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COMMENTO DELLA LETTERA AI COLOSSESI

Ultimo Aggiornamento: 20/10/2018 12:00
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28/11/2011 12:12
 
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Rivestitevi dell’uomo nuovo!
(3,5-17)

5Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, 6cose tutte che attirano l’ira di Dio su coloro che disobbediscono. 7Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. 8Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. 9Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni 10e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore. 11Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. 12Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; 13sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. 15E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! 16La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre.

Poiché i credenti nel battesimo sono morti con Cristo (2,12-13; 3,3), questo è il loro dovere: far morire le loro membra terrene (v.5). Lo svestimento del corpo della carne (2,11) avviene nello spogliarsi dell’uomo vecchio con le sue opere (3,9). Ma ad esso segue necessariamente il rivestirsi dell’uomo nuovo, che viene rinnovato per la conoscenza, ad immagine di colui che l’ha creato (v.10).

L’esortazione prosegue spiegando positivamente che cosa vuol dire rivestirsi dell’uomo nuovo. Perciò dopo due cataloghi di vizi (vv.5.8) viene esposto un catalogo di virtù e un’esortazione alla sopportazione e al perdono (vv.12-13). Nell’agàpe la vita della comunità giunge alla sua forma perfetta (v.14). La vita della comunità è descritta come pace e celebrazione di ringraziamento (v.15), accoglimento e testimonianza della parola nell’insegnamento e nel canto (v.16) e anche come attività nel nome del Signore Gesù (v.17).

v. 5. Della morte avvenuta nel battesimo con Cristo ognuno deve ora appropriarsi facendo morire le membra terrene. L’uomo agisce con le sue membra sottomettendole o all’hamartìa (= il peccato) come strumenti di ingiustizia, o a Dio come strumenti di giustizia per Dio (Rm 6,13). Dalla scelta del proprio signore dipende se le membra sono schiave del peccato o serve obbedienti della giustizia di Dio. Non si esorta a uccidere le membra corporee dell’uomo, ma i cinque vizi che sono enumerati e operano nelle membra dell’uomo. Quindi solo attraverso la morte dei vizi, in cui muore la nostra vecchia identità, può aprirsi la via alla nuova vita.

Accanto ai peccati carnali e alla concupiscenza malvagia, la pleonexìa (= brama di possedere) è indicata come un peccato di particolare gravità. La cupidigia e la brama di possesso corrompono il cuore dell’uomo, lo allontanano da Dio e lo gettano in braccio all’idolatria.

La cupidigia è idolatria. L’uomo può servire soltanto a un padrone: a Dio o a mammona (Mt 6,24). Se il suo cuore è attaccato al possesso, allora adora gli idoli e rinnega l’unico Dio.

v. 6. Come più volte, alla fine dei cataloghi di vizi, si accenna al futuro giudizio (1Ts 4,3-6; 1Cor 5,10-11; Rm 1,18-32), così anche qui si ricorda che, a causa delle azioni malvage degli uomini, sopraggiunge l’ira del giudizio di Dio.

v. 7. Un tempo anche i credenti avevano vissuto ignobilmente in questi vizi ed erano morti nei loro peccati (2,3; Ef 2,1-2). Ma la vita passata è stata eliminata con la morte, avvenuta nel battesimo con Cristo.

Perciò al posto del passato è subentrato il presente, che d’ora innanzi è il solo valido.

v. 8. I vizi da ripudiare sono elencati in un catalogo di stampo tradizionale. Con essi deve sparire qualsiasi specie di malvagità che rovina la convivenza umana (1Cor 5,8; 14,20; Rm 1,29; Ef 4,31). I sentimenti cattivi si manifestano nelle parole cattive.

v. 9. Nella comunità cristiana solo la verità ha la parola. Dio non può mentire (Eb 6,18); perciò anche il cristiano non deve mentire (Gal 1,20; 2Cor 11,31; Rm 9,1; 1Tim 2,7; ecc.). Nel contatto quotidiano con tutti bisogna conformarsi all’imperativo della veridicità assoluta.

L’immagine dello spogliarsi e del rivestirsi di un indumento era diffusa nel mondo antico e fu usata nelle religioni mistiche per spiegare l’evento che si operava con l’iniziazione. Va deposto quell’uomo vecchio il quale non solo aderisce come un vestito all’uomo, ma è l’uomo stesso. Egli deve essere abbandonato alla morte perché "il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui" (Rm 6,6). Poiché egli è già morto deve ora essere eliminato col suo modo di agire e di comportarsi che era descritto nei cataloghi dei vizi. "Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Rm 13,14).

v. 10. Al posto dell’uomo vecchio bisogna indossare l’uomo nuovo che è fatto a immagine del suo Creatore. L’immagine di Dio è Cristo (1,15). La nuova creazione, iniziata nel battesimo, si attua così in una perenne novità: "il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno" (2Cor 4,16), La conoscenza a cui l’uomo nuovo perviene, consiste nel comprendere la volontà di Dio (1,9). L’uomo vecchio non possedeva questa conoscenza, l’uomo nuovo invece deve vivere conforme alla volontà del Creatore.

v. 11. Nella comunità di Gesù Cristo è eliminato ciò che nel mondo è causa di divisione tra gli uomini. "Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). "Tutti noi siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, giudei o greci, schiavi o liberi" (1Cor 12,13). Con le parole "ma tutto e in tutti è Cristo" si afferma che la regalità di Cristo dischiude la pienezza della salvezza, così che Cristo è tutto in tutti. La sua regalità abbraccia ogni cosa (1,15-20). Perciò l’unità della nuova umanità può fondarsi unicamente in lui.

v. 12. La comunità è considerata come il popolo eletto, santo e amato da Dio. Come sopra sono stati menzionati per due volte cinque vizi, che devono scomparire con l’uomo vecchio (vv. 5.8), così ora vengono enumerate cinque virtù di cui bisogna rivestirsi. I cinque concetti che descrivono l’attività dell’uomo nuovo servono tutti, in altri passi, a designare l’agire di Dio o di Cristo. Nel rivestirsi delle virtù, che senza eccezione sono frutto dello Spirito, si manifesta quindi il rinnovamento che l’uomo nuovo, creato da Dio, contemporaneamente sperimenta e realizza.

Al primo posto è nominata la misericordia amorosa, al secondo la bontà, nella quale avviene l’incontro con gli uomini (Gal 5,22; 2Cor 6,6; Ef 2,7). Segue l’umiltà, nella quale l’uomo fa attenzione all’altro e nessuno pensa alle cose proprie ma a quelle altrui (Fil 2,3-4). Nella mitezza uno soccorre l’altro nel momento giusto (Gal 6,1). Nella longaminità si può pazientare a lungo e usare sopportazione (1,11).

Tutti e cinque i concetti mostrano come debba comportarsi il cristiano nei riguardi del prossimo. Deve rinunciare alla propria autoaffermazione e alla difesa dei propri privilegi, e aprirsi completamente al prossimo che necessita della sua comprensiva disponibilità e della sua azione soccorritrice.

v. 13. Qui non si allude ad una precisa situazione della comunità, ma viene espresso un ammonimento generico, che vale per qualsiasi situazione della vita comunitaria: sopportarsi a vicenda, concedere il perdono quando uno abbia rinfacciato qualcosa a un altro. Perdonarsi a vicenda come il Signore ha perdonato. L’agire del Signore è il fondamento e la direttiva dell’agire dei credenti. Col battesimo Dio concede il perdono dei peccati (2,13). Il perdono ricevuto nel battesimo deve rendere capaci di non serbare rancore e di non fare i conti col prossimo quando c’è motivo di recriminazione e di lagnanza.

v. 14. L’amore è il legame che conduce alla perfezione. Esso lega i membri della comunità e porta alla perfezione la comunione dell’unico corpo di Cristo.

v. 15. L’esortazione si conclude con un augurio di pace. Questa pace è chiamata, con singolare espressione, "la pace di Cristo". In Ef 2,14 sta scritto: "Egli (Cristo) è la nostra pace". Tutto l’uomo deve essere afferrato dalla pace di Cristo, perché "la pace di Cristo" esprime proprio l’ambito in cui il battezzato esiste come uomo nuovo. La chiamata, rivolta ai credenti con la predicazione del Vangelo, li ha introdotti in questo spazio di pace. Essi vivono "in un solo corpo", cioè nella chiesa che è il corpo di Cristo. È lì il luogo della regalità del Signore glorificato (1,18.24).

La comunità deve esprimere riconoscenza professando la sua fede in Dio che l’ha liberata dal potere delle tenebre e l’ha trasferita nello spazio della regalità del suo diletto Figlio (1,12-13). Nell’ambito della chiesa deve essere celebrata l’eucaristia, intonando l’inno di lode, col quale Cristo è celebrato come immagine del Dio invisibile e Signore su tutto (1,15-20).

v. 16. Il giusto ringraziamento avviene nell’ascolto e nella meditazione della parola di Cristo e nei cantici intonati dalla comunità ad onore di Dio. La parola di Cristo è il Vangelo. Il suo annuncio deve trovare nella comunità il suo terreno naturale. Come la sapienza trovò dimora in Israele (Sir 24,8), così la parola di Cristo deve trovare piena cittadinanza nella comunità cristiana e svolgervi la sua attività. A questa attività della parola, la comunità deve corrispondere con la meditazione e l’interpretazione della parola nella istruzione e nell’ammonimento. L’insegnare e l’ammonire, che in 1,28 erano designati come attività dell’apostolo, non sono legati a un preciso ministero, ma esercitati dai membri della comunità, secondo i carismi loro assegnati (1Cor 12,28; 14,16). L’oggettiva comprensione della dottrina deve dimostrarsi nella pratica. Mediante la sapienza, resa operante dallo Spirito, la comunità comprende qual è la volontà di Dio (1,9-10). I tre concetti, salmi, inni e cantici non si possono distinguere in modo netto; essi descrivono, integrandosi a vicenda, la pienezza del cantico suggerito dallo Spirito. Dicendo che questo canto deve essere intonato "nei vostri cuori" si vuole indicare, con un’espressione ebraicizzante, che non soltanto la bocca deve aprirsi, ma tutto l’uomo dev’essere ripieno del cantico di ringraziamento.

v. 17. Tutto ciò che i credenti fanno, deve essere fatto nel nome del Signore Gesù, ossia nell’obbedienza al Signore. Ciò che essi dicono o fanno, deve essere una professione di fede, a parole e a fatti, nel loro Signore. In mezzo alle occupazioni quotidiane il cristiano deve prestare il "culto spirituale" (Rm 12,1-2), ascoltando e ripetendo la parola nel canto e nella preghiera, ma ancor più facendo risuonare, nel lavoro e nel contatto col prossimo, la lode di Dio. Questa lode è innalzata a Dio Padre per mezzo di Cristo. Infatti Cristo è il Signore che dà fondamento e scopo alla vita dei credenti; perciò possono glorificare il Padre nel ringraziamento solo proclamando la loro fede nel Cristo Signore che egli ha mandato (Gv 17,3).

 

Il codice domestico
(3,18-4,1)

18Voi, mogli, state sottomesse ai mariti, come si conviene nel Signore. 19Voi, mariti, amate le vostre mogli e non inaspritevi con esse. 20Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore. 21Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. 22Voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni; non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. 23Qualunque cosa facciate, fatela di cuore come per il Signore e non per gli uomini, 24sapendo che come ricompensa riceverete dal Signore l’eredità. Servite a Cristo Signore. 25Chi commette ingiustizia infatti subirà le conseguenze del torto commesso, e non v’è parzialità per nessuno.

1Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo.

Dapprima ci si rivolge alle mogli e ai mariti, poi ai figli e ai padri e infine agli schiavi e ai padroni. Si insegna l’obbedienza a coloro che devono sottostare e si ricorda ai superiori come devono comportarsi con le persone che sono affidate alle loro cure. La direttiva, per cui i subordinati devono sottomettersi, non deve essere fraintesa o distorta. Se alcuni sono tenuti all’obbedienza, gli altri sono tenuti a mettersi nei panni dei dipendenti e a lasciarsi guidare dal precetto dell’amore.

v. 18. Le mogli devono sottostare ai loro mariti. Ciò è fissato dalla tradizione. Ma la motivazione vincolante dell’ammonimento è data dalle parole "nel Signore".

Se la sostanza dell’ammonimento si collega alle regole di comportamento comunemente vigenti, qui si indica che il mantenimento dell’ordine retto deve essere osservato dai cristiani come espressione della loro fede in Cristo Signore; perché non esiste alcun settore della vita umana in cui possano vivere senza il loro Signore.

v. 19. Le mogli devono obbedire ai loro mariti; costoro però sono invitati ad amare le loro mogli. Viene loro proibito di comportarsi arrogantemente e di credersi superiori. Essi sono responsabili delle loro mogli e devono convivere con esse nell’agàpe, considerata il giusto modo di comportarsi.

Il comandamento di non trattare con arroganza o collera la moglie è l’espressione del comandamento dell’amore, che determina la condotta dei cristiani.

v. 20. Ai figli è comandato di essere in tutto obbedienti ai genitori, perché ciò è gradito al Signore. L’obbedienza dei figli viene motivata, come la sottomissione delle mogli, con l’espressione "en Kyrìo", nel Signore. Essa deve essere motivata e vissuta nella fede come obbedienza a Cristo Signore che manifesta i suoi comandi tramite l’autorità dei genitori.

v. 21. I padri devono stare attenti a non irritare o a non provocare i figli, affinché questi non si deprimano e non diventino timidi. Non è detto per quale motivo essi possano scoraggiarsi. Ai padri viene ordinato di non comandare ai figli secondo il loro insindacabile arbitrio, ma di avere un comportamento riflessivo e controllato.

v. 22. Le prime quattro proposizioni del codice domestico sono formulate con la massima stringatezza; ora, invece, rivolgendosi agli schiavi, ci si dilunga. Come potesse convivere la libertà donata nel Cristo con la servitù nella quale gli schiavi erano ancora sottomessi ai loro padroni era un problema che richiedeva una risposta (1Cor 7,21-24).

L’esortazione riguardante gli schiavi non può perciò rifarsi alla dottrina morale tradizionale, ma deve essere formulata quale insegnamento specificatamente cristiano. Agli schiavi divenuti cristiani viene detto che devono riconoscere la loro schiavitù terrena come un ordinamento loro stabilito e obbedire ai loro padroni terreni in ogni cosa. I padroni poi sono distinti dall’unico Signore al quale gli schiavi, come membri della comunità cristiana, appartengono.

L’obbedienza che gli schiavi devono prestare ai loro padroni terreni dev’essere genuina e non servendo solo perché visti. Devono obbedire con semplicità di cuore.

Il cuore, quale parte più intima dell’uomo, che determina il suo essere e il suo agire, deve essere semplice e schietto. Tutto quello che lo schiavo fa, deve avvenire nel timore di Dio. "Temere Dio" è la parola d’ordine del comportamento cristiano a cui tutti sono tenuti a conformarsi.

v. 23. La regola generale secondo cui tutto ciò che si fa in parole e in opere deve avvenire nel nome del Signore Gesù (3,17), viene ora applicata al comportamento degli schiavi. Le incombenze loro affidate devono essere eseguite con tutto il cuore, nella consapevolezza che il loro servizio è prestato al Signore, non agli uomini.

v. 24. Infatti il Signore sarà giudice di tutte le opere, anche di quelle degli schiavi. La loro ricompensa è l’eredità eterna (1,5.27; 3,1-4). Nessuno deve sciupare questo prezioso patrimonio con la disobbedienza. Perciò "Servite a Cristo Signore!" è un comandamento. Cristo è il Signore; quando lo schiavo serve fedelmente al suo padrone terreno, ubbidisce nello stesso tempo all’unico Signore di tutto e di tutti.

v. 25. Se gli schiavi mancano nei riguardi dei loro padroni, dovranno renderne conto a Dio. Davanti a Dio non c’è differenza di persona. Né i padroni saranno privilegiati, né agli schiavi sarà lecito trasgredire impunemente il comandamento di Dio.

Dio ricompensa equamente, secondo le loro azioni, gli schiavi e i padroni, che dovranno comparire davanti al suo tribunale.

4,1. Ai padroni è diretta una breve allocuzione. A quei tempi probabilmente erano pochi i cristiani che avessero degli schiavi. Perciò non era necessaria una lunga dissertazione sul comportamento dei padroni.

Non è chiesto loro di liberare gli schiavi, ma di compiere coscienziosamente i loro doveri verso di essi. Viene stigmatizzato qualsiasi abuso dei loro diritti ed è loro ingiunto di dare agli schiavi ciò che è retto e giusto. Per i cristiani il principio del diritto e dell’equità acquista un significato completamente nuovo, perché essi devono rendere conto del loro agire al Signore. Perciò i padroni sono responsabili davanti a lui di come trattano gli schiavi, perché anche sopra di essi sta il Signore in cielo. In questo modo il rapporto tra padroni e schiavi subisce un cambiamento fondamentale. Essendo gli uni e gli altri coscienti che devono obbedienza all’unico Signore, è fornito ad essi un parametro adatto per le reciproche relazioni.

Con la serie dei pacati ammonimenti compendiati in questo codice domestico, viene indicato alla comunità come ciascun cristiano, nel posto che gli è stato assegnato al momento della sua chiamata alla fede (1Cor 7,20-24), deva prestare obbedienza al Signore a cui appartiene. Come tutti sono uno in Cristo (3,11) e quindi in lui non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna (Gal 3,28; 1Cor 12,13), così tutti sono uniti e cointeressati dall’amore, che è il vertice della perfezione. Ma questa unità, fondata in Cristo, non deve essere fraintesa, come se fosse la legittimazione della situazione esistente e impedisse qualunque progresso nel cambiamento sociale.

La forza trasformatrice dell’agàpe deve annullare tutte le strutture ingiuste della società e modellare su degli schemi sempre migliori i rapporti tra gli uomini.

È antistorico fare un motivo di critica a Paolo e al cristianesimo primitivo per il fatto che non hanno predicato o imposto la liberazione degli schiavi.

Le strutture economico-sociali e gli ordinamenti giuridici esistenti non vengono annullati, ma non vengono nemmeno sanzionati come istituzioni immobili, ma sono vagliati criticamente alla luce dell’agàpe, mutati, rettificati e persino rifiutati là dove essi non servono alla realizzazione e alla pratica dell’agàpe. In questo modo ancora una volta l’agàpe risulta la norma che sta al di sopra di tutte le norme, la norma suprema della condotta cristiana.

 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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