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COMMENTO DELLA LETTERA AI FILIPPESI

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2018 18:43
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22/11/2011 12:06
 
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Saluti e benedizione
(4,21-23)

Le conclusioni delle lettere di Paolo contengono accanto alla benedizione liste di saluti, ove sono indicati di regola i destinatari e i mittenti dei saluti. Nel finale di questa lettera non ci sono nomi. La conclusione liturgica acquista così ancora più rilievo.

v. 21. Al primo posto stanno i saluti ad ogni singolo della comunità. In quanto santi essi sono in Cristo e ricevono i saluti per la loro comunione in Cristo. In secondo luogo l’apostolo trasmette i saluti dei fratelli, cioè dei suoi più vicini collaboratori senza però nominare nessuno.

v. 22. In terzo luogo abbiamo i saluti di tutti i santi, cioè dei membri della comunità locale di Efeso.

Questa consapevolezza dei cristiani di essere santi scaturisce dalla coscienza di essere uniti nella fede in Cristo. "Quelli della casa di Cesare" sono coloro che prestano servizio all’imperatore nelle diverse parti dell’impero, dal più alto ufficiale fino all’ultimo schiavo. Paolo incontrò certo alcuni di loro nel pretorio (1,13) durante le udienze del processo.

v. 23. L’esistenza cristiana della comunità determina la conclusione: vista nella sua unità, essa appare anche nella benedizione diretta al loro spirito (singolare).

La benedizione diventa così, ancora una volta, una latente esortazione all’unità e all’unanimità, un invito a diventare coscienti di essere un solo spirito (1,27). Il "loro spirito" richiama alla coscienza la loro esistenza cristiana.

 

 

LA LETTERA POLEMICA
(3,1b-4,1.8-9)

Articoliamo lo scritto nei seguenti punti:

1) Messa in guardia dai cani (3,1b-4a):

2) I vanti di Paolo nel passato (3,4b-7):

3) L’esempio dell’apostolo (3,8-11);

4) Non ancora al traguardo (3,12-16);

5) In cammino verso la meta (3,17-21);

6) Saldezza nel Signore (4,1.8-9).

 

Messa in guardia dai cani
(3,1b-4a)

1bA me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: 2guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! 3Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, 4sebbene io possa vantarmi anche nella carne.

v. 1b. Il contenuto del v.1b ha chiaramente senso soltanto come introduzione alle esclamazioni seguenti. Vi risuonano la sollecitudine dell’apostolo per la sicurezza della comunità e la consapevolezza di dar loro fastidio affermando questa sua preoccupazione.

v. 2. La comunità deve stare in guardia da quelli che propagandano la circoncisione. Paolo li chiama cani. È l’unica volta che Paolo usa tale invettiva. Nel giudaismo questa invettiva indica gli ignoranti, i senza Dio, i pagani.

v. 3. Nel primo cristianesimo è applicata ai non battezzati e agli eretici. A costoro, Paolo risponde; "Noi siamo la circoncisione!". La spiritualizzazione del rito corporale, già preparata dall’ AT (Ger 4,4; Dt 10,16; Ez 44,7) e sviluppata con coerenza da Paolo (Rm 4,11-12; Col 2,11), sembra qui spinta all’estremo: la circoncisione diventa la caratteristica del nuovo popolo di Dio, il quale non viene costituito mediante la circoncisione fisica, ma per mezzo della fede e della nuova creazione (Gal 6,15). Il concetto viene nuovamente illustrato con un riferimento allo Spirito di Dio e alla gloria. Lo Spirito di Dio ha fatto nascere la nuova realtà, per mezzo suo si compie il nostro servizio. La polemica che anima queste righe conduce ad una nuova antitesi, si ha una contrapposizione tra il gloriarsi in Cristo Gesù e la fiducia nella carne. Il gloriarsi vero e valido non può basarsi su qualità terrene o vantaggi acquisiti, ma soltanto sul Signore (2Cor 10,17-18; 1Cor 28,31).

La carne in cui confidano gli avversari di Paolo è la circoncisione e la legge.

v. 4a. Paolo avrebbe motivi a sufficienza per confidare, come gli avversari, nella carne.

 

I vanti di Paolo nel passato
(3,4b-7)

4bSe alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: 5circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; 6quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.
7Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo.

v. 4b. Si riprende il v. 4a. Paolo si misura con i suoi avversari e afferma in partenza di essere loro superiore in quelle qualità di cui tanto si vantano.

vv. 5-6. Al primo posto delle qualità carnali che Paolo può vantare sta la circoncisione, un segno di elezione che egli pure possiede e che non si è procurato successivamente, ma l’ottavo giorno, come prescrive la legge (Gen 17,12). È quindi già provato che il suo giudaismo è originario e non acquisito. Questo fatto viene ribadito e sottolineato tre volte. A differenza di "giudeo", che per i pagani è un termine che suona disprezzo, "Israele" e "israelita" hanno sempre una tonalità religiosa, linguistica e culturale. Lo stesso va detto di "ebreo". "Ebreo" viene usato per indicare il grande passato d’Israele. Paolo si chiama "ebreo" solo qui e in 2Cor 11,22 e, ambedue le volte, nel quadro di una polemica col fronte avversario. L’appartenenza alla tribù di Beniamino conferma pure che Paolo è un "giudeo purosangue". Il re Saulo, di cui l’apostolo porta il nome, era della tribù di Beniamino. Paolo si è mostrato degno di tale eredità. Egli divenne fariseo e si professò quindi per quella corrente che era caratterizzata da una radicale obbedienza alla Torà (At 23,6; 26,5). Può sembrare strano che in una lettera destinata ad una comunità cristiana egli si glori delle sue passate persecuzioni contro la Chiesa, ma questo serve solo allo scopo di dimostrare la radicalità e sincerità dei suoi sentimenti giudaici.

L’irreprensibilità nei confronti della legge è già implicita nella sua appartenenza al gruppo dei farisei.

v. 7. Questo "ma" costituisce la svolta. Paolo allude qui all’esperinza di Damasco. Per Paolo si trattò di una svolta radicale, di un capovolgimento dei valori: quelle cose che aveva considerato fino allora come guadagno, gli erano state in realtà di danno; egli si rese conto del suo errore.

 

L’esempio dell’apostolo
(3,8-11)

8Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo 9e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 10E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti.

Il pensiero procede dal passato al presente. Il giudizio di allora è valido e confermato anche al presente. La sua valutazione vuole coinvolgere anche quelli che l’ascoltano. Al centro si trova la conoscenza di Cristo, presentata come l’unico bene degno di essere ricercato e sviluppata nelle sue implicazioni particolari. In un rapido inciso abbiamo una brevissima discussione sulla giustizia che viene dalla legge e quella che viene dalla fede, un cenno che sarebbe del tutto incomprensibile se Paolo non si fosse espresso altrove più diffusamente.

Si conclude guardando alla risurrezione dai morti alla fine dei tempi. Si segue così fino alla fine una serie di pensieri ordinata quasi cronologicamente: dal passato giudaico, al presente improntato alla conoscenza di Cristo, fino al futuro che porta il compimento.

vv. 8-9. Si parla di nuovo di valutazione, di perdita e di guadagno. Con "tutto" si intendono quelle cose che fanno da ostacolo alla conoscenza di Cristo. La conoscenza di Cristo passa al centro delle considerazioni: essa viene presentata come il sommo valore. Il tenore personale e professante delle affermazioni si manifesta anche quando Paolo parla di Cristo "mio Signore".

La conoscenza di Cristo non si esaurisce nell’esperienza di Damasco, ma determina ancora adesso la sua esistenza ed è intesa come una forza che plasma efficacemente la sua vita presente (v.10).

Paolo diventa sarcastico quando valuta il suo passato giudaico con il termine skùbala paragonato alla conoscenza di Cristo. Skùbala significa immondizia, lordume, sterco... L’unico vero valore immutabile è Cristo.

L’ "essere trovato in Cristo" sta a significare l’impegno e la perseveranza della comunione in Cristo fino al giudizio finale. L’occasione per parlare della "giustizia" sembra data dal v.6 dove Paolo si era presentato irreprensibile per quanto riguardava la giustizia della legge. Tale giustizia è ora chiaramente smascherata come falsa poiché non è che una giustizia propria (Rm 10,3) e si contrappone alla giustizia che viene da Dio. La legge come fonte di giustizia fu l’inganno del passato insieme con la fiducia nella carne. Come i suoi compagni farisei, Paolo aveva creduto di poter andare tranquillamente incontro al giudizio forte di quella sua irreprensibilità nella legge.

Egli ora sa che quella giustizia non era "da Dio" e che la giustizia "da Dio" è solo quella che viene dalla fede in Cristo. Il che significa che Cristo è l’oggetto della fede. La fede non è una prestazione offerta a Dio al posto delle opere della legge in grado di costringere Dio a giustificare l’uomo.

La giustificazione è solo opera di Dio e la fede non è disgiunta dalla grazia, ma abbracciata da essa: la fede è un dono di Dio. Se Paolo accenna soltanto in un inciso così rapido al grande tema del suo messaggio della giustificazione, ciò significa che i Filippesi erano stati ammaestrati diffusamente sull’argomento da lui personalmente.

vv. 10-11. Cristo è nuovamente proposto come il grande valore della vita nuova. Viene illustrata quella conoscenza di Cristo Gesù che supera ogni cosa e solo alla luce del v.10 si comprende il contenuto materiale della gnòsis (conoscenza).

Conoscere Cristo è il fine vero e proprio, ulteriormente precisato come un conoscere la forza della sua risurrezione e la comunione ai suoi patimenti.

"La forza della sua risurrezione" è un’esperienza fondata sulla conversione a Cristo e sul battesimo.

È il perdono dei peccati, la vita nuova dello Spirito, la conoscenza di essere stato salvato da molti pericoli mortali.

Questa consolante esperienza di vita non va separata da quell’altra che determina con uguale necessità l’esistenza cristiana: la comunione ai patimenti di Cristo.

Il cristiano è chiamato a comprendere e ad accettare i patimenti, le umiliazioni e le situazioni precarie come norma della sequela di Cristo.

L’apostolo ha sempre interpretato le sue tribolazioni alla luce della passione e morte di Cristo: si gloria di portare nel suo corpo la sofferenza mortale di Gesù (2Cor 4,10).

Egli cerca di spiegare e comunicare alle sue comunità questa legge della vita cristiana, affinché anch’esse partecipino degli stessi patimenti (2Cor 1,7). Il compimento dell’assimilazione al destino di Cristo si raggiunge soltanto con la risurrezione corporale dei morti.

 

Non ancora al traguardo
(3,12-16)

12Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. 13Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, 14corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. 15Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. 16Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.

Paolo parla ancora di sé, ma il suo discorso riguarda tutti. Le ultime frasi di questo brano (vv. 15-16) fanno capire che la comunità è già infettata dagli eretici e rivelano che l’apostolo non è sicuro che tutti i Filippesi siano d’accordo con lui.

v. 12. Questa frase ha senso solo se a Filippi ci sono alcuni che ritengono di avere già raggiunto il traguardo. Ci si pone la domanda di quale sia precisamente questo traguardo che si pretende di aver raggiunto. I verbi non hanno oggetto e per questo si è pensato alle cose più diverse: la risurrezione dai morti (Lutgert), la conoscenza di Cristo (Michaelis), Cristo (Dibelius), il premio della vittoria (Bonnard, Beare, Delling), o qualche "oggetto cui è connesso il concetto della perfezione escatologica o individuale" (Lohmeyer). Di fatto questo oggetto è taciuto. L’attenzione cade sull’antitesi fra divenire ed essere, conquistare e possedere. Paolo dice chiaramente a questi eretici che si credevano già perfetti: "Io non sono già perfetto". Il traguardo resta un punto ancora da raggiungere per tutti, anche per Paolo (1Cor 4,4). La corsa verso il traguardo non esprime uno sforzo frenetico, con cui ci si illuda di farcela da soli, ma la reazione all’opera di Cristo Gesù e motivata da lui. Paolo fu raggiunto da Cristo sulla strada di Damasco e fu posto su una pista perché corresse con il massimo sforzo per inseguire Cristo.

Anche i Filippesi furono raggiunti da Cristo quando accettarono la fede e il battesimo. Il loro battesimo corrisponde all’evento di Damasco per Paolo.

v. 13. Ancora una volta Paolo nega energicamente di aver raggiunto il traguardo. Ciò che veramente conta è di non stare a riflettere su quanto è stato ottenuto, tranquillizzandosi con sentimenti di compiacenza guardando indietro, ma si corra incessantemente verso il traguardo. Nella situazione dei Filippesi, Paolo vuole solo impedire che ci si illuda di aver già fatto tutto, mentre la corsa della vita cristiana dura quanto la vita terrena.

v. 14. Viene indicato il traguardo concreto della vita cristiana. Si passa dall’immagine alla realtà: il premio consiste nella chiamata alla vita che si compie nel mondo di Dio. Il mondo celeste è la seducente promessa; colui che chiama è Dio; la possibilità della chiamata è offerta in Cristo Gesù. La corsa dell’apostolo si svolge con lo sguardo fisso a questa attesa.

v. 15. Il tono del discorso cambia. L’invito "riflettiamo attentamente su ciò" è rivolto ai "perfetti". Non si è d’accordo sull’interpretazione del termine tèleioi (perfetti) a cominciare dal decidere se sia inteso ironicamente o seriamente. Noi lo prendiamo in senso ironico. Paolo invita queste persone a riflettere attentamente, e si associa con loro nella riflessione.

E siccome c’è da aspettarsi che essi non si lasceranno persuadere di colpo e del tutto, egli allude a rivelazioni divine da cui potrebbe venire un’influenza decisiva. Anche qui abbiamo un tono ironico: "Dio vi rivelerà anche questo!". Il criterio per la retta valutazione di una dottrina non è costituito da una rivelazione, alla quale una persona qualsiasi si possa richiamare, ma dalle istruzioni dell’apostolo con cui deve concordare. Se le indicazioni della rivelazione concordano con quelle dell’apostolo, allora essi dovrebbero ascoltarle.

v. 16. La polemica viene terminata con sorprendente rapidità e Paolo rinuncia ad una contestazione più particolareggiata degli avversari. Tira le somme e passa oltre. Bisogna mantenere saldamente quanto è stato raggiunto e vivere conformemente. La situazione era questa; la coscienza della perfezione poteva far credere a questi "perfetti" di essere già arrivati al traguardo e in questo modo perdevano anche quello che avevano raggiunto faticosamente. Questo orgoglio poteva anche indurli ad allentare l’impegno morale. "Viviamo conformemente a quanto abbiamo raggiunto" non significa fermarsi a qualche posizione soggettiva di chi si sente già a posto, ma vivere con impegno a quel livello cui si è giunti grazie all’impegno missionario di Paolo, correndo verso l’ulteriore mèta della vita eterna.

 

In cammino verso la mèta
(3,17-21)

17Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. 18Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: 19la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. 20La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

Questa pericope è strettamente connessa con la precedente e sintetizza in modo positivo tutti gli elementi che riguardano la minaccia alla comunità. Come poco prima, l’apostolo guarda al traguardo, alla venuta del Signore Gesù Cristo dal cielo.

v. 17. Paolo dà un comandamento chiaro: la comunità deve imitare lui e i suoi esempi: egli si presenta come il tupos, il modello. L’esempio che l’apostolo dà non è fine a se stesso, ma è riferito a Cristo: "Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo" (1Cor 11,1).

v. 18. Coloro che si comportano da nemici della croce di Cristo si trovano nelle comunità cristiane: non si parla qui dei giudei, dei non credenti o dei pagani. Ci sono in tutte le comunità cristiane esempi di bene e di male. Lo scandalo e il disprezzo per la croce, propagati per diversi motivi da predicatori cristiani ambulanti, è giunto anche a Filippi ad è comprensibile che Paolo ne parli in termini piuttosto violenti. Ci furono molti modi di disprezzare e mettere in ombra la croce e ai diversi nemici della croce si aggiungono pure quelli di Filippi. La parola della croce non è un discorso che resta teorico e dottrinale, ma implica sempre un giudizio che coinvolge la vita cristiana.

v. 19. Con termini violenti si presentano la natura e il destino dei nemici della croce. Quando si dice che il ventre è il dio di questi eretici, si vuole sottolineare che i loro sentimenti sono interamente carnali; non perché costoro siano libertini in campo morale, ma perché hanno avversione verso la croce; essi sono totalmente immersi nel carnale, nel terreno. "Guardano a cose terrene" riprende questo pensiero, ma costituisce già il passaggio all’antitesi seguente che parla del cielo e descrive ancora una volta l’atteggiamento giusto. Gli avversari di Paolo si vantano di essere ormai perfetti, di essere giunti al traguardo, di aver raggiunto uno stato divino. Paolo li bolla come adoratori del ventre e destinati alla perdizione.

vv. 20-21. A differenza dei sentimenti terreni e carnali degli avversari della croce, i sentimenti della comunità devono essere rivolti alle realtà celesti.

I Filippesi sono pellegrini sulla terra: il loro stato, la loro cittadinanza è nei cieli, perché sono destinati a possedere la patria celeste. Il Salvatore che attendiamo dai cieli porterà la redenzione al suo fine ultimo. Costui è il Signore Gesù.

La salvezza definitiva portata dal Salvatore atteso dal cielo opera la trasformazione del nostro corpo.

Il termine sòma (corpo) non va inteso nel senso della dicotomia greca come la parte corporea dell’uomo, distinta dall’anima, ma indica l’intera esistenza terrena che è determinata dalla corporeità, e precisamente da una corporeità di basso profilo. "Il corpo della nostra umiliazione" è l’esistenza precaria dell’uomo, la sua esistenza corporale terrena incamminata verso la morte; essa sarà trasformata in un "corpo della gloria", il cui modello è il corpo glorioso di Cristo. L’esistenza umana creata nella corporeità terrena è chiamata al mondo incorruttibile di Dio.

Cristo non appare soltanto come colui che prepara la strada per entrarvi, ma è egli stesso a operare la trasformazione. Poiché il "corpo della gloria" abbraccia l’intero essere umano, e non solo la parte corporea, si deve dire che la trasformazione dell’uomo è completa, totale, sostanziale: è una nuova creazione (Mt 19,28; Rm 8,19-22; Ap 21,5; 2Cor 5,17; Gal 6,5; Gc 1,18). Il fondamento solido su cui si fonda la salvezza definitiva è l’onnipotenza di Cristo.

 

Saldezza nel Signore
(4,1.8-9)

1Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!
8In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. 9Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!

Paolo vuole sottolineare che la comunità si attenga saldamente e in ogni circostanza a ciò che ha imparato e ricevuto da lui. È un’esortazione senz’altro pertinente visto lo sconvolgimento della dottrina e della fede operato dagli eretici a Filippi.

v.1. In forma appassionata Paolo supplica i Filippesi a restare saldi nel Signore. Questa invocazione intensa rispecchia l’intima commozione dell’apostolo che teme per la sua amata comunità e le si rivolge con toni affettuosi. L’imperativo è rivolto naturalmente a coloro che gli sono rimasti fedeli. Essi sono la sua gioia e la sua corona. La corona era portata sia dal sacerdote che offriva il sacrificio che dal vincitore nello stadio (1Cor 9, 25) e dall’imperatore che visitava province e città.

Paolo accenna così all’ultimo giorno quando la comunità sarà appunto il suo motivo di vanto e la sua corona. La stessa tensione escatologica è però contenuta anche nell’imperativo "state saldi" perché la saldezza nel Signore si deve prolungare e affermare fino alla fine.

v. 8. Nella conclusione si dice positivamente ciò che veramente conta. Questo v. contiene un catalogo di virtù che rientravano nel contesto della filosofia morale stoica. Paolo si serve di ogni mezzo utile per rendersi comprensibile. È chiaro tuttavia che in un contesto cristiano un formulario filosofico morale acquista già un senso diverso, elevato alla morale cristiana, preceduto com’è dal comandamento "restate saldi nel Signore".

v. 9. Paolo richiama infine gli insegnamenti che egli stesso aveva impartito alla comunità con la parola e l’esempio. Significativo è il nesso tra parola e persona: Paolo conferma la parola e offre se stesso come esempio da imitare (3,17).

L’imparare richiama la didachè (Rm 16,17; Ef 4,20; Col 1,7), l’accogliere richiama la tradizione.

Paolo è il cristiano doc nella dottrina e nella vita. Questa imitazione fedele dell’apostolo è garanzia della presenza del Dio della pace con tutti noi.

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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