il sacerdozio
A Gaeta frequentò le classi elementari fino alla terza e fece il chierichetto nella sua parrocchia, dove fu noto anche per la sua vivacità. Per la quarta e la quinta fu invece alunno della scuola del Divino Amore, situata in Castel di Leva, sotto la guida del rettore del santuario, don Umberto Terenzi. 
L’ingresso di Luigi nel seminario del Divino Amore, il santuario romano dove era già presente la sorella maggiore, suor Maria, ha qualcosa di romanzesco: il padre era infatti contrario a quella scelta e Luigi fece una vera e propria fuga da casa. Venne ritrovato nel santuario proprio dal papà, che di fatto fu costretto ad accettare la sua decisione.  Le testimonianze, non sempre concordi, lasciano pensare che sia stata la sorella maggiore, suor Maria, a facilitarne la fuga da casa e le stesse testimonianze sono invece concordi nel narrare che, all’arrivo del padre, Luigi si sarebbe nascosto in un confessionale, da dove sarebbe uscito quando si rese conto della sofferenza del genitore, che accettò di lasciarlo in seminario.
Ricevette la formazione abituale di molti preti del suo tempo: gli studi nel piccolo seminario romano di viale Vaticano e quindi nel Pontificio seminario romano maggiore. Nel 1947 conseguì, con una votazione medio-bassa, la maturità classica presso il Pontificio istituto S. Apollinare, un ginnasio-liceo legalmente riconosciuto. Nell’ottobre del 1947 entrò nel Seminario romano maggiore, frequentando i corsi di filosofia e teologia dell’Università Lateranense fino al conseguimento della licenza in teologia. Fu uno studente diligente, senza grandi acuti, come si può desumere dai voti dei suoi esami, in genere buoni o discreti, ma che si fece notare soprattutto per altri interessi, quelli sociali, assecondato in questo dal padre spirituale, mons. Pericle Felici (1911-1982), il futuro segretario generale del concilio Vaticano II. Non è casuale che i suoi compagni lo chiamassero «Di Vittorio», il noto sindacalista, anch’egli di origini meridionali.

Dal Prenestino al Vicariato di Roma
Concluse gli studi nel 1953: il 4 aprile fu ordinato sacerdote. Arrivò così la prima nomina, in una località dove il don Luigi-‘Di Vittorio’ poté dedicarsi proprio a quegli interessi sociali che lo avevano tanto coinvolto negli anni del seminario: il giovane prete fu infatti inviato presso il  S. Leone Magno al Prenestino. Si trattava di un quartiere operaio romano, di periferia, con tutti i problemi delle periferie delle grandi città. Don Luigi iniziò a occuparsi dei problemi della zona. Poco tempo dopo decise di tentare una prima indagine di carattere sociologico sulla religiosità del quartiere, premessa per le varie indagini sulla religiosità dei romani che negli anni successivi avrebbero coinvolto alcuni docenti dell’Università Gregoriana, dapprima il gesuita padre Pedro Beltrão, poi Emile Pin e Paolo Tufari.
Contemporaneamente avvenne la scoperta della JOC (Jeunesse Ouvrière Chrétienne), l’associazione fondata negli anni Venti da un giovane prete belga, Joseph Cardijn, che in futuro, anche da cardinale, avrebbe dimostrato una profonda amicizia verso il prete romano. Lo studio della JOC, con il metodo della revisione di vita e del vedere-giudicare-agire, alimentò in don Luigi la voglia di conoscere meglio il movimento e i suoi metodi di apostolato. Iniziarono così le sue letture sempre più frequenti e più attente soprattutto della rivista francese espressione di quella forma di apostolato, Masses Ouvrières, dalla quale trasse molti articoli con i quali formò i suoi dossier. Colse poi l’occasione di un corso svoltosi in Belgio, al quale parteciparono anche molti preti italiani, per studiare sul posto, in una zona mineraria, quel tipo di pastorale. Il viaggio in Belgio, nel 1958, e la visita alle miniere (si conserva una foto in cui viene ritratto con in testa il tipico caschetto del minatore) avrebbe fatto nascere un mito, privo di fondamento ma regolarmente ripreso dai suoi biografi, di don Luigi prete operaio in Belgio, fatto assolutamente impensabile sia per il periodo in cui ciò sarebbe avvenuto sia per il carattere di don Luigi, che non avrebbe mai compiuto una scelta contro la volontà dei superiori ecclesiastici. Proprio in quegli anni vigeva, infatti, la decisione romana di proibire il lavoro salariato dei preti, un’esperienza che aveva avuto un certo sviluppo a partire dal secondo dopoguerra, soprattutto in Francia, grazie anche all’appoggio ricevuto dal cardinale di Parigi, Emmanuel Suhard.
All’esperienza della pastorale parrocchiale si affiancò presto, a partire dal 1957, un altro tipo di incarico, quello di vice assistente e poi assistente del Movimento lavoratori della Gioventù italiana di azione cattolica. Fu la premessa per la sua chiamata in Vicariato, nel 1964, presso l’Ufficio pastorale. Qui studiò un piano per la riorganizzazione delle parrocchie romane, con la divisione in cinque settori, da cui sarebbero scaturite le successive riflessioni sulla riorganizzazione di tutta la diocesi. Un possibile modello poteva essere la diocesi di Parigi, che in quegli anni stava elaborando una nuova organizzazione pastorale e la suddivisione del territorio in diverse diocesi: per questo don Luigi raccolse informazioni e documenti sulle scelte della Chiesa parigina.
Per offrire a don Luigi un luogo di riferimento e di vita, nel 1967 fu nominato rettore dell’oratorio romano del Ss. Sacramento di piazza Poli. Alla chiesa era annesso un alloggio che diventò poi la sua dimora abituale.
La collaborazione con i gesuiti della Gregoriana si fece più intensa, e nel 1969 fu promossa un’indagine sulla religiosità dei romani che gli servì per programmare le sue attività future; nel 1972 venne infatti chiamato in modo formale alla direzione del Centro pastorale diocesano per l’animazione della comunità cristiana e i servizi sociali. Una delle attività che ebbe un maggiore impatto sull’opinione pubblica fu il convegno del 1974 dedicato a La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità nella diocesi di Roma, pensato come un momento di riflessione coinvolgente tutte le forze religiose, politiche e sociali che agivano a Roma, e che sarebbe entrato nella cronaca come il convegno sui «mali di Roma». Don Luigi ne fu il vero animatore e molti degli interventi del cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, furono scritti sulla base delle sue proposte e dei suoi appunti.
Anche questo è un capitolo spesso rievocato da varie angolature. Molti giornali scrissero che don Luigi aveva forzato la mano al cardinale Poletti. I manoscritti dell’archivio Di Liegro provano il contrario: i testi di Poletti sono quasi sempre scritti da don Luigi, le correzioni fatte dal cardinale sono in genere orientate verso una maggiore apertura e accentuano alcune critiche che don Luigi non aveva indicato. Anche da parte della Curia romana vi furono critiche all'operato di don Luigi. Tutto venne ribadito, al momento della sua morte, in un articolo di Orazio La Rocca pubblicato su La Repubblica il 13 gennaio 1997.
Don Luigi risultò comunque uno dei veri protagonisti dei lavori, attirando simpatie ma anche non poche antipatie, soprattutto da personaggi politici legati alla Democrazia cristiana che avevano interpretato il convegno come una denuncia delle loro inadempienze. Tra l’altro, questo fu uno degli episodi che spinsero un noto protagonista della vita politica romana, l’onorevole Vittorio Sbardella, ad accentuare la sua diffidenza nei confronti di don Luigi. Da notare che Sbardella lo avrebbe poi voluto al suo fianco al momento della morte.
Probabilmente proprio in seguito a quel convegno sarebbero arrivate a don Luigi alcune proposte di un incarico politico. Don Luigi non le accettò, ma fu coinvolto in un Comitato di coordinamento che iniziò a operare nel 1975 e raggruppò diversi studiosi e personaggi politici, con lo scopo dichiarato di contribuire a un profondo rinnovamento della Democrazia cristiana romana.
Dall’aprile del 1976 don Luigi smise di partecipare alle riunioni del Comitato, non a causa dei molti impegni, come si disse allora, ma in seguito a una precisa richiesta del cardinale Poletti, vicario di Roma, il quale gli fece notare che la sua presenza in quel Comitato significava di fatto un impegno politico della diocesi di Roma, dal momento che lo stesso don Luigi era responsabile di uno degli Uffici del Vicariato.
Negli stessi anni, e precisamente dal 1975, iniziò a occuparsi, facendo le funzioni di parroco, del centro Giano di Acilia. Il centro fu costituito in parrocchia nel 1985, e don Luigi ne fu nominato amministratore. Nel 1995 le autorità ecclesiastiche decisero di regolarizzare la situazione con la nomina di un parroco della parrocchia che venne intitolata a S. Maria del Ponte e S. Giuseppe. Don Luigi pensava probabilmente, una volta lasciate le sue attività nel Vicariato, di scegliere quel luogo per ritirarvisi come parroco. La nomina di un altro prete, con decreto datato 1° agosto 1995, fu certamente per lui fonte di grande amarezza, anche se non gli fece rinunciare a recarvisi per la celebrazione domenicale della Messa.

La nascita della Caritas e lo sviluppo delle altre attività
Le riflessioni, le denunce, le proposte scaturite dal convegno sui mali di Roma condizionarono fortemente la nascita e gli sviluppi della Caritas romana, avvenuta nel 1979 e diventata da quel momento, grazie alla sua direzione, il vero centro motore di tutte le iniziative della Chiesa romana rivolte ai meno fortunati, ai più poveri e agli emarginati della città.
Sarebbero stati per don Luigi diciotto anni di attività ininterrotta, sempre alla ricerca dei modi migliori per fronteggiare le nuove povertà e soprattutto per promuovere varie attività in grado di affrontarle, dai barboni agli immigrati, dai carcerati agli emarginati fino ai malati di AIDS, considerata in quegli anni la nuova peste del XX secolo. Don Luigi rivelò ben presto uno straordinario talento per affrontare queste nuove realtà e i suoi bisogni. Nel 1981 fu aperto un Centro ascolto per stranieri in via delle Zoccolette, nel 1983 un ambulatorio per chi non usufruiva di assistenza medica, affiancato poi da un centro odontoiatrico. A partire dallo stesso anno iniziò la vicenda delle mense, aperte in vari luoghi della città e della periferia e diventate un punto di riferimento per un numero sempre più alto di bisognosi, in primo luogo i barboni, particolarmente colpiti dal rigido inverno del 1984, quando il freddo provocò la morte di alcuni di loro. Vennero dunque aperti ostelli e mense in viale Manzoni, a Ostia, a Primavalle, spesso incontrando l’ostilità dei residenti che temevano che quelle istituzioni avrebbero attirato nella zona una folla di emarginati. Il risultato più significativo fu comunque la mensa e l’Ostello della stazione Termini, inaugurati in seguito a un accordo con le Ferrovie dello Stato, che misero a disposizione i locali.
Don Luigi scopriva sempre nuovi bisogni, riusciva ad attirare collaboratori, discuteva con le autorità di ogni tipo, cercava appoggi da qualsiasi parte, fino alla grande battaglia per la Casa famiglia per malati di AIDS a Villa Glori, nel quartiere Parioli. L’esito fu positivo, ma le amarezze, gli attacchi, gli insulti che il prete degli ultimi dovette affrontare e subire da parte dei residenti non si contano, e spesso proprio basati sugli argomenti più desolanti, al limite del ritorno a una concezione classista della società, in cui i paladini dei poveri vengono considerati come coloro che intendono prima di tutto punire i ricchi in quanto tali, come si legge in diversi articoli apparsi in quei giorni in alcuni giornali.
L’altra grande battaglia, questa volta persa, fu attorno alla Pantanella, vecchio pastificio in una zona centrale di Roma, dismesso e diventato rifugio prima di centinaia e poi di migliaia di stranieri senza dimora. Don Luigi collaborò per dare a quell’edificio la parvenza di una casa abitabile, soprattutto nel corso dell’inverno tra il 1990 e il 1991, fino a quando le autorità decisero di sgombrarlo con la forza. Anche questo fu per lui un momento di particolare impegno e anche di profonda sofferenza.
Il problema degli immigrati ridiventò drammatico con l’arrivo di migliaia di rifugiati albanesi, occasione per don Luigi di mettere in atto un progetto Albania, di cui parlò in un articolo di Italia Caritas dell’estate 1991, arrivando a organizzare un gemellaggio con Tirana e a prepare diversi progetti da realizzare in quel Paese. Anche il capitolo Albania fu occasione, e ancora lo è, per varie interpretazioni: Di Liegro fu inviato laggiù perché era un nuovo campo di azione per combattere le povertà, o per il solito e classico motivo, promoveatur ut amoveatur? Anche l'eventuale promozione di don Luigi all’episcopato fu vista come un modo per allontanarlo dalla diocesi romana. 
Negli anni Novanta venne anche coinvolto nell’attività delle organizzazioni che andavano sorgendo, in primo luogo nella città di Napoli, contro l’usura.
Un altro capitolo di grande significato della vita di don Luigi fu il suo rapporto con la realtà carceraria, che conobbe profondamente grazie a suor Teresilla, l’angelo delle carceri, morta tragicamente mentre a piedi si recava al santuario del Divino Amore, proprio quel santuario da cui don Luigi aveva iniziato il suo cammino verso il sacerdozio. E di grande rilievo fu anche il lavoro effettuato da Di Liegro con gli ex brigatisti, sia quelli detenuti nel carcere di Rebibbia sia i fuorusciti che avevano cercato asilo politico a Parigi, dove si recò alcune volte per tentare di avviare un dialogo con loro, allo scopo di convincerli a rientrare i Italia, accettare la pena e chiudere un capitolo difficile della loro vita e della vita del Paese.
Fra le sue grandi gioie si può ricordare la visita fatta da Giovanni Paolo II il 20 dicembre 1992 alla mensa di Colle Oppio. Il papa conosceva bene le attività di quello strano prete e in diverse occasioni aveva espresso la sua ammirazione e la sua approvazione nei suoi confronti (avrebbe detto a don Luigi, nel corso di un’udienza, come ricordano alcuni dei presenti, di non preoccuparsi di quelli che lo criticavano, «sono gli stessi che criticano anche me»). 

La malattia e la morte
Fra i vari problemi che fu costretto ad affrontare in ultima posizione don Luigi collocava quelli della sua salute. Non ne parlava, e rinviava sempre quelle cure che forse avrebbe dovuto fare per combattere il diabete e per i diversi disturbi cardiaci. Così il suo cuore cominciò a dare segni di stanchezza, al punto da convincerlo ad accettare un ricovero all’ospedale S. Raffaele di Milano, dove il suo cuore cessò di battere il 12 ottobre 1997, quel cuore, come gli scrisse esplicitamente un carcerato dal carcere romano, che don Luigi aveva consumato per amare tanti suoi fratelli. I funerali, celebrati in S. Giovanni in Laterano il 15 ottobre dal cardinale Ruini, furono per tutti la più grande testimonianza di quello che quell’uomo di Dio aveva significato per la comunità dei credenti e per tanti altri: dal presidente della Repubblica fino al più umile e povero dei barboni, si raccolsero in silenzio per salutare ancora una volta «il monsignore degli ultimi».
Dalla vita e dalle attività di don Luigi emergono alcuni elementi che aiutano a comprendere meglio lo spirito che lo ha animato. Un primo dato riguarda la sua preparazione culturale. Nonostante un’attività assolutamente prodigiosa, il susseguirsi ininterrotto di impegni di ogni genere, si aggiornò continuamente, preparò dossier sugli argomenti di cui si occupava leggendo libri, riviste e giornali che ritagliava, sottolineava, tormentava; e scrisse, raramente parlò a braccio, redasse schemi o testi integrali dei suoi interventi, quasi sempre a mano, con una grafia talvolta facilmente leggibile, altre meno, probabilmente a causa del fatto che approfittò di ogni luogo e di ogni situazione per scrivere, prendere appunti, fermare sulla carta i suoi pensieri. L’altro aspetto meno noto è la sua vita spirituale. Alle volte ci si è chiesti dove trovasse l’alimento per un tipo di vita privo di riposo, di spazi personali, di vita privata. Gli amici che lo hanno conosciuto meglio rispondono a tale quesito: don Luigi era un uomo di azione, tutti lo pensavano e lo vedevano soprattutto in quella luce,  ma era anche un uomo di preghiera, alla quale dedicò molto tempo. Era lui stesso a dire agli amici (come testimoniano in particolare don Angelo Pansa e don Bruno Nicolini) che spesso al mattino, prima di essere travolto dagli impegni, dedicava ore al silenzio, alla meditazione, al colloquio con il Signore: solo così pensava di avere la forza per reggere a ritmi fisici e a preoccupazioni quotidiane che avrebbero stroncato anche una persona con una salute molto più solida della sua.

Opere
I suoi scritti sono apparsi in alcune riviste tra cui Roma Caritas e Roma Sette –settimanale diocesano della Chiesa di Roma, supplemento domenicale di Avvenire – e Rivista religiosa di Roma, mensile della diocesi di Roma.  Tra le sue opere: Vangelo e Vita. Indice analitico del Nuovo Testamento sui comportamenti dell’uomo d’oggi, Roma 1987;Per conoscere l’Islam. Cristiani e Musulmani nel mondo di oggi, a cura di L. Di Liegro, F. Pittau, Casale Monferrato 1991; Immigrazione. Un punto di vista, in collaborazione con F. Pittau, Roma 1997; Emarginati, in Dizionario di omiletica, a cura di M. Sodi, A.M. Triacca, Torino 1998, pp. 440-443.

Fonti e Bibliografia
L’archivio di don Luigi, conservato a Roma presso la Fondazione che porta il suo nome, contiene buona parte della documentazione che lui stesso aveva raccolto, spesso in modo non del tutto sistematico, e che permette di ricostruire  molti dei momenti della sua vita. Esistono altri archivi che possono offrire ulteriore documentazione, in particolare l’Archivio del Vicariato di Roma e quello dell’Azione cattolica. La sua vita ha dato anche origine a unafiction, trasmessa su Canale 5 e su Rete 4 (L’uomo della carità. Don Luigi Di Liegro, 2007) e a vari programmi televisivi, tra cui si ricorda Don Luigi Di Liegro: un prete romano, all’interno di Speciale Tg1, Raiuno, 30 maggio 2010.
Sono numerosi gli articoli a lui dedicati in giornali e riviste, sia durante la sua vita sia al momento della morte; si citano qui solo i titoli di opere che trattano esplicitamente della sua vita e della sua opera: R. Curcio, Shish Mahal, Roma 1991; M. Melliti, Pantanella. Canto lungo la strada, Roma 1992; M. Armellini, Sulla frontiera dell’Aids. La battaglia di Luigi Di Liegro e di Villa Glori contro la “peste” della paura, Dogliani 1999; Educare alla carità. Testimonianze e riflessioni in memoria di don Luigi Di Liegro, a cura della Fondazione internazionale don Luigi Di Liegro, Roma 2001; Vangelo e vita nel nuovo millennio, a cura della Fondazione internazionale don Luigi Di Liegro, Roma 2002; Esclusione e comunità. Decentramento e partecipazione nel pensiero e nell’azione di don Luigi Di Liegro, a cura di G.B. Sgritta, Roma 2004; O. La Rocca, “Avevo fame… avevo sete…”, Roma 2005; P. Ciociola, Luigi Di Liegro. Prete di frontiera, Milano 2006; A. Valle, Teresilla. La suora degli anni di piombo, Milano 2006; L. Badaracchi, Luigi Di Liegro. Profeta di carità e giustizia, Milano 2007; M.A. Pezza, Don Luigi Di Liegro. La voce degli ultimi, Genova 2007; F. Placidi, Accanto a don Luigi Di Liegro. Testimonianze, Roma 2007; M. Guasco, Carità e giustizia. Don Luigi Di Liegro(1928-1997), Bologna 2012.


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03/09/2016 23:07
 
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Papa Francesco ha firmato il decreto che autorizza
la canonizzazione di Madre Teresa.

Madre Teresa di Calcutta

Madre Teresa di Calcutta

Madre Teresa di Calcutta, Premio Nobel per la Pace nel 1979, sarà proclamata ‘Santa’ il 4 settembre 2016, durante l’anno del Giubileo straordinario della Misericordia voluto da Papa Francesco. Dal quartier generale, nella città indiana di Calcutta, l’Ordine delle Missionarie della Carità annuncia con emozione la notizia della canonizzazione della propria fondatrice.

 

La canonizzazione, prima della firma dell’atto pontificio da parte del Papa, è stata approvata all’unanimità dall’apposita commissione della Santa Sede, che ha verificato e vagliato molti dei ‘miracoli’ attribuibili a Madre Teresa di Calcutta. La canonizzazione non è un processo breve, questa può avere luogo seguendo una complessa e articolata procedura che dura anni ed è richiesto che vengano riconosciuti dei miracoli attribuiti per ‘intercessione‘ della persona oggetto del processo. La decisione finale sulla canonizzazione spetta comunque al Papa. Uno, fra i tanti miracoli riconducibili a Madre Teresa, è stato ritenuto ‘certo e certificato’: la straordinaria guarigione di un uomo brasiliano nel 2008. L’uomo era malato terminale a causa di gravi problemi al cervello, ma, dopo l’intercessione della futura Santa, è completamente guarito.

Madre Teresa: una vita da Santa

Madre Teresa, il cui nome era Agnes Gonxha Bojaxhiu, nacque il 20 agosto 1910 a Skopje, capitale dell’attuale Macedonia, ma che allora era una città dell’Albania. L’Ordine religioso da lei fondato, le Missionarie della Carità, era in origine una piccola congregazione mentre oggi è diventata una rete con oltre cinquemila suore che lavorano in più di centotrenta paesi nel mondo e dove hanno edificato ben settecento case dedicate all’aiuto dei poveri.

Il suo funerale, svoltosi a Calcutta il 5 settembre 1997, è stato un evento nazionale in India di eccezionale portata. In quell’occasione, milioni di poveri accompagnarono il feretro di Madre Teresa attraverso le vie della città. Ai funerali erano presenti anche molti capi di Stato e di governo di tutto il mondo per rendere omaggio a una donna davvero straordinaria.


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30/11/2016 13:07
 
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Carlo Acutis verso la beatificazione


Era un ragazzo normale, la sua vita no. “Essere sempre unito a Gesù, ecco il mio programma di vita”





“L’Eucaristia è la mia autostrada per il Cielo!” ama ripetere Carlo Acutis. Ha 15 anni quando una leucemia fulminante lo porta in Cielo (il 12 ottobre 2006) e dopo dieci anni la sua corsa non si ferma. La sua storia, da Milano dove viveva, è rimbalzata da una parte all’altra del mondo. Ora si chiude, dopo circa quattro anni, la fase diocesanadel processo di beatificazione e ora il fascicolo passa a Roma. “È stato sempre misteriosamente attratto dal sacro, fin da piccolo” racconta la mamma Antonia. Lei e il marito Andrea sono cresciuti in una fede piuttosto formale, si sono poi allontanati dalla Chiesa, ma non ostacolano mai questo figlio un po’ speciale. Lo seguono, e per accompagnare lui si riavvicinano alla fede. Con lui visitano anche vari santuari: Lourdes, Fatima, ma soprattutto si recano spesso ad Assisi, dove Carlo si sente a casa e dove è sepolto, come desiderava. Ha una preferenza per San Francesco, la sua umiltà, il suo amore per l’Eucaristia e la passione di annunciare il Vangelo. È questo che caratterizza anche la vita di Carlo. “Il suo pensiero principale era fare amare Gesù. Il centro della sua vita era l’Eucaristia”.



La vita di Carlo è quella di un ragazzo di 10-15 anni. “Può insegnare a tanti giovani che una vita normale può diventare straordinaria se si mette Dio al centro e si cammina in sintonia con il progetto di Dio per noi. Carlo ha fatto questo” dice la mamma. Carlo è simpatico, è facile fare amicizia con lui. Non ostenta mai le sue capacità o le sue possibilità economiche. C’è sempre, per tutti: per i compiti, per una parola buona, per i compagni e per i poveri, per la famiglia e per chi incontra nelle sue attività di volontariato (dalla mensa dei poveri al catechismo dei bambini). Il suo fascino è contagioso, anche per i compagni che lo prendono in giro per le sue convinzioni profonde. A lui pongono domande e tanti riscoprono la bellezza di una vita vissuta nella fede. Carlo è innamorato dell’Eucaristia: “Essere sempre unito a Gesù, ecco il mio programma di vita”. A 7 anni fa la Prima Comunione, frequenta la Messa quotidiana (“Si va dritti in Paradiso, se ci si accosta tutti i giorni all’Eucaristia”) e si ferma sempre in adorazione davanti al tabernacolo. Si confessa spesso: “La confessione è come il fuoco che fa salire in cielo la mongolfiera”.


Carlo ama gli animali e la natura, ha una grande passione e una vera genialità per tutto ciò che è informatica e tecnologia, doti che mette al servizio degli altri, tanto che qualcuno lo vede già come patrono del web. È convinto che Internet sia un mezzo, e come tale da dominare, non da cui essere dominati. Per questo si impone anche una regola: non più di un’ora a settimana, per evitare di cadere nella Rete. Il suo computer è immacolato, come lo è lui. È un ragazzo molto bello e fa innamorare più di qualche amica; lui stesso non è insensibile al fascino femminile, ma senza malizia, perché “il corpo è tempio dello Spirito”. La cronologia del suo computer è piena di ricerche riguardanti i santi e i temi della fede, nessuna distrazione. Uno degli ultimi giorni, nel letto dell’ospedale diceva: “Muoio sereno perché ho vissuto la mia vita senza sciupare neanche un minuto di essa in cose che non piacciono a Dio”. Invita continuamente i suoi amici a non vivere in modo anonimo, a non omologarsi, ma a vivere secondo i doni che Dio ha fatto a ognuno: “Tutti nascono originali ma molti muoiono come fotocopie”.



 



Tra le sue iniziative c’è una mostra sui miracoli eucaristici (http://www.miracolieucaristici.org), a cui Carlo dedica molte energie. Il suo desiderio è che Gesù sia conosciuto e il suo cruccio è che tanta gente possa vivere senza minimamente interessarsi di questo: “Forse la gente non ha ancora capito seriamente. Gesù è presente a noi corporalmente come lo era durante la sua vita mortale in mezzo ai suoi amici. Se riflettessimo seriamente su questo fatto, non Lo lasceremmo così solo nei tabernacoli mentre Lui ci attende amorevolmente per aiutarci e sostenerci nel nostro cammino terreno”. Carlo rimane colpito dalla storia delle apparizioni di Fatima, e dai misteri rivelati ai tre pastorelli (“Se gli uomini sapessero che cos’è l’Eternità farebbero di tutto per cambiare vita”). Da qui il suo fervore nel pregare per le anime del purgatorio e nell’offrire piccoli sacrifici personali in riparazione dei peccati del mondo. Tutti i giorni recita il Rosario ed è molto devoto alla Madonna. Anche la sofferenza degli ultimi giorni di malattia viene vissuta in totale serenità e affidamento a Dio, e offerta per il Papa e la Chiesa.




Al suo funerale, i genitori scoprono la fitta rete di conoscenze di Carlo, quando vedono arrivare centinaia di persone, molte sconosciute, di tutte le estrazioni sociali e di religioni diverse. Un iceberg di cui loro avevano visto solo la punta e che ora si svela in tutta la sua grandezza. Tante testimonianze continuano ad arrivare da tutto il mondo. A Carlo sono intitolate scuole e oratori, ed è diventato un modello da proporre ai giovani in tante parrocchie e associazioni. Ancora la mamma: “Ci accorgevamo che era un ragazzo speciale, unico. Siamo sempre stati contenti per lui, abbiamo goduto dei suoi doni e della sua vicinanza e adesso che si è trasferito in Cielo… godiamo lo stesso. Come dice Giobbe: Il signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”. Oggi Carlo ha anche due fratellini sulla terra. Sono nati sei anni fa, la data del parto (poi anticipato) era il giorno della sua nascita al Cielo. Una grazia? Sicuramente un segno della tenerezza di Dio, e di Carlo.





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03/01/2017 17:48
 
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Le inesistenti ombre su Madre Teresa



Riprendiamo le pubblicazioni e inauguriamo il 2017 con un nuovo dossier UCCR, avente per oggetto Madre Teresa di Calcutta, diventata santa nel settembre 2016 ed icona mondiale di carità e di dedizione agli ultimi.


Troppa luce, tuttavia, ha infastidito qualcuno. Può infatti sembrare incredibile ma non sono mancate le critiche al suo operato a Calcutta, nemmeno lei è stata risparmiata. Gran parte delle persone non sa di queste polemiche -e non si perde granché, effettivamente-, ma chi ha avuto modo di leggere qualcosa fatica a trovare materiale, testi e testimoni -che pur ci sono a volontà-, per documentarsi e poter riaffermare la verità. Da qui è nata l’esigenza di offrire un dossier in cui trovare risposte documentate a tutte le principali accuse rivolte alla suora albanese. Attualmente è l’unico nel suo genere in tutto il web.


Il più convinto detrattore di Madre Teresa è stato certamente lo scrittore ateo Christopher Hitchens, autore del libro “La posizione della Missionaria”, oggi quasi tutti i critici si rifanno pedissequamente al suo lavoro. Diverse sono le sue accuse: le Missionarie della Carità, congregazione fondata da Madre Teresa, non sarebbero state vere amiche dei poveri ma avrebbero fondato un culto della sofferenza, privando i poveri e i malati delle cure necessarie e sprecando le donazioni ricevute. Madre Teresa, inoltre, avrebbe fatto professione di ateismo, si sarebbe curata nei migliori ospedali americani e avrebbe battezzato in segreto e convertito forzatamente i moribondi nei suoi hospice. «Molte più persone sono povere e malate a causa della vita di Madre Teresa»ha concluso Hitchens. «Ma ci saranno ancora più poveri e malati se il suo esempio sarà seguito. Era una fanatica, una fondamentalista, e un’imbrogliona». C’è perfino chi, utilizzando lo stesso Hitchens come fonte, l’ha incredibilmente  e pubblicamente paragonata al criminale nazista Adolf Eichmann, braccio destro di Hitler, condannato di genocidio (per ogni verifica e approfondimento rimandiamo al dossier). Anche altri hanno confermato, almeno parzialmente, le accuse dello scrittore inglese, in particolare qualche ex-volontaria delle missionarie, alcuni esponenti di un partito politico nazionalista indiano, uno studio di ricercatori canadesi e un articolo apparso sulla rivista medica The Lancet.


smentire queste accuse, alcune superficiali e altre francamente ridicole, sono intervenuti in questi anni moltissimi collaboratori, studiosi, giornalisti e testimoni oculari dei fatti. Ciò che sorprende di più è la loro varietà: dai direttori spirituali di Madre Teresa a giornalisti dichiaratamente atei, dai suoi collaboratori di fede indù a studiosi agnostici, dai sociologi cattolici a membri di partiti politici indiani, fino a decine di semplici abitanti di Calcutta entrati in contatto con lei. Siamo contenti che il sociologo William A. Donohue abbia deciso di pubblicare il libro Unmasking Mother Teresa’s Critics (“Smascherando i critici di Madre Teresa”, Sophia Institute Press 2016) nell’agosto 2016, anche se forse qualcuno avrebbe dovuto farlo molto prima.


La Congregazione delle cause dei Santi ha studiato oltre 35mila pagine di testimonianze, lettere, scritti e documenti, favorevoli e contrari, prima della decisione. Noi ne abbiamo analizzate molte meno, tuttavia, dalla approfondita indagine che abbiamo comunque realizzato sulle accuse e sulle contro-accuse, siamo giunti alla stessa conclusione. Anche se esiste una parte di verità in alcune delle rivendicazioni degli accusatori, Madre Teresa ha vissuto una vita santa -in senso laico e religioso- e ad oggi non c’è nessun’ombra che ha la forza di oscurare il bagliore che ha emanato.


Lo ha ribadito più volte anche l’ex commissario elettorale principale dell’India, Navin Chawla, stimato da tutte le democrazie occidentali, che è stato amico di Madre Teresa e da lei profondamente influenzato, tanto da iniziare a costruire a sua volta lebbrosari e centri per la cura per bambini sordi. E’ rimasto convintamente di fede indù e colui che forse si è più speso per controbattere le pretestuose critiche dei laici borghesi occidentali, che non si sono oltretutto mai distinti per alcuna opera sociale o caritatevole. «Se ci fosse modo d’incontrare papa Francesco mi piacerebbe tanto stringergli la mano e dirgli: grazie d’avere dichiarato santa Madre Teresa!», ha detto Chawla. «Ma gli direi anche che per tutti noi lo era già. L’eredità di Madre Teresa va oltre l’India. Appartiene al mondo. È un esempio universale». E questo è tutto.


 


Clicca qui per consultare il dossier:
Madre Teresa di Calcutta, risposte a tutte le critiche

 


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24/01/2017 08:29
 
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San Francesco di Sales ha reso amabile la Chiesa in un tempo di lotte; è un esempio di dolcezza e ha saputo mostrare che il giogo del Signore è facile da portare e il suo carico leggero, attirando così molte anime.
E un vero riposo per l'anima contemplare questo santo, leggere i suoi scritti, tale è la carità, la pazienza, l'ottimismo profondo che da essi si sprigiona. Qual è la sorgente di questa dolcezza? Essa viene da una grandissima speranza in Dio. Nella vita di san Francesco di Sales si racconta che nella sua giovinezza visse un periodo di prove terribili in cui si sentiva respinto da Dio e perdeva la speranza di salvarsi. Pregò, fu definitivamente liberato e da allora fu purificato dall'orgoglio e preparato a quella dolcezza che lo contraddistinse. Non faceva conto su di sé: aveva sentito con chiarezza quanto fosse capace di perdersi, come da solo non potesse giungere alla perfezione, all'amore, alla salvezza e questa consapevolezza lo rendeva dolce e accogliente verso tutti. Ma più ancora dell'umiltà quella prova gli insegnò la bontà del Signore, che ci ama, che effonde il suo amore nel nostro cuore.
San Francesco esultava di gioia al pensiero che tutta la legge si riassume nel comandamento dell'amore e che nell'amare non dobbiamo temere nessun eccesso. Scrisse un lungo Trattato dell'amore di Dio e anche un libro più semplice, ma delizioso: Introduzione alla vita devota. Quest'ultimo lo compose capitolo per capitolo scrivendo lettere ad una giovane donna attirata da Dio. Parlandone a santa Giovanna de Chantal che già conosceva diceva di aver scoperto un'anima che era "tutta d'oro" e che egli cercava di guidare nella vita spirituale.
E veramente meraviglioso vedere con quale semplicità e anche con quale ricchezza di immagini, di stile, questo vescovo sovraccarico di cure e di preoccupazioni trovava il tempo di esprimersi per rendere amabile la devozione ("La vera devozione diceva non danneggia niente e perfeziona tutto"), per mostrare che Dio non è un padrone duro, ma un Padre pieno di bontà, che quando trova un cuore ben disposto lo riempie di pace, di gioia, di soavità, lo introduce veramente in un paese dove scorrono latte e miele come dice la Scrittura. E proprio l'impressione che si prova leggendo san Francesco di Sales.
La sua dolcezza non è debolezza, mancanza di energia: egli si donò sempre con vigore straordinario. Prima di essere vescovo aveva già esercitato il ministero nella regione dello Chablais che era tutta passata al protestantesimo ed era riuscito, con fatiche enormi anche fisiche, nei gelidi inverni alpini, superando tutte le difficoltà, a riportare quegli abitanti alla Chiesa cattolica: fu una delle grandi gioie della sua vita.
Non riuscì però ad estendere il suo apostolato come avrebbe voluto. Non potè mai risiedere a Ginevra sua città episcopale, diventata roccaforte dei calvinisti che gliene proibirono l'accesso sotto pena di morte. Tentò una volta a rischio della vita ma inutilmente. Avrebbe potuto provare dispetto e amarezza di fronte a questo ostacolo insormontabile, ma la sua fiducia e il suo amore lo mantennero nella profonda pace di chi compie l'opera di Dio secondo le proprie possibilità. Anche questo è un trionfo della pazienza e della mitezza: non irrigidirsi, non amareggiarsi davanti a difficoltà che non si riesce a vincere ma continuare a vedere dovunque la grazia del Signore e a rendere amabili le sue vie.
Domandiamo al Signore che ci faccia assomigliare a questo santo nella sua pazienza, dolcezza, semplicità, fiducia, che lo resero così simile a Gesù mite e umile di cuore.
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04/02/2017 16:30
 
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Giuseppe (Desideri) da Leonessa



Prigioniero dei Turchi a Costantinopoli, fra Giuseppe era restato per tre giorni appeso a una croce per un piede e per una mano. E non era morto. Dio solo sa come riuscisse a sopravvivere a quel supplizio, e come si rimarginassero le sue terribili ferite. Si parlò dell'intervento miracoloso di un Angelo, che avrebbe sostenuto il suo corpo e curato le sue piaghe.

Certo non era facile spiegare in altro modo quella resistenza che sfidava tutte le leggi naturali, comprese quelle - terribilmente logiche - della tortura. E quasi un miracolo fu il fatto che il Sultano, forse ammirato per l'accaduto, commutasse la pena di morte con l'esilio perpetuo.

A Costantinopoli, il cappuccino Fra Giuseppe aveva compiuto un gesto degno veramente da folle. Aveva tentato di entrare nel palazzo per predicare davanti al Sultano in persona, sperando di convertirlo. Catturato dalle guardie, era stato giudicato reo di lesa maestà.

Bisogna dire che fino allora i Turchi lo avevano lasciato libero di predicare in città, dopo aver assistito i cristiani prigionieri. L'estrema povertà del frate e dei suoi compagni, sotto il saio color tabacco, lasciava perplessi i rappresentanti del potere e della religione ufficiale. Era difficile vedere in quegli umilissimi stranieri, sprovvisti di tutto, altrettanti pericolosi cospiratori contro la sicurezza dello Stato.

Giuseppe era nato nel 1556, a Leonessa, e nella cittadina umbra dal fiero nome, presso Spoleto, era entrato sedicenne tra i cappuccini della riforma, mutando il nome di Eufrasio Desiderato in quello dell'umile sposo della Vergine. Aveva compiuto il proprio noviziato nel convento delle Carceri, sopra Assisi, e in quella piega boscosa del Subasio si era temprato alla più dura penitenza e alla più rigorosa astinenza.

Con una tipica espressione francescana, chiamava il proprio corpo « frate asino », e diceva che come tale non aveva bisogno di essere trattato come un corsiero, un purosangue. Bastava trattarlo come un asino, con poca paglia e molte frustate.

La paglia forse si, ma le frustate - come abbiamo visto - non gli erano mancate durante la sua avventura in Turchia, dove il generale dell'Ordine lo aveva inviato, trentenne, per assistervi i prigionieri cristiani.

Tornato in Italia, poté seguire quella vocazione missionaria che l'aveva spinto a predicare davanti al Sultano. Questa volta, però, fu predicatore sull'uscio di casa, nei villaggi e nella città reatina, sua patria. I risultati furono altrettanto consolanti, e il suo zelo di carità ancor più necessario, perché il più difficile terreno di missione è spesso quello stesso sul quale fiorisce la santità in mezzo alle ortiche del vizio e ai rovi dell'indifferenza.

Cinquantacinquenne, s'infermò, ritirandosi nel convento d'Amatrice. Gli venne diagnosticato un tumore, e si tentò di operarlo, Dio sa come. Fu quello il suo secondo supplizio, ma rifiutò di essere legato, come suggerivano i medici. E non si sollevò più dal lettuccio chirurgico. Come anestetico si era stretto al petto, lungamente, il Crocifisso.

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18/03/2017 20:42
 
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Il martire altoatesino Giuseppe Mayr-Nusser


 Mayr-Nusser nel 1934, a 24 anni, fu eletto presidente dell’Azione Cattolica di Trento e nel 1939 presidente della nuova Conferenza di San Vincenzo fondata a Bolzano. La sua giornata era Messa quotidiana, rosario quotidiano, servizio ai poveri e lavoro.


L’ADESIONE ALL’ANTI-NAZISMO


In occasione delle Opzioni in Alto Adige del 1939 si schierò con i Dableiber, ovvero coloro che, contrari all’emigrazione verso il Terzo Reich, vollero mantenere la cittadinanza italiana (La Civiltà Cattolica, 2008), e aderì segretamente al movimento antinazista “Andreas Hofer Bund


Nel 1942 sposò Hildegard, da cui ebbe un figlio, Albert. Arruolato a forza nelle SS, rifiutò per motivi religiosi di prestare giuramento al nazionalsocialismo.


IL GRAN RIFIUTO


Obbligato ad arruolarsi, perché lui era di lingua tedesca, nel 1944 fu inviato a Konitz, presso Danzica, in Polonia, nel campo di addestramento delle SS. Qui gli fu chiesto di prestare il giuramento al Führer ma egli rifiutò, per la sua fede.Lui disse un ‘no’ frontale a Hitler davanti a tutte le SS che si formavano.


DA SAN TOMMASO A GUARDINI


Quando era giovane, spiega ancora il cardinale Amato a Radio Vaticana, aveva letto le opere di San Tommaso, quelle di Romano Guardini, ma soprattutto le Lettere dal carcere di Tommaso Moro, che – come Gran Cancelliere di Inghilterra – aveva detto ‘no’ al suo sovrano per non rinnegare la propria identità cattolica. E quindi questo ‘no’, detto per salvare la propria coscienza,Josef lo ha portato nel suo cuore fino a quella esperienza tragica di dover dire ‘no’ a Hitler, firmando la sua condanna di morte.


LA MORTE SUL TRENO


Fu quindi arrestato, processato e condannato a morte: caricato su un treno verso il campo di concentramento di Dachau, morì durante il tragitto per le conseguenze dei maltrattamenti subiti.


Molti anni dopo, un ex soldato tedesco che lo aveva scortato nel trasferimento disse di aver trascorso 14 giorni con un “santo”.


“GIOVANE DI FEDE E CORAGGIO”


«La Chiesa di Trento gioisce con la Chiesa sorella di Bolzano-Bressanone per la beatificazione di Josef Mayr-Nusser». Così l’arcivescovo di Trento Lauro Tisialla vigilia della proclamazione del nuovo beato altoatesino.


«Osserviamo stupiti – aggiunge monsignor Tisi – gli occhi di un giovane, soprattutto nel cuore, che cammina con coraggio e fede enormi verso il sacrificio della propria vita. Lo fa soprattutto per due ragioni. Perché sente dentro di sé la voce insopprimibile della coscienza, che troppe volte ci ostiniamo a soffocare. In secondo luogo, perché Josef sa che nulla possono le parole, se non portano alla testimonianza, da lui definita ‘la nostra unica arma efficace, con semplicità e senza pretese» (Ansa.it, 17 marzo).



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18/03/2017 20:47
 
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Il sacerdote brasiliano che è andato a vivere nella discarica
per riscattare le persone che vi lavorano

Padre Airton Freire: dalla Via della Spazzatura alla Fondazione Terra dei Servi di Dio

Il sacerdote brasiliano Airton Freire de Lima è nato nel 1955 nella città di São José do Egito, nello Stato brasiliano di Pernambuco, e ancora giovane è andato a studiare a Recife disegno e architettura, teologia e psicologia.

Ordinato diacono l’8 dicembre 1981 e sacerdote il 13 febbraio 1982, è stato nominato parroco di Arcoverde, nella zona rurale pernambucana, dove pochi mesi dopo, su invito di un gruppo di giovani, ha conosciuto una zona della città che veniva usata come deposito di spazzatura.

E la spazzatura che vi ha trovato era scioccante. Intere famiglie non solo raccoglievano immondizia per sopravvivere, ma abitavano nella discarica, come se fossero esse stesse “spazzatura umana”: “vivevano” in baracche di cartone o di latta senza acqua, servizi igienici, luce elettrica, strade asfaltate, scuola o assistenza medica. Vivevano ai margini della società, anche della cosiddetta società cristiana.

Sconvolto dal panorama che si presentava davanti ai suoi occhi, padre Airton ha celebrato una Messa accanto alla discarica – Messa durante la quale un bambino affamato, vedendo l’ostia, ha implorato di mangiarla pensando che fosse un “biscotto”.

Dopo quell’episodio, che ha mostrato chiaramente al sacerdote il rapporto tra il Corpo di Cristo e il pane di cui il bambino aveva bisogno per saziare sia la fame dell’anima che quella del corpo, ha preso una decisione che avrebbe cambiato la direzione della sua vita: anche lui è andato ad abitare nella Via della Spazzatura, passando a vivere da povero tra i poveri.

È in mezzo alla spazzatura che è nata l’Associação Terra (Associazione Terra), in seguito trasformata nella Fundação Terra dos Servos de Deus (Fondazione Terra dei Servi di Dio). L’associazione è stata fondata giuridicamente la mattina dell’8 settembre 1984, giorno della Natività di Maria.

Nel 2000 padre Airton si è trasferito a Malhada, vicino Arcoverde, dove vive ancora oggi. Il trasferimento è avvenuto perché il 29 aprile 1999, festa di santa Caterina da Siena, dopo digiuni e giorni di preghiera il sacerdote ha creato la Comunidade de Vida dos Servos de Deus (Comunità di Vita dei Servi di Dio), e il 31 maggio dello stesso anno ha scelto lo spazio in cui sarebbe stata costruita la cappella in onore di Padre Pio da Pietrelcina e Nossa Senhora da Conceição. Lì sono nati anche l’Istituto dei Servi di Dio, la Casa di Ritiri Sacra Famiglia e una serie di gruppi di preghiera chiamati Grupos da Terra (Gruppi della Terra), sostenuti dall’Istituto Padre Airton.

Il sacerdote, che parla portoghese, inglese, francese e tedesco, ha registrato 180 CD con musiche e prediche e ha pubblicato 90 libri, oltre a organizzare ritiri spirituali in Brasile e all’estero.

Presiede anche la Fondazione Terra dei Servi di Dio, che agisce nel campo della salute, dell’istruzione, degli alloggi e dell’abilitazione professionale mediante progetti che beneficiano direttamente più di 2.000 persone ogni anno, soprattutto negli Stati di Pernambuco e Ceará.

E non sono iniziative di poco conto, visto che includono da asili a un ospedale, passando per scuole, inserimento professionale, assistenza medica e psicologica, fornitura di viveri, alfabetizzazione di adulti, riscatto di giovani mediante progetti sportivi e culturali, formazione di imprenditori, concessione di microcrediti con orientamento e assistenza per la strutturazione delle attività produttive.

Tutte le iniziative sono mantenute grazie a donazioni di individui e imprese e contano sul sostegno di fondi pubblici ottenuti da programmi sociali del Governo. Per ulteriori informazioni sulla Fondazione e sul suo operato, si può visitare il suo sito.


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08/04/2017 12:15
 
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Una santa eccezionale, quasi sconosciuta, che vi sconvolgerà



 



di Benedetta Frigerio


E’ una delle più grandi sante che la Chiesa abbia mai ricevuto in dono, eppure è quasi sconosciuta. Politicamente scorretta, non tanto perché ricorda il valore della sofferenza e della penitenza o perché chiama Maria “corredentrice” e nemmeno perché Dio le mostra l’inferno pieno di anime e di  ecclesiastici che tradendo la vera dottrina della Chiesa hanno contribuito alla dannazione di numerose persone; ma perché dimostra la potenza dell’amore incarnato. Santa Veronica Giuliani (1660-1727), nata a Mercatello sul Metauro (PU), definita da papa Pio IX “un gigante della fede”, va infatti controcorrente soprattutto perché testimonia l’abisso infinito dell’amore di Dio per gli uomini. Un amore che sceglie la Croce volontariamente e che pur di salvare i peccatori cerca persone disposte a offrire la vita per loro. Un amore così folle da spingere santa Veronica a desiderare di stare con il suo amato sempre, anche sul Calvario e a costo di sofferenze indicibili, ricevendole senza sosta per tutta la vita insieme al dono delle stigmate.


 


Questo e molto altro è raccontato dal film “Il risveglio di un gigante” (distribuito nelle sale su richiesta) sulla vita di una santa che non ha nulla da invidiare a Caterina da Siena, Teresa D’Avila o Giovanna d’Arco e a cui Dio concesse grazie uniche, tanto da far dire a papa Leone XIII che “solo la madre di Dio ne fu più onorata (di grazie, ndr)”. A lei che parlò, toccò e visse tutta la vita faccia a faccia con Gesù e Maria, il Signore infatti rivelò: “Ho aspettato la tua nascita da tutta l’eternità”.


Perché tanta attesa e brama? Basti pensare che fin da neonata la santa rifiutò il latte materno nei giorni di digiuno e penitenza stabiliti dalla Chiesa; addirittura a cinque mesi, nel giorno della festa della Santissima Trinità, si alzò in piedi e, a braccia aperte, andò incontro ad un quadro di casa che rappresentava la Trinità. Già a 7 anni, sofferente per la morte della madre, cominciò a desiderare di patire insieme a Cristo per la salvezza dei peccatori, tanto da inventarsi penitenze incredibili e umanamente insopportabili senza la grazia divina. Questa santa, che poi sarà obbligata dal vescovo a scrivere i dettagli di tutta la sua vita, un’esperienza mistica continua contenuta in un diario di oltre 22 mila pagine (pur incapace di scrivere del tutto correttamente Veronica arrivò a profondità teologico-filosofiche impressionanti), fa comprendere bene che cosa sia l’Eucarestia. Già da bambina la desiderava avvertendo un profumo soave uscire dalla bocca di quanti ricevevano la Comunione. E quando a dieci anni prese in bocca l’Ostia, provò la potenza dell’amore di Cristo che si sprigionava in tutto il suo corpo.


Dal docu-film, in cui vengono intervistati i massimi esperti viventi della vita di questa santa misteriosamente sconosciuta, si comprende che la missione di Veronica nella Chiesa pare cominciare ora. Gesù le rivelò infatti che “questi scritti devono andare in tutto il mondo” e soprattutto che “questi scritti sono per la difesa della fede”. In effetti Veronica parla della centralità di Maria per la salvezza della Chiesa, dell’amore e il rispetto che si deve all’eucarestia, del valore del sacrificio per la salvezza delle anime e descrive l’inferno e il purgatorio come realtà esistenti e per nulla edulcorabili. Soprattutto Veronica, accettando patimenti, digiuni di anni e umiliazioni, ricorda ai cristiani quanto dice Gesù, sul fatto che “chi vuole essere mio discepolo prenda la sua Croce e mi segua”. Nella sua impostazione monacale poi la difesa della dottrina della Chiesa era così centrale che alle novizie prima di insegnare la spiritualità francescana faceva studiare il catechismo. Mentre nei suoi scritti vengono confutate le eresie e confermati i dogmi.


Ultima di sette figlie, dopo aver lottato per diventare monaca cappuccina, entrata in convento farà una battaglia spirituale incredibile, provando repulsione e sentendosi come in prigione, sebbene a sostenerla ci fosse sempre Cristo che non le fece mai mancare la sua presenza ricca di doni mistici e di un amore abissale. Per questo il diavolo la attaccò, sia spiritualmente sia fisicamente rompendole più volte il femore, riguarito ogni volta miracolosamente da Dio.


Dopo centinaia di esperienze estatiche che anche i più grandi santi hanno ricevuto solo poche volte nella vita, gli verranno donate anche le stigmate. E qui, creduta indemoniata, subirà ingiustizie tali da far piangere. Quando poi la Santa Sede riconobbe la veridicità della sua esperienza, venne eletta badessa, ma sentendosi ultima e incapace, consegnò le chiavi del monastero alla Madonna che le promise di fare lei da badessa. Le novizie testimonieranno che quando Veronica parlava a volte la sua voce mutava completamente: era quella di Maria. In monastero riuscì con la carità a governare e ottenere tutto, tanto che politici e alti prelati cercarono il suo consiglio.


 


Dopo aver già visto i suoi peccati nell’Aldilà, di cui “non posso spiegarvi la bruttezza”, la santa negli ultimi 12 anni della sua vita sperimentò un amore tale da dire: “Vedo che sono nulla…le ingratitudini…di un’ingrata creatura…oh amore poco conosciuto…da me in particolare”. Sulla stessa lunghezza d’onda le ultime battute del suo diario dettate dalla Madonna: “Di tutte queste cose tu non conoscesti niente, eppure desti consentimento a tutte, secondo il volere di Dio”. Sì perché il sacrificio più grande, quello per cui era ferocemente odiata dal diavolo, non fu quello delle penitenze insopportabili o delle umiliazioni attraverso cui salverà un numero elevatissimo di anime, ma quello del rinnegamento totale della sua volontà umana per fare quella di Dio. Veronica era così obbediente, che persino per morire, in un’agonia straziante da 33 giorni, chiese il permesso al sacerdote al suo capezzale.


Solo dalla fine degli anni Ottanta intorno a lei sta crescendo una grande devozione e sequela al suo messaggio (rapita in estasi, vide nel Sacro Cuore di Gesù molte delle anime che avrebbero fatto conoscere la sua vita e i suoi scritti).  Davvero la missione di Santa Veronica pare una riparazione ai peccati dentro e fuori la Chiesa dei nostri tempi, in un mondo in cui la fede cattolica vive una crisi profonda e in cui l’umanità vuole sostituirsi a Dio imponendo la propria volontà contro la dottrina o stabilendo l’inizio e la fine della vita.


Veronica invece accettò la chiamata a fare la Guerra con la Croce in mano, come le disse Gesù, proprio perché non confidò mai in se stessa, nelle sue capacità o nelle sue forze (non c’è traccia di moralismo o giansenismo in lei che alle novizie, che le rispondevano di stare svolgendo tutti i loro compiti, diceva: no, amate il Signore!), anzi non cercò mai la sua volontà, facendo solo la strada che Dio aveva preparato per lei. Perché “l’amore si è fatto trovare, questa è la causa del mio patire e del mio gioire. Ditelo a tutte”.



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10/05/2017 11:12
 
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Il Vangelo mi ha salvato dal vuoto






entrata in seminario e poi la crisi, un fidanzamento e infine l’incontro con Nuovi orizzonti: «Il segreto della felicità è vivere la parola di Dio concretamente»



di Annachiara Valle


Una famiglia felice a Padova negli anni Ottanta. Quattro figli scout, con due genitori «che sono il dono più grande che ho avuto nella mia vita». Una frequentazione “naturale” fin da bambino in parrocchia e un ingresso in seminario minore. La vita sembra scorrere senza scossoni su un cammino già tracciato. «Ma la realtà da seminarista era diversa da quella immaginata. Non era soltanto in quegli otto campi da calcio che mi avevano attratto».


Separato dalla famiglia con una disciplina rigida, Davide entra presto in crisi. Lo racconta con il sorriso, oggi, don Davide Banzato. Racconta le cose belle del seminario minore, ma anche le cose che l’hanno portato a sbattere la porta ? «me ne sono andato nel peggiore dei modi» ? e le sue crisi, le feste e la sua resistenza alla vocazione. Fino ad oggi, giovane sacerdote, assistente spirituale di Nuovi orizzonti, comunità fondata da Chiara Amirante.


Don Davide, come nasce questa vocazione?


«Fin da piccolo non escludevo il sacerdozio e non volevo sprecare la mia vita. Da chierichetto andavo ai weekend vocazionali in seminario e là sono stato attratto da un pallone di calcio. Soltanto dopo mi sono reso conto che la vita lì era un’altra cosa».


 


Cosa non andava?


«Un modello educativo non al passo coi tempi. Si interrompeva il rapporto con la famiglia incontrandola solo due volte al mese. Si viveva in camerate, era obbligatorio frequentare solo il liceo classico, le regole erano molto rigide».


In seminario, però, aveva conosciuto Chiara Amirante. Com’era stato quell’incontro?


«Chiara era stata invitata per una sua testimonianza nella sede estiva a Borca di Cadore. Mi colpì la luce che aveva negli occhi. La notte divorai il suo primo libro Stazione Termini e sentii una spinta a seguirla. Il mattino dopo la cercai. Le dissi che avevo capito che la mia vita era a Nuovi orizzonti. Avevo 14 anni. Ero un bambino. Eppure non mi disse di no. Mi spiegò che il progetto che Dio ha su ciascuno di noi è come un puzzle che dobbiamo realizzare avendo la pazienza di mettere un tassello alla volta. E che solo così alla fine possiamo vedere il quadro meraviglioso pensato per noi».


Una risposta che la colpì?


«In realtà non mi era piaciuta. Avevo capito che dovevo restare dov’ero. Affrontai un nuovo anno in seminario tenendo una corrispondenza con lei e vivendo le mie prime esperienze di evangelizzazione di strada alla stazione di Padova. Poi il fuoco si spense. Arrivai a perdere i contatti con Chiara. Fino alla decisione di uscire dal seminario. Sbattei la porta urlando a Dio: “Adesso voglio vedere se esisti! Farò il contrario di quello che mi hanno insegnato… se ci sei sentirò la tua mancanza, se andrò avanti lo stesso, io non ho bisogno di te! Sono io il dio della mia vita!”. Giurai con rabbia: “Tutto ma mai prete! Potrò fare di tutto nella vita, ma ti giuro, mai farò il prete!”».


E che vita comincia?


«Una vita di vuoto, non senso e feste. Non ho esagerato, non mi sono mai drogato, pur essendo a rischio. Mi ha salvato la paura. Ma le tenebre dell’anima le ho sperimentate. Ho vissuto il “fai ciò che vuoi” raccogliendo nel mio cuore la morte dell’anima».


Come ha incontrato di nuovo Chiara?


«Dopo aver toccato il fondo ho chiesto aiuto al Signore e in quello stesso giorno ho incontrato una ragazza di Nuovi orizzonti che mi invitò a una giornata di spiritualità. Presi subito il treno per Roma e reincontrai Chiara».


 


Cos’è successo?


«Sono rimasto folgorato dalla gioia che i ragazzi avevano, respirando un clima di famiglia e non capendo chi fosse l’operatore e chi il tossico. A Chiara chiesi come poter avere la sua stessa gioia. Lei mi disse che il segreto era vivere il Vangelo. Le risposi che di vangeli ne avevo sentiti troppi. Lei insisteva: “Sicuramente ne hai sentiti, qualche volta ascoltati, ma mai vissuti. Perché il Vangelo non è un libro come gli altri che puoi mettere solo sul comodino. Realizza le sue promesse nella misura in cui lo provi a vivere alla lettera”. Così, tornato a Padova, ogni giorno ho fatto quanto a Nuovi orizzonti si vive la mattina a meditazione. Oggi Chiara condivide “la parola di luce” e “l’impegno del giorno” su Facebook. Io me la scrivevo sul palmo della mano per impegnarmi a viverla al rintocco di ogni campanella della ricreazione. Questo esercizio ha cambiato la mia vita! Sono tornato a evangelizzare in strada, è nato un gruppo di preghiera e a 18 anni ho lasciato tutto per andare a vivere in comunità a Piglio».


È a quel punto che decide di tornare in seminario?


«Non ancora. Sono stato fidanzato per tre anni e avevo deciso di vivere con promessa di povertà, castità, obbedienza e gioia come la maggior parte dei consacrati laici o sposati a Nuovi orizzonti. Però una sera, mentre pregavo in cappellina, ho sentito fortissima una spinta interiore verso il sacerdozio. Così sono corso da Chiara piangendo disperato. Lei mi tranquillizzò dicendomi che Dio non vuole la nostra infelicità e, dunque, che non mi avrebbe chiesto qualcosa che mi avrebbe reso infelice. È stato un cammino lungo e lento per passare dalla mia alla sua volontà, fidandomi totalmente».


E oggi?


«Oggi sono 10 anni che sono sacerdote e posso dire che la gioia non è mai venuta meno. Nuovi orizzonti ha 210 centri, 973 équipe di servizio, cinque Cittadelle cielo nel mondo e 500.000 Cavalieri della luce. Ho vissuto missioni in Italia, in Brasile, in Bosnia Erzegovina. E attualmente vivo a Frosinone, nella nuova Cittadella cielo di accoglienza e formazione».


E con questa nuova serie de I viaggi del cuore su Rete4?


«Ora con la nuova serie in onda ogni domenica mattina su Rete4 dal 7 maggio visiteremo le bellezze artistiche presenti nei luoghi di culto e nelle mete dei pellegrinaggi, conoscendo le storie dei santi e le testimonianze di vita che incontreremo lungo ogni percorso. Il programma è realizzato dal produttore di Me Production Elio Bonsignore che ha ideato il format, da Mediaset che tiene molto al progetto, da un autore di programmi di successo come Antonio Sellitto, dal giovane regista Matteo Ricca e da una squadra che lavora con il cuore puntando ai contenuti, alla bellezza e alla qualità. Per Dio le cose vanno fatte al meglio! E con questo programma vorrei che tutti scoprissero, com’è accaduto nella mia vita, qual è il segreto vero della gioia».


SU RETE4 I VIAGGI DEL CUORE
Da domenica 7 maggio don Davide Banzato condurrà I viaggi del cuore, in onda su Rete4 dalle 9.20 alle 10 e dalle 10.50 alle 11.30, prima e dopo la santa Messa. Banzato farà conoscere importanti testimonianze di fede mostrando anche le bellezze artistiche dei luoghi di culto. Il programma sarà visibile anche su Video.mediaset.it e Mediaset Italia, il canale internazionale visibile in oltre 80 Paesi del mondo. La prima puntata sarà dedicata a santa Rosa e a Viterbo, la città dei Papi.


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19/02/2018 09:07
 
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Durante i 10 giorni di digiuno per "scuotere le coscienze" di Palermo verso la condizione dei senzatetto è stato girato questo commovente video del missionario laico Biagio Conte



Fratel Biagio può sembrare un personaggio bizzarro, ricordo che la prima volta che lessi di lui e ne vidi le foto pensai ad una persona simpatica e sicuramente di buon cuore ma sopra le righe, poi ho capito, col tempo che è tutto tranne che un esaltato. E’ un uomo di Dio. Nel senso pieno. In questo video, che contiene l’intervista a Fra’ Biagio ripresa da Gabriele Camelo di Siamo Noi su Tv2000, si scorge la commozione, la rabbia, la frustrazione e vedendolo lì accasciato povero tra i poveri, come ha scelto di vivere, con la voce rotta e gli occhi lucidi ho davvero pensato al Cristo sofferente in bilico tra l’atto di fede e l’apostasia quando chiede “Padre, perché mi hai abbandonato?”.

Di recente Fratel Biagio aveva iniziato un digiuno di solidarietà con i senza tetto di Palermo che aveva mosso le istituzioni e il neo Presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci, a reagire: “L’appello di Biagio Conte – dichiara Musumeci – richiama le istituzioni alle proprie responsabilità. Come dice l’arcivescovo di Palermo, monsignor Corrado Lorefice, dobbiamo cominciare dagli ultimi, dalle periferie. Nei prossimi giorni incontrerò il missionario per esprimere la vicinanza del governo regionale e concordare possibili e concrete iniziative a sostegno del proprio impegno sociale”. Intanto però le sue condizioni di salute peggiorano:


Il missionario laico di Palermo, che per dieci giorni ha dormito per strada, senza cibo, per risvegliare le coscienze dei cittadini e delle istituzioni verso i poveri e gli ultimi, è dunque tornato a casa. Come si legge sul Giornale di Sicilia in un articolo di Alessandra Turrisi, fratel Biagio non sta bene, il suo corpo accusa gli effetti del lungo periodo di astensione (Giornale di Sicilia, 21 gennaio).






Fratel Biagio sta con gli ultimi, la sua missione è quella della carità e della conversione dei cuori ma qui in questo breve video girato alcuni giorni fa, mentre era in missione e digiuno tra i poveri, in cui dice candidamente “mi sento solo, solo come tanti sono soli in questa società” e ancora “non mi aspettavo dopo tanti anni di operato, trovare ancora una società così deteriorata, così malata!” si sente il peso di una missione tra i duri di cuore, lo scoramento. “Io sempre ho creduto ad un mondo migliore. Perché chi ha non deve aiutare chi non ha?”. Poi ricorda, e la voce si rompe dal pianto, la triste fine di Giuseppe, 57 anni, morto nonostante l’intervento suo e della missione a causa degli stenti “Dopo tanti anni devo ancora vedere, questa società in cui si muore di indifferenza, nel freddo, nell’assenza della casa?”. “Dio è nel sofferente, per questo non si vede!“. Guardate e ascoltate le parole di Fratel Biagio, ne vale la pena… 
[Modificato da Credente 20/04/2018 15:53]
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20/04/2018 15:51
 
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Un “genio del computer”, una “ragazza popolare” e un “bel cervello”


Quando si leggono le vite dei santi, a volte si può rimanere scoraggiati perché non se ne trova neanche uno che ci assomigli anche solo lontanamente. Può sembrare che solo sacerdoti, suore e monaci possano diventare santi.


Nulla, però, è più lontano dalla verità, come sottolinea chiaramente Papa Francesco nella sua esortazione Gaudete et exsultate:



Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova.



I giovani in particolare sono in grado di diventare santi, anche se spesso pensiamo che sia impossibile. Il loro zelo e la loro energia, se convogliati nella direzione giusta, possono cambiare il mondo.


Ecco tre adolescenti che provano come la santità sia possibile per chiunque e come Dio usa i doni e i talenti giovanili per la sua maggior gloria.


<font size="5"><strong>Bl. Chiara Badano</strong>Badano was a popular girl in her class with lots of friends. She frequently played sports, sang, danced and stayed out late with friends. She was paralyzed at 17 and offered everything to God, saying, “For you, Jesus, if you want it, I want it too!” She died of cancer at 18 with the words, "Goodbye. Be happy because I’m happy.”</font>

Beata Chiara Badano


Chiara era una ragazza popolare con molti amici. Amava praticare sport, cantare, ballare e uscire con i suoi coetanei. A 17 anni è rimasta paralizzata e ha offerto tutto a Dio, dicendo: “Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io”. È morta di cancro a 18 anni dicendo: “Siate felici perché io lo sono”.


CarloAcutis.com
<font size="5"><strong>Servant of God Carlo Acutis</strong>Acutis loved computers and used them to spread the faith. One of his most significant computer ventures was cataloguing all the Eucharistic miracles of the world. He said, “The more Eucharist we receive, the more we will become like Jesus, so that on this earth we will have a foretaste of Heaven.” He died of leukemia at age 15.</font>

Servo di Dio Carlo Acutis


Carlo amava l’informatica e usava il computer per diffondere la fede. Una delle sue esperienze informatiche più significative è stata la catalogazione di tutti i miracoli eucaristici del mondo. Diceva: “Più Eucaristie riceveremo e più diventeremo simili a Gesù e già su questa terra pregusteremo il Paradiso”. È morto di leucemia a 15 anni.

Serva di Dio Anna Zelíková

Anna era una semplice adolescente che amava teneramente Gesù. Ha scritto: “La vera bellezza è nascosta nella fedeltà nelle piccole cose. Ho sempre desiderato compiere gesti d’amore grandi ed eroici, ma quando ho visto che non ne ero capace ne sono rimasta addolorata. Ora trovo grande eroismo proprio nelle piccole cose, e quindi non ho il minimo rimpianto per il fatto di poter fare o meno qualcosa”. È morta di tubercolosi a 17 anni.


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15/09/2018 18:36
 
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Palermo: la missione di Biagio

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Palermo: la missione di Biagio



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Nella mensa della Missione di Speranza e Carità sono pronti ad accogliere il 15 settembre Papa Francesco. Che incontrerà fratel Biagio Conte e gli ospiti di questo luogo dove nessuno è straniero

Di ALESSANDRA TURRISI – La cattedrale dei poveri ha una macina come altare, un rotolo di marmo per proclamare la Scrittura, un torchio come basamento per il crocifisso del Madagascar, le due mani di Cristo che si aprono nell’abside per diventare tabernacolo. La cattedrale dei poveri sorge in via Decollati, sulle sponde dell’Oreto, dove da anni la Missione di Speranza e Carità fondata da Biagio Conte accoglie circa 700 migranti di ogni provenienza geografica. In un capannone dell’ex caserma aeronautica abbandonata dove non c’era neppure il tetto, ora ci sono il soffitto ligneo, il pavimento di marmo, otto tele con la vita di Gesù dipinte da Bekir, tunisino musulmano ex ospite della Missione, la Via Crucis scolpita da Nanà del Ghana, i mosaici realizzati dai ragazzi con la sindrome di Down di Comiso, le opere di Misericordia nelle vetrate che raccontano che nessuno è straniero nella chiesa consacrata come “Casa di preghiera per tutti i popoli” e diventata una delle quattro Porte sante della diocesi di Palermo in occasione del Giubileo della Misericordia.



È proprio Bekir, 48 anni, a dare in poche parole il senso di questo luogo. Il primo incontro è accaduto alla fine degli anni Novanta quando, dopo alcuni problemi con la giustizia e una condanna, è riuscito a scontare proprio all’interno della Missione la pena alternativa al carcere.


«Da subito mi colpì un fatto – racconta -: io ero musulmano, ma sono stato accolto con generosità da molti cristiani presenti, che non facevano troppo caso ai guai che avevo combinato in precedenza. Fratel Biagio poi mi chiese cosa sapevo fare e io risposi che ero pittore». Bekir ha dipinto di tutto, dalle ringhiere alle pareti. «Sono rimasto alla Missione per otto anni, finché non sono tornato di nuovo a essere un libero cittadino. Ma nel frattempo la mia vita era radicalmente cambiata; avevo assaggiato il sapore dell’accoglienza, dell’amicizia gratuita, la possibilità di sentirmi prezioso per qualcuno».


Come una vera città, la Missione di via Decollati ha un viale alberato, la chiesa, i padiglioni in cui dormire, una piccola infermeria, un panificio che sforna 220 chili di pane, una lavanderia, un laboratorio di falegnameria e uno di carpenteria, dove si riparano porte, finestre e si realizzano arredi. C’è anche un ospedaletto in costruzione, che da solo offre il senso della Missione: un cartello recita “Progetto finanziato dalla Provvidenza: da tutti i cittadini di buona volontà”. Ecco chi ha contribuito a mettere pietra su pietra: istituzioni e semplici cittadini, grandi aziende e povera gente, professionisti che hanno tolto giacca e cravatta e aiutato a rendere la Missione un diamante bello e prezioso. Già dalle prime ore del mattino il centro delle attività in via Decollati è la cucina, attigua all’enorme sala mensa donata da Enel Cuore.


È lì che il 15 settembre Papa Francesco siederà a pranzo con una rappresentanza degli ospiti della Missione, in occasione dell’attesa visita a Palermo per il 25° anniversario del martirio di don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia.


«Attenzione, però, la Missione non è frutto solo delle mie capacità, ma c’è qualcosa di prezioso che accade dall’alto; non si vede a occhio nudo, ma si sente, si percepisce, si vive. Questa è la forza del buon Dio che muove la tua e la nostra volontà, la tenacia, la pazienza, la speranza» ripete incessantemente Biagio Conte, il missionario laico che da oltre 25 anni accoglie migliaia di “fratelli ultimi” – chi vive ai margini, chi non ha più nulla – donando loro un’altra occasione. È un lungo percorso quello che lo ha portato a mettere in piedi una realtà di accoglienza che oggi ospita circa mille persone, in tre strutture attorno alla Stazione centrale di Palermo, dove tutto cominciò all’inizio degli anni Novanta, quando il giovane figlio di imprenditori entrò in crisi e sentì dentro di sé la chiamata a vivere povero con i poveri.


La storia di Biagio si incrocia con quella di tanti personaggi palermitani. Anche con don Puglisi, proprio il giorno in cui il parroco di Brancaccio – oggi beato – è stato ucciso. La mattina del 15 settembre 1993 si ritrovarono in Comune per perorare due cause diverse in difesa dei piccoli e di chi è in difficoltà. Don Pino chiedeva la scuola media per Brancaccio; Biagio chiedeva l’utilizzo del locale di via Archirafi conteso da Comune e Asl, per realizzare la Missione. «All’uscita ci salutammo e io gli chiesi di pregare per me», ricorda fratel Biagio.


Non ci sono ansia e premura nei gesti, nelle parole, nelle azioni di Biagio Conte, così come in quelli di padre Pino Vitrano, delle sorelle e dei fratelli volontari che condividono l’amore preferenziale per gli “ultimi”. Non c’è fretta, non c’è attivismo, perché tutto parte dall’ascolto della Parola, dalla preghiera e dalla partecipazione all’eucaristia quotidiana. Da questo nutrimento spirituale scaturiva anche la carità operosa di una santa come Madre Teresa di Calcutta. E alla Missione di Speranza e Carità non è diverso. Fratel Biagio, col saio verde e il capo coperto, ascolta tutti coloro che bussano a quella porta, uno per uno. Li fissa con i suoi occhi azzurri e trova per ciascuno una preghiera, una frase, un passo del Vangelo, una parola di conforto, che diventa poi aiuto concreto.


Non solo Palermo, però. Biagio Conte è partito in pellegrinaggio, con la croce sulle spalle, lungo le strade della Francia per portare un messaggio di pace, amore e conversione. Ha attraversato prima tutta l’Italia, ha incontrato Papa Francesco. Poi è tornato a Palermo e, nel gennaio scorso, ha coinvolto l’intera città in dieci lunghissimi giorni di digiuno sotto il colonnato delle Poste centrali di via Roma, seguiti da un intenso periodo di preghiera in montagna, per tentare di sensibilizzare le coscienze di ogni cittadino e di ogni istituzione perché i poveri, i senzatetto, i disoccupati siano al centro dell’azione personale e politica di ciascuno. Un messaggio diretto a tutti: «Non adeguarsi al ritmo di una società consumistica che rende schiavi e che aumenta l’egoismo e l’indifferenza verso il prossimo soprattutto quello più sofferente».

fonte: https://www.mondoemissione.it/agosto-settembre-2018/palermo-la-missione-biagio/


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09/12/2018 18:34
 
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Non era nemmeno battezzata e oggi è una suora di clausura!



Il Signore si manifesta nella vita di ciascuno di noi nei momenti più improbabili, nelle situazioni più insolite. Anche per Clara Florencia Pavito è accaduto così come racconta Credere. Classe 1979, nata a Buones Aires, arriva in Italia a 21 anni per studiare lingue all’Università La Sapienza di Roma. La sua famiglia di origini italiane non crede in Dio e non la battezza per lasciarla libera di scegliere da grande.

L’amore per l’arte e il fidanzamento

A Roma si dedica allo studio, si innamora dell’arte e di un ragazzocon il quale comincia a costruire la sua vita. Il tempo scorre così, senza che apparentemente nulli turbi i suoi piani. Eppure accade qualcosa: un fuoriprogramma che scombussola la sua esistenza.

Galeotto fu un fuoriprogramma a San Giovanni Rotondo

Di ritorno da una vacanza estiva con i genitori, a causa di una serie di pericolosi incendi, Clara e la sua famiglia sono costretti a cambiare tragitto e si recano a San Giovanni Rotondo per passare la notte. La ragazza è curiosa di visitare i luoghi in cui visse il famoso frate di Pietrelcina:

«Dopo aver sostato davanti alla teca con il corpo dell’allora beato frate più con curiosità che con devozione, sono passata al negozio dei souvenir per cercare qualcosa da leggere» (Ibidem).

Il Vangelo tascabile

Non resta folgorata, non vive nessuna emozione particolare, nel suo cuore non nasce una devozione istantanea ma le viene voglia di leggere qualcosa e cerca un libro al negozio di souvenir. L’unico testo che trova è un Vangelo tascabile, lo compra, “meglio di niente” forse avrà pensato. Il viaggio di ritorno in macchina lo passa immersa negli Atti degli apostoliperché Clara comincia a leggere anche il Vangelo come fa di solito con i libri: al contrario, partendo dalla fine. San Paolo la colpisce e le fa pensare che essere santi è bello e possibile:

«Se lui che era un iroso, un fanatico e un violento è diventato santo, voglio diventare anch’io santa come lui» (Ibidem)

Voglio battezzarmi

La prima cosa che fa quando arriva a Roma è chiedere il Battesimo e nella sua ingenuità crede di poterlo ricevere immediatamente:

«Negli Atti degli apostoli avevo letto l’episodio di Filippo che battezza un ministro etiope. “Ecco, qui c’è dell’acqua: che cosa m’impedisce di essere battezzato?”, aveva detto l’eunuco. Credevo davvero che anch’io sarei stata immediatamente battezzata come lui…» (Credere).

La fine della convivenza

Da quel giorno comincia il suo cammino di conversione, la sua vita cambia poco a poco ma drasticamente: inizia il catecumenato per venire battezzata, interrompe la storia e la convivenza con il suo fidanzato, comincia a chiedersi quale sia il senso della vita e più si avvicina a Gesù più tutto diventa chiaro.

 

«Quando c’è Dio in una relazione la verità di noi stessi viene alla luce e i nostri desideri profondi emergono con forza mettendo in discussione le nostre scelte quotidiane. Man mano che mi avvicinavo a Cristo queste scelte diventavano coerenti con la fede che mi accingevo ad abbracciare, così, pur nel dolore della separazione, ci siamo lasciati. È stato un tempo di maggiore preghiera e abbandono alla volontà di Dio che diventava provvidenza, presenza, Parola e alleanza» (Ibidem).

Il Battesimo nella notte di Pasqua

Nella notte di Pasqua del 2009 riceve i sacramenti e per la prima volta celebra la risurrezione di Cristo.

«Da quella notte di Pasqua la mia vita è cambiata radicalmente e ogni volta so che posso tornare a quel fonte dove troverò lui che mi restituisce l’immagine originaria di una figlia amata da sempre».

Il monastero di clausura delle clarisse

Nel settembre del 2012 entra nel monastero delle clarisse di Terni dopo aver frequentato un cammino di fede dai frati a Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Nel 2016 professa i voti provvisori davanti alla mamma Lilian e la nonna Olga di 87 anni venute per l’occasione da Buenos Aires e prende il nome di Suor Clara Grazia e nel 2019 pronuncerà quelli definitivi.

Quello che il Signore aveva in serbo per lei era molto più grande e sorprendente di ciò che la giovane Clara aveva immaginato. Oggi che è sposa di Cristo, prega insieme alle sue consorelle per la Chiesa e il mondo intero e soprattutto per i giovani senza fede. Davvero le nostre vie non sono le Sue vie che sono sempre più feconde e più belle!


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09/12/2018 18:37
 
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A 22 anni entra in clausura: rinuncia e sacrificio? Dio ti dà il centuplo!


Lucía López de Aragón Olesti
 



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Libertà e clausura. Un ossimoro per molti, non per chi ha questa vocazione. Lo ha testimoniato una giovane ragazza di Madrid che poco tempo fa è entrata nel monastero di Avila


Non c’è nulla di più scandalizzante per il mondo di una bella e giovane ragazza che non solo decide di dare la vita a Cristo, ma che sceglie di entrare in un monastero di clausura. E’ quello che ha fatto pochi giorni fa Lucia Lopez de Aragon Olesti, una giovanissima di Madrid di 22 anni, lasciando gli studi, la carriera e la sua vita quotidiana per entrare nel convento carmelitano di San José ad Avila, il primo monastero fondato da Santa Teresa.


Il 22 agosto scorso, infatti, Lucia ha iniziato la sua forma vocazionale e ha voluto spiegare agli amici e alla sua generazione perché si è lasciata alle spalle la sua vecchia vita. Non pretende di venire capita e, forse, non lo ritiene indispensabile. «Voglio essere una monaca di clausura, e non un altro tipo di religiosa, perché è lì che Dio mi ha chiamato. Abbiamo bisogno di ogni tipo di vocazione, anche la chiusura», ha spiegato in una video-intervista. «Per me è un modo di rispondere con la stessa radicalità con cui Cristo è morto e ha dato se stesso per noi».


Molti l’hanno avvertita che potrebbe sbagliarsi. «Mi importa del qui e dell’ora», lei risponde. Né ha paura di lasciare la sua vita precedente. «So che all’inizio mi costerà, ma sono convinta che Dio mi renderà felice nel convento, quindi non ho timori». Da quando ha scoperto questa vocazione su di sé «mi sono resa conto della pace così profonda che Dio mette nel tuo cuore quando accetti la Sua volontà». La prima volta che ha percepito la chiamata è stato durante la Giornata Mondiale della Gioventù nel 2016, soltanto due anni fa. «Fui presa dal panico, quella vita non mi ispirava affatto». Tuttavia, dopo aver a lungo riflettuto con il suo confessore spirituale se questa era davvero la strada che Dio le indicava, «ogni giorno dicevo di sì, dei piccoli sì, e la paura scomparve poco a poco lasciando spazio ad una grande pace nel mio cuore».


Lucia ha anche affrontato i pregiudizi di molti, anche di tanti cattolici, verso questa scelta. Ma come? Ti chiudi in quattro mura, tutta la vita? «Molte persone credono che la clausura è solo rinuncia e sacrificio, quando in realtà Dio ti dà il centuplo. C’è molto più da guadagnare e molta più gioia da vivere rispetto a quello a cui devo rinunciare». Per questo, dice, «non mi costa nulla lasciare vestiti, trucco o internet, perché l’amore che Dio ti trasmette è davvero molto più grande»Privarsi della libertà? Affatto, «non sono limitata nella libertà per l’essere rinchiusa, perché la libertà non finisce quando sei tra quattro mura. Quando sei nella tua stanza e devi studiare, non è che hai meno libertà. Semplicemente stai facendo quel che devi fare».


La clausura è una vita di preghiera, innanzitutto. Ritenuta legittimamente inutile da tanti, ma non dalla Chiesa. Papa Francesco pochi giorni fa, incontrando le suore benedettine, ha ricordato che «il motto “Ora et labora” pone la preghiera al centro della vostra vita. Ogni giorno, la vostra preghiera arricchisce, per così dire, il “respiro” della Chiesa. Il valore della vostra preghiera non si può calcolare, ma è sicuramente un regalo preziosissimo. Dio ascolta sempre le preghiere dei cuori umili e pieni di compassione». Preghiera, lavoro ma anche comunità, compagnia con le consorelle.


 

Ma, forse, lo scandalo e l’incomprensione maggiore nasce dal concetto di libertà, da tutti (o quasi), concepito come possibilità di fare quel che si vuole, assenza di limiti o legami, indipendenza totale. Ed è vero il contrario. Innanzitutto lo dimostra la tristezza e l’insoddisfazione, perenne, di chi ha “libertà” di far tutto e vuole sempre di più. E non gli basta mai. «Si, però, liberi da che cosa?». La vera libertà è, paradossalmente, una dipendenzada Colui che risponde al significato dell’esistenza. La vera libertà è il non dover più scegliere, perché si è già trovato quel di cui si ha davvero bisogno. Tale dipendenza la si può vivere fuori o dentro al monastero, dipende dalla forma vocazionale di ognuno. Ma, come ha detto la badessa Maria Cecilia, del monastero di clausura delle benedettine di Fermo (Marche): «Nel Monastero c’è quanto è necessario, non di più! “Il di più” ci distrae da Dio». La fonte della libertà.

fonte Aleteia


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26/09/2019 22:07
 
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La storia di Madre Elvira:
mio padre alcolizzato è stato la mia “fortuna”

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La religiosa racconta la sua vocazione: "Per tanto tempo mi sono vergognata della mia famiglia.
Ora non più. Perché mi ha insegnato la concretezza della vita"

«Il mio papà è stato il primo drogato che la Divina Provvidenza mi ha messo tra le braccia». E’ l’incredibile storia di Suor Elvira Petrozzi della Comunità “Il cenacolo“, che prende forma durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il 1940 e il 1945, quando con la famiglia si è trasferita da Sora, in provincia di Frosinone, ad Alessandria. Il padre era impegnato sul fronte di guerra, mentre la madre, tra molte difficoltà, doveva badare ai sette figli.

Ma la situazione a casa era ancora più esplosiva a causa dei comportamenti paterni: l’alcool stava iniziando a devastare l’uomo. Man mano che la guerra volgeva al termine, la famiglia di Madre Elvira viveva sempre peggio la situazione di normalità.

L’alcool

La dipendenza dall’alcool del padre peggiorava sempre più. Quando tornava dal campo di battaglia, e poi dopo il conflitto, quando era alla ricerca di un lavoro per campare i suoi sette figli, l’alcolismo gli creò problemi.

 

«Qualsiasi occupazione durava poco a causa dell’alcool – ricorda Madre Elvira – Io mi vergognavo, all’epoca, di questa condizione di mio padre. Eppure, nel tempo, ho iniziato a guardare questa situazione in modo diverso. Se mio padre fosse stato affidabile, perbene, che pensava alla famiglia, forse non sarei diventata quella che sono ora. Mio padre mi ha insegnato la povertà, l’umiltà».

“La concretezza della vita”

Madre Elvira ricorda un episodio in particolare: «Papà mi veniva a prendere a scuola con la bici. I bambini della terza elementare mi facevano notare che era ancora una volta ubriaco. Io abbassavo la testa e andavo via. Per tanto tempo sono stata male per la condizione della mia famiglia. Ora non più. Mio padre mi ha insegnato la concretezza della vita. Anche quando aveva bisogno delle sigarette e in piena mi svegliava, fuori controllo di sé, e mi chiedeva di andarle a comprare, io non potevo dire “no”. Avevo tanta paura perché dovevo passare tra luoghi pericolosi, boscaglia, tanto più in inverno quando era ancora più buio e freddo. In quel modo, però, mio padre mi ha formato all’ubbidienza, al sacrificio. E’ stato il primo drogato che la Divina Provvidenza mi ha dato tra le braccia: ho dovuto fargli di tutto».

“Perdonate la vostra famiglia”

Da qui un appello accorato della religiosa: «Perdonate la vostra famiglia, se in passato ha fatto qualcosa che vi ha umiliati, o se non siete stati apprezzati. Perché tutto quello che è avvenuto quando eravamo piccoli, se oggi siamo qua, è perché è stato trasformato: dalle tenebre alle luce, e ci ha insegnato a vivere l’amore».


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19/02/2020 19:33
 
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UN MEDICO CRISTIANO COMMUOVE MILIONI DI CINESI. E’ IL NUOVO EROE NAZIONALE INDIGESTO AL REGIME COMUNISTA




Sebbene ignorati, disprezzati, perseguitati e traditi (anzitutto dall’attuale Vaticano) i cristiani continuano ad essere luce laddove più buie sono le tenebre. Come nella Cina di questi giorni, in cui al totalitarismo comunista si è aggiunta la micidiale epidemia di coronavirus.


È il caso del medico cinese Li Wen Liang che per primo lanciò l’allarmeper il coronavirus e fu silenziato dalla polizia del regime. Dopo le accuse della polizia, una volta che l’epidemia è diventata evidente a tutti, è stato scagionato, ma è morto lui stesso, il 6 febbraio, per aver subito il contagio curando i malati.


La sua tragica vicenda ha provocato un’onda di commozione popolare che ha toccato milioni di persone. E, nonostante la censura, milioni di cinesi in questi giorni hanno manifestato anche la loro indignazione per la sua sorte.Questo medico cristiano è diventato un eroe nazionale.


Li, 34 anni, lavorava come oculista in un ospedale di Wuhan, la città dove è divampata l’epidemia del coronavirus. Per primo, a dicembre scorso, si rese conto di qualcosa di anomalo curando dei malati gravi di polmonite (dalle cause ignote) che avevano la congiuntivite. Considerando i sintomi e la precedente epidemia di Sars ritenne che potesse trattarsi di un nuovo coronavirus e avanzò questa ipotesi in un gruppo chat, ovviamente controllato dalla polizia.


Le autorità invece di allertarsi per verificare quell’allarme (erano ancora in tempo a fermare il contagio), accusarono il medico di diffondere notizie false che turbavano l’ordine pubblico.


Ci vollero alcune settimane perché il regime riconoscesse l’esistenza dell’epidemia, scagionando Li dalle accuse.


Il medico tornò a lavoro al suo ospedale e riprese a curare i malati mentre divampava il contagio cosicché lui stesso ne fu colpito ed è morto il 6 febbraio scorso. Perfino la notizia della sua morte è stata inizialmente censurata (con un tira e molla di conferme e smentite).


Sui social, prima di venire cancellati dalla polizia, l’hashtag “E’ morto il dott. Li Wenliang” ha avuto 670 milioni di visualizzazioni e “Li Wenliang è morto” altri 230 milioni. In tutto 900 milioni.


Sebbene censurati sugli stessi social network sono comparsi migliaia di post che commentavano la vicenda di Li sotto un hashtag che (più o meno) significa “Vogliamo libertà di parola” ed erano critiche al regime per la sua gestione della grave crisi. Così sono scattate altre censure, ma l’indignazione tracima egualmente per altre vie.


La storia di Li ha impressionato e sdegnato talmente tanto l’opinione pubblica che il governo di Pechino, cercando di placare la rabbia, ha annunciato un’indagine sul suo caso per verificare l’arbitrarietà delle accuse della polizia contro di lui.


Alcuni accademici – scrive l’agenzia missionaria Asianews – hanno lanciato un appello: “Non lasciamo che Li Wen Liang sia morto invano”. E’ una lettera aperta che circola sul web ed è condivisa da milioni di persone. In questo appello si chiede “il rispetto della Costituzione, che (in teoria) garantisce la libertà di parola”.


Quindi si chiede l’abolizione delle leggi che impediscono tale libertà e si propone che il 6 febbraio – data della morte di Li – sia istituita la “Giornata della libertà di parola”. Infine si chiede che il governo chieda pubblicamente scusa “per non aver ascoltato, anzi per aver soffocato la voce del dottor Li, definito ‘un martire’ della verità”.


Asianews cita – tra i firmatari – il prof. Tang Yiming, capo della Facoltà dei classici cinesi all’Università normale di Wuhan: “Se le parole del dott. Li non fossero state trattate come dicerie, se ad ogni cittadino fosse garantito il diritto a dire la verità, non saremmo in questo disastro, non avremmo una catastrofe nazionale con contraccolpi internazionali”.


Un altro dei firmatari, Zhang Qianfan, professore di diritto alla Beijing University, ha affermato che la morte di Li Wenliang “non deve spaventarci, ma incoraggiarci a parlare chiaro… Se sempre più persone rimangono in silenzio per paura, la morte verrà ancora più presto. Tutti dovremmo dire no alla repressione della libertà di parola da parte del regime”.


Ciò che ha colpito e commosso è anche l’eroismo e l’abnegazione del giovane medico di 34 anni, sposato, con un figlio di cinque anni e la moglie incinta all’ottavo mese e anche lei contagiata.


Perché, nonostante l’ottusità del regime, lui è tornato in ospedale dove ha voluto prendersi cura dei malati per arginare l’epidemia, ben consapevole che questo lo avrebbe esposto a un sicuro contagio. Come infatti è avvenuto. “Il dottor Li Wen” scrive un sito cattolico “ha scelto di donare la sua vita per cercare di salvare quella di altri”.


All’origine di questa scelta eroica c’è la sua fede cristiana che traspare in uno scritto che ha lasciato, una sorta di testamento spirituale. Vi si legge:


“Non voglio essere un eroe. Ho ancora i miei genitori, i miei figli, la mia moglie incinta che sta per partorire e molti dei miei pazienti nel reparto (…). Quando questa battaglia sarà finita, guarderò il cielo, con lacrime che sgorgheranno come la pioggia”.


Parla dei malati, “tante persone innocenti” che “anche se stanno morendo,mi guardano sempre negli occhi, con la loro speranza di vita. Chi avrebbe mai capito che stavo per morire?


“La mia anima è in paradiso”, scrive Li, mentre “il mio stesso corpo giace sul letto bianco”. Poi le sue domande struggenti: “Dove sono i miei genitori? E  la mia cara moglie?”


Parla della sua nuova casa a Wuhan, “per la quale devo ancora pagare il mutuo ogni mese. Come posso rinunciare? Per i miei genitori perdere il figlio quanto deve essere triste? La mia dolce moglie senza suo marito, come può affrontare le vicissitudini del suo futuro? (…) Arrivederci, miei cari. Addio, Wuhan, mia città natale. Spero che, dopo il disastro, ti ricorderai che qualcuno ha provato a farti sapere la verità il prima possibile. Spero che, dopo il disastro, imparerai cosa significa essere giusti. Mai più brave persone dovrebbero soffrire di paura senza fine e tristezza profonda e disperata.


Il dottore Li Wen Liang conclude il suo toccante scritto con una citazione di san Paolo: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora c’è in serbo per me la corona di giustizia del Signore” (2Tm 4, 7-8).


ANtonio Socci




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Questa è la vita: che conoscano Te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo. Gv.17,3
 
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