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COMMENTO DELLA LETTERA AI FILIPPESI

Ultimo Aggiornamento: 01/11/2018 18:43
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22/11/2011 12:03
 
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PARTE SECONDA

LA SITUAZIONE DI PAOLO NELLA PRIGIONIA
(1,12-26)

Per quanto parli di sé, Paolo scende ben poco nei particolari quando descrive la sua condizione. Invece che di se stesso, Paolo parla della sorte del vangelo: in questo modo fa capire ai Filippesi che non devono preoccuparsi di lui, ma del vangelo.

Possiamo dividere in cinque punti questa sezione:

1) Progresso del vangelo (1,12-14);

2) Predicatori diversi (1,15-18a);

3) Cristo viene glorificato (1,18b-20);

4) Vita o morte (1,21-24);

5) Speranza in un prossimo incontro (1,25-26).

 

Progresso del vangelo
(1,12-14)

12Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, 13al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo; 14in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno.

v. 12. Tra le tante notizie che Paolo avrebbe potuto scrivere sulla sua prigionia e le traversie giudiziarie ad essa connesse, una sola gli sembra importante: la sua condizione di prigioniero, contro ogni aspettativa, riusciva a vantaggio del vangelo, dell’annuncio, della causa apostolica.

Nella lettera di Paolo si nota che la sua vita è tutta orientata in base al vangelo. Egli scrive, per es., di essere stato segregato per il vangelo di Dio (Rm 1,1), di servire il vangelo nello Spirito (Rm 1,9) e di non vergognarsi del vangelo (Rm 1,16).

Vangelo e ufficio apostolico formano un nesso stretto in questa lettera: le vicende di Paolo sono quelle del vangelo che annuncia.

v. 13. Il primo vantaggio del vangelo consiste nel manifestarsi delle catene di Paolo "in Cristo". L’apostolo dice che la sua prigionia è ora diventata nota a un’ampia cerchia e che questo torna a vantaggio del vangelo. Egli allude probabilmente alle udienze pubbliche del tribunale che gli diedero l’occasione di sostenere la causa del vangelo.

v. 14. La testimonianza dell’apostolo nelle udienze pubbliche ha dato coraggio alla comunità locale per un annuncio più coraggioso del vangelo.

L’impegno dell’apostolo è un incentivo all’impegno dei cristiani, il suo coraggio accende il loro coraggio. Il loro nuovo ed efficiente impegno si basa sull’incoraggiamento nel Signore dato loro dalle catene di Paolo. Non è stato solo l’esempio umano a stimolare la comunità, ma l’azione della grazia divina.

 

Predicatori diversi
(1,15-18a)

15Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del vangelo; 17quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. 18Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene.

Le asserzioni di questa pericope sembrano essere in contraddizione con quelle del v. precedente. Lì si parlava di una predicazione sempre più coraggiosa, fondata sulla fiducia che le catene di Paolo avevano saputo infondere, qui apprendiamo con sorpresa che non tutti i predicatori sono elogiati da Paolo, anzi alcuni vengono aspramente rimproverati.

v. 15. Paolo si sofferma sull’aspetto soggettivo dei predicatori. Alcuni nel loro lavoro di predicatori sono mossi da invidia e polemica, altri da buone intenzioni. I primi sono quelli che sconvolgono e mettono in pericolo la vita comunitaria. Coloro che sono dominati dall’invidia e dalla polemica mostrano di essere "carnali" e di comportarsi "alla maniera degli uomini" (1Cor 3,3). I secondi sono coloro che, guidati da buone intenzioni, predicano Cristo per l’edificazione della comunità nell’amore.

vv. 16-17. La lode e la critica dei predicatori è in rapporto con il loro atteggiamento verso l’apostolo prigioniero. Gli uni sono guidati dall’amore, gli altri dall’egoismo. Questi ultimi non vogliono riconoscere il vero significato delle sue catene: negano il carattere di grazia alla prigionia dell’apostolo e la riconducono a un fastidio umano.

v. 18a. Paolo sa distinguere tra i predicatori e la parola predicata, assegnando alla parola una forza propria. La parola di Dio giunge al traguardo superando tutti gli ostacoli; il suo contenuto si afferma irresistibilmente (Is 55,10-11). Nell’esclamazione "Cristo viene annunciato" c’è quindi una grande fiducia in colui che sta dietro ad ogni predicatore e opera il "progresso del vangelo" (v.12), e anche in questa situazione di prigionia Paolo riesce a gioire.

 

Cristo viene glorificato
(1,18b-20)

18Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20secondo la mia ardente attesa e speranza che in nulla rimarrò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

Con il v. 18b comincia qualcosa di nuovo. Lo sguardo è rivolto al futuro. Come il v. 13 descriveva un fatto del passato, così ora Paolo mostra le sue attese personali per il futuro.

v. 18b. La gioia qui espressa e orientata al futuro rappresenta il passaggio a un grado superiore rispetto a quella del v. 18a. Si potrebbe tradurre: "E non solo questo, ma mi rallegrerò veramente solo nel futuro". La situazione interiore di Paolo nell’attesa per il futuro è la gioia ed è in questa chiave che si devono leggere le riflessioni seguenti.

v. 19. La motivazione di questa gioia consiste in un sapere: "io so". Naturalmente questo sapere non si fonda su un calcolo umano, ma su un’esperienza religiosa originata dalla fede. Per specificare il contenuto del suo sapere non si serve di parole proprie, ma di un’espressione biblica.

Una citazione di Gb 13,16 (LXX) affiora improvvisamente nel testo, anche se non è riportata come citazione e gli stessi lettori di Filippi non l’hanno probabilmente colta come tale: "Questo servirà alla mia salvezza".

Per Paolo la salvezza si riferisce sempre al rapporto dell’uomo con Dio; è la salvezza eterna. Paolo quindi non si attende la liberazione e non spera tanto che tutto vada per il meglio davanti ai tribunali umani. Egli guarda alla propria salvezza finale. Per questo scopo confida nella preghiera dei fratelli e nell’assistenza dello Spirito di Gesù Cristo. La preghiera della comunità per l’apostolo è come un’eco della preghiera dell’apostolo per la comunità (v.3-4).

Egli li supplica di continuare a ricordarsi di lui nella preghiera. Quando Paolo invita le comunità a pregare per lui, lo fa di regola per cose personali: per essere custodito dai pericoli (Rm 15,30-31;2Cor 1,11; 1Ts 5,25) e perché la sua predicazione possa avere successo (Col 4,3; 2Ts 3,1-2). Egli conta però soprattutto sull’assistenza dello Spirito, così come viene assicurata in Mt 10, 20 al discepolo di Cristo trascinato davanti al tribunale degli uomini.

v. 20. La speranza contiene tre elementi: l’attesa del futuro, la fiducia e la pazienza. L’attesa timorosa, l’incertezza del futuro viene assorbita nella speranza gioiosa nutrita dalla fede. L’oggetto della speranza di Paolo è che Cristo venga glorificato pubblicamente nella sua persona, sia con la sua vita che con la sua morte. Paolo è cosciente di non essere proprietario della sua vita, perché egli è di Cristo. La vita che egli vive nella carne, la vive nella fede nel Figlio di Dio, "il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me" (Gal 2,20).

La glorificazione di Cristo può quindi avvenire in futuro in duplice modo: o con la libertà, e quindi con la possibilità di impegnare nuovamente tutte le sue forze per la predicazione del vangelo, o con la morte, testimoniando in essa la grandezza del suo Signore. Vita-morte è l’alternativa su cui procede il discorso, un’alternativa che non spaventa Paolo, ma lo riempie anzi di speranza, perché egli ha comunque davanti agli occhi la glorificazione di Cristo.

 

Vita o morte
(1,21-24)

21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. 23Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne.

Questa pericope ci permette di gettare uno sguardo suggestivo nell’anima di Paolo. Siamo davanti all’alternativa: vita o morte. Paolo tratta la questione come chi ne è direttamente coinvolto, a faccia a faccia con la morte. Questo spiega non solo l’eccitazione di Paolo, che traspare nella scelta delle parole e nello stile spezzato, ma anche l’immediatezza e l’unicità delle sue affermazioni. Il nesso è costituito da questa conoscenza fiduciosa (vv. 19-20) della certezza che Paolo sente in qualsiasi circostanza perché tutta la sua esistenza è determinata da Cristo. Cristo è il punto di orientamento sul quale convergono tutte le riflessioni di Paolo.

v. 21. Ora Paolo parla strettamente di sé, anche se con lo sguardo sempre rivolto a Cristo. La frase fondamentale di questo versetto è: "Per me infatti il vivere è Cristo". Se questo "vivere" di Paolo si riferisse soltanto alla vita terrena, si ripeterebbe soltanto il v. 20. Inoltre, il pensiero successivo che la morte sarebbe un guadagno, risulterebbe del tutto estraneo e, in certo senso, addirittura non cristiano, dal momento che presenterebbe la morte desiderabile solo perché pone fine a una vita faticosa e insopportabile, e sarebbe una fuga nell’al di là immaginato migliore. "Il vivere" di cui parla Paolo parte certo dalla vita terrena e l’abbraccia totalmente, ma anche la trascende fondamentalmente. Non è la vita animale che è in questione, ma la vita divina che è Cristo in noi. Cristo è il fondamento portante di questa vita che è l’unica di cui Paolo s’interessi. La frase "il morire è un guadagno" ripropone una sentenza diffusa nell’ambiente greco (Platone, Apol. 40; Eschilo, Prom. Vinct. 747, 750-751; Sofocle, Antig. 463-464). La motivazione però è diversa nei due casi. Per gli scrittori e i filosofi greci la morte è la liberazione dell’anima dalla prigionia del corpo, la liberazione dello spirito dalla prigionia della materia. Per Paolo invece ciò che sta al di là della morte è un potenziamento di quanto conteneva già la realtà terrena, poiché è Cristo il fondamnto della vita. E la vita, che è Cristo, non può essere tolta dalla morte, ma solo accresciuta.

v. 22. Dopo aver parlato della morte come guadagno, ora si rivolge all’altra possibilità: la "vita nella carne". Questa possibilità di continuare a vivere in questo mondo viene considerata senza disprezzo perché crea spazio per un ulteriore lavoro apostolico. Il "frutto dell’opera" è il compito del messaggero del vangelo e del pastore d’anime, quell’opera che ha Dio (1,6) o Cristo (2,30) per autentico autore, ma che tuttavia ha bisogno dell’impegno umano (1Cor 9,1; 16,10; 3, 13-15).

L’apostolo prigioniero vuole dedicarsi di nuovo a questo impegno, ma fino a questo momento non ha potuto prendere decisioni per l’una o per l’altra possibilità. Egli guarda al di là della situazione concreta della sua prigionia che non gli lascia, al momento, alcuna effettiva possibilità di scelta. L’esito del processo è nelle mani degli uomini, ma al di là e al di sopra degli uomini c’è Dio, di fronte al quale Paolo pone la sua esistenza e prende le sue decisioni.

v. 23. L’angustia spirituale per questa scelta tra una morte fruttifera e una vita fruttuosa è grande. Egli è come preso tra due fuochi. Il termine sunèchomai (sono preso) indica una stretta che non lascia la presa, che non permette di liberarsi. La scelta è tra ciò che sarebbe meglio per lui personalmente (il desiderio di andarsene da questo mondo ed essere con Cristo) e ciò che sarebbe più necessario alla comunità ("il rimanere ancora nella carne è più necessario per il vostro bene").

Il suo desiderio di morire per essere con Cristo non è un egoismo spirituale. Paolo esprime un grande amore per Cristo, non un egoismo spirituale. Il suo impegno verso la vita è grande quanto l’aspirazione alla morte. Il suo desiderio di morire mira alla comunione totale e definitiva con Cristo che è il fine dell’esistenza e non una fuga dai disagi e dalle fatiche della vita presente.

L’ "essere con Cristo" viene introdotto come se si sapesse bene che quella è la destinazione di colui che muore. La preposizione "con" indica la comunanza di persone che sono insieme, si trovano insieme, si accompagnano tra di loro, operano insieme. Questa intensificata comunione con Cristo, che la morte rende possibile al credente, è per Paolo il bene desiderabile.

v. 24. L’apostolo prende ora la decisione nella scelta che lo angustia. Il desiderio di andarsene cede il posto alla necessità di rimanere. I fedeli hanno bisogno di lui e per questo egli deve restare; egli trova la soluzione del problema nel compito che gli è stato assegnato.

 

Speranza in un prossimo incontro
(1,25-26)

25Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi.

v. 25. Sembra una contraddizione con quanto ha detto prima (v.20) e con quanto dirà dopo (v.27). Ma molto più semplicemente ci troviamo a leggere una confessione di fede più che una pagina di logica. Paolo coinvolge i Filippesi nei suoi pensieri e problemi personali, che lo assorbono ormai da lungo tempo, e non sono emersi solo mentre scriveva queste righe. Morire è la cosa migliore, rimanere è la più necessaria: questo è il risultato del suo ragionamento e così decide per ciò che è più necessario. Tutto questo non pregiudica affatto ancora la conclusione del processo, ma Paolo acquista comunque fiducia, una fiducia che non coltiva per sé, ma per la comunità (v.6). L’idea del rimanere viene ripetuta e intesa nel senso che i destinatari della lettera devono acquistare coscienza di questo fatto. Non si tratta qui di relazioni personali di natura privata, ma di progresso e di gioia nella fede. Il "progresso" riguarda naturalmente il vangelo, la fede, la vita comunitaria (v.12).

È significativo che Paolo non parli semplicemente della fede, ma della gioia della fede. Questa gioia che caratterizza la lettera A, è sempre una gioia fondata sulla fede dovuta allo Spirito Santo e che è tanto affine alla pace (Gal 5,22; Rm 15,13).

Se Paolo dice che rimarrà e continuerà a rimanere con la comunità di Filippi, ciò non significa una rinuncia a ulteriori piani missionari. Ma piuttosto si dovrebbe sentire sullo sfondo di questo ripetuto "rimanere" la speranza di vivere la parusia.

v. 26. Paolo distingue sempre nettamente tra il falso e il vero gloriarsi. Va escluso tutto quel gloriarsi con cui l’uomo porta avanti se stesso per affermarsi davanti a Dio: questa è la lotta di Paolo col giudaismo. Conta solo il gloriarsi in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (Rm 5,11). Ci dobbiamo gloriare per l’azione salvifica di Dio per noi (Gal 6,14).

Si comprende così come tanto l’apostolo per la comunità quanto la comunità per l’apostolo possa essere motivo del gloriarsi (2Cor 1,14). Questo non si riferisce infatti all’uomo, ma a ciò che Dio ha operato in lui. Per questa ragione l’ "autogloriarsi" dell’apostolo non è mai fondato in se stesso, ma è radicalmente sempre a lode di Dio.

 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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