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COMMENTO ALLA LETTERA DI GIACOMO

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2011 11:56
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22/11/2011 11:53
 
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(6)
Necessità di guardarsi dalla
3,1-12

1Fratelli miei, non vi fate maestri in molti, sapendo che noi riceveremo un giudizio più severo, 2poiché tutti quanti manchiamo in molte cose. Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. 3Quando mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. 4Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e vengano spinte da venti gagliardi, sono guidate da un piccolissimo timone dovunque vuole chi le manovra. 5Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! 6Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. 7Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, 8ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. 9Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. 10È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei! 11Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara? 12Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce.

Una nuova parenesi riprende ora da un nuovo punto di vista e svolge più ampiamente un tema già accennato in 1,26. Il nuovo angolo visuale, sotto il quale viene trattato così ampiamente il tema della lingua, è l’ammonimento contro la smania di insegnare. Ma poiché il tema udire-parlare trova probabilmente la sua collocazione nelle assemblee liturgiche della comunità, parlare significa: predicare, istruire. Giacomo riprende la seconda parte dell’ammonimento di 1,19 (ogni uomo sia lento a parlare) e la svolge.

v. 1. Come capo riconosciuto dei giudeo-cristiani, Giacomo è chiaramente preoccupato che nelle comunità si polemizzi proprio per iniziativa dei giudeo-cristiani. Dietro questi fatti egli scorge la pericolosa inclinazione dell’uomo a erigersi come presuntuoso maestro degli altri. Qui si rivolge ai maestri riconosciuti e autorizzati perché non continuino come tali a intervenire ad ogni momento ricordando che noi avremo un giudizio più duro.

v. 2. L’ammonimento sul giudizio viene motivato più a fondo. Noi tutti in molte cose sbagliamo. Poi aggiunge il criterio della perfezione, che è il pieno dominio della lingua: Se uno non cade nella parola, è un uomo perfetto. Giacomo quasi ripete la massima sapienziale dell’Antico Testamento: Tra molte parole non manca qualche fallo; chi però domina la lingua è savio (Pr 10,19). E il pensiero sottinteso è questo: per chi voglia presentarsi come maestro nelle comunità cristiane, è indispensabile che non erri nel parlare; e qui per errore non si intende una falsa dottrina, ma la pretesa di avere sempre ragione e la saccenteria.

Chi non cade nel parlare è uomo perfetto e quindi in grado di dominare tutto il suo corpo, cioè la sua intera attività.

vv. 3-4. Seguono due paragoni che devono illustrare l’affermazione del v. 2. Il significato è questo: chi domina ciò che è piccolo, domina anche ciò che è grande. Chi mediante il freno domina la bocca del cavallo, domina anche tutto il cavallo. Chi ha saldamente in mano il timone, con questo piccolo mezzo può condurre la più grande nave anche attraverso le tempeste spaventose.

v. 5. Così la lingua è un piccolo membro con cui dovrebbe essere possibile padroneggiare l’intera attività del corpo. Tale sarebbe la conclusione da dedurre dai due paragoni, se applicata alla lingua. Ma già al v. 2, quasi con tono di rassegnazione, si diceva che solo l’uomo perfetto ha la capacità di non mancare nel parlare, cioè con la lingua, e tenere a freno tutto il corpo. L’esperienza quotidiana però insegna che, sebbene la lingua sia un piccolo membro, con cui si dovrebbe tenere a freno tutto il corpo, di fatto essa presume molto di sé. Questa presunzione è negativa, come dimostra il seguito del testo. Il male della lingua viene dimostrato innanzitutto attraverso un’immagine: un fuoco per quanto piccolo può incendiare il bosco più grande. Giacomo l’applica alle sciagure che può provocare la lingua, prendendo spunto da Sir 28,13-26.

v. 6. Anche la lingua è effettivamente come il fuoco, come il mondo ingiusto. La lingua, per Giacomo è senz’altro il mondo cattivo, in quanto con le sue menzogne e calunnie rende impossibile una vera vita di comunità. La lingua sta tra le nostre membra come un fuoco, anzi come il mondo cattivo. Perché la lingua è come un fuoco cattivo o come il mondo cattivo?

• Perché essa, sebbene sia un membro così piccolo tra le nostre membra, può tuttavia contaminare con le menzogne tutto il corpo. Invece di compiere la sua funzione, che è quella di tenere a freno tutto il corpo, la lingua fa il contrario: essa contamina il corpo intero. Giacomo scrive con immediatezza e nell’illustrazione del male della lingua fluiscono dalla sua penna varie espressioni e il nesso delle immagini può sembrare a prima vista illogico, ma non lo è affatto. Certo che l’affermazione che la lingua contamina tutto il corpo suona un po’ strana; ci si aspetterebbe: tutta l’anima. Ma i precedenti accenni a tutto il corpo inducono Giacomo a ripetere tale espressione.

• Ma perché la lingua è come un fuoco che, pur così piccolo, può incendiare un grande bosco? Giacomo risponde: perché essa come un fuoco incendia la ruota del divenire. Ma cosa intende Giacomo con l’espressione ruota del divenire? Forse Giacomo pensa all’intero ambito della vita: la lingua calunniosa non si arresta di fronte a nessuno, di fronte a nulla; essa può incendiare tutto. Contro la sua forza deleteria si è impotenti, il suo è il fuoco eterno e inestinguibile dell’inferno. La lingua è così nociva che infiamma tutta la vita umana e gli avvenimenti che la compongono. La vita è paragonata a una ruota che gira dal giorno della nascita al giorno della morte. La lingua, appena viene infiammata dal fuoco infernale (cioè viene risvegliata e alimentata dallo spirito della menzogna, dall’ira e dalla malvagità dei demoni) comunica il suo fuoco a ciò che la circonda e corrompe tutta la vita dell’uomo dall’inizio alla fine.

vv. 7-8. Ma come è possibile che la lingua sia così funesta? Giacomo dichiara: perché nessuno può domarla. Il genere umano è riuscito a dominare ogni genere di animali, ma non è riuscito a domare la lingua, piccolo membro del proprio corpo. La lingua è un male che nessuno può quietare, un male eternamente irrequieto, ed è piena di veleno mortale. Questi due enunciati confermano la qualifica attribuita alla lingua nel v. 6: essa è un fuoco distruttore; è il mondo cattivo puro e semplice.

vv. 9-10. Giacomo parla di nuovo in prima persona (lo diciamo, malediciamo) perché esprime un’esperienza generale, che ciascuno acquisisce dalla propria vita: con la stessa lingua benediciamo Dio e malediciamo il prossimo che è stato creato a sua immagine. Giacomo deduce da tale innegabile esperienza della lingua il breve ma necessario ammonimento per i destinatari: Questo, fratelli miei, non deve avvenire.

vv. 11-12. Il breve ammonimento è convalidato da esempi tratti dal mondo della natura.

L’esempio della fonte rimanda al v. 10: dalla stessa bocca, dalla stessa apertura (v. 11). Il secondo esempio del fico e della vite, che non producono rispettivamente olive e fichi, ricorda il detto di Gesù in Mt 7,16.

 

(7)
Caratteristiche della vera sapienza nell'insegnamento
3.13-18

13Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza. 14Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. 15Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; 16poiché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. 17La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. 18Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.

Giacomo torna ora a parlare della sapienza. Nel tardo giudaismo il maestro e il sapiente si equivalgono. Così appare chiaro il nesso logico con la sezione precedente, che ha messo in guardia dalla bramosia di insegnare nella comunità. Chi vuole essere veramente maestro della comunità, ha bisogno della sapienza celeste. Tra i destinatari della lettera ci sono alcuni che si ergono a maestri e con la loro saccenteria e presunzione gettano la comunità nell’inquietudine e nella divisione. La loro sapienza è terrena, non celeste. Il vero sapiente invece si preoccupa per la pace della comunità (vv. 17-18). Giacomo è amante della pace.

v. 13. Chi si fa avanti con la pretesa di essere saggio ed esperto ne dia prova con una buona condotta. L’accenno alle opere e alla condotta indica in che consista, per Giacomo, la sapienza di chi insegna: nel buon esempio dato alla comunità, in cui si rivela l’accordo tra insegnamento e vita. Questo manifestarsi della vera sapienza deve avvenire in modo particolare: in sapiente dolcezza. Chi è saggio solo con la lingua, troppo facilmente semina gelosie e litigi; la saggezza delle opere, invece, è discreta e dolce. Il buon esempio di un comportamento retto è una dolce dottrina per il prossimo, mentre la presunzione nell’insegnamento ingenera nelle comunità solo polemiche e gelosie.

v. 14. Il termine erithèia (= litigiosità) designa la sleale, egoistica, esasperata partigianeria, l’atteggiamento dell’intrigante politico, l’aspirazione faziosa, che in comunità conduce alla discordia.

Secondo Giacomo l’aspra gelosia e la litigiosità partigiana conduce all’inquietudine e al disordine della comunità.

v. 15. È impossibile che una simile sapienza unita a una faziosa e ambiziosa brama di insegnare, provenga dall’alto: essa è terrestre, psichica, demoniaca. L’aggettivo psichico non rinvia al mondo psicologico e naturale, ma è il contrario di pneumaticòs (= spirituale, dello Spirito Santo) ossia di divino. I concetti di terrena, psichica, e demoniaca hanno un significato chiaro nel contesto: terrena si oppone alla sapienza che viene dal cielo; psichica (= umana) si oppone alla sapienza divina; demoniaca perché il mentire è una caratteristica del demonio. Questo ultimo concetto viene spiegato a fondo nel verso seguente.

v. 16. Giacomo pensa certamente all’irrequietezza che è introdotta nella comunità con la presuntuosa pseudo-sapienza degli ambiziosi e che disturba la pacifica vita in comune; perciò questa pseudo-sapienza è anche diabolica perché mette tutto sottosopra e crea divisioni.

v. 17. La sapienza dall’alto ha caratteristiche diverse da quella terrena; essa innanzitutto è schietta. È una formulazione posta coscientemente in opposizione alla sapienza polemica e faziosa del v. 14, che è legata a motivi di insincerità. Inoltre la vera sapienza è pacifica, piena di misericordia e di buoni frutti. Essa non fa differenze, non conosce nessun culto della personalità, non è parziale. E, infine, è senza finzione; le sue manifestazioni corrispondono alla reale convinzione dell’insegnante; essa non dissimula i propri scopi.

v. 18. Il frutto della giustizia va posto in connessione col verso precedente, tra le manifestazioni della sapienza dall’alto. Questo frutto non si manifesta nella ricerca di polemica che divide la comunità, ma nel suo contrario: nei sentimenti di pace, la quale viene seminata da coloro che la promuovono nella comunità. Questo versetto non chiude soltanto gli elenchi immediatamente precedenti sulla sapienza terrena e quella celeste, ma tutto il cap. 3 con le sue dichiarazioni sulla lingua, la cui straordinaria azione divide la comunità e ne distrugge la pace. Alla potenza diabolica della lingua Giacomo contrappone il dolce esempio delle opere di una vita buona.

(8)
Le comunità tra pace e discordia, tra mondo e Dio
4,1-12

1Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? 2Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; 3chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri. 4Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio?
Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. 5O forse pensate che la Scrittura dichiari invano: fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi? 6Ci dà anzi una grazia più grande; per questo dice: Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia. 7Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. 8Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri cuori, o irresoluti. 9Gemete sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza. 10Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.
11Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge. E se tu giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la giudica. 12Ora, uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e rovinare; ma chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?

Nei capitoli precedenti Giacomo non ha ancora chiarito da dove, in definitiva, provenga nelle comunità l’inclinazione alla divisione e alla discordia. Ciò che fa in questa prima sezione del cap. 4. La sezione è ben concatenata con quella precedente (tema comune: polemiche e conflitti nelle comunità).

v. 1. Giacomo cerca le cause ultime, le profonde radici delle guerre e delle battaglie che ci sono nelle comunità: gli uomini in lite sono amici del mondo e nemici di Dio (v.4). Lo scrittore sacro ha davanti a sé le lotte e le contese dei maestri gelosi e faziosi, ma l’insegnamento vale per tutti. Giacomo allude a lotte e a contese molto concrete nelle comunità dei lettori, e scopre le radici nei piaceri degli uomini, nelle loro membra. Queste passioni egoistiche lottano contro le buone intenzioni, la ragione, l’amore, la coscienza, ecc.

vv. 2-3. Questi versi costituiscono un evidente sviluppo di ciò che si dice nel v. 1 con i termini guerre e battaglie. Il verbo bramate indica il desiderio terreno, nato dai piaceri delle membra. Per esso vale questa norma di esperienza: dal desiderio al godimento e dal godimento al desiderio, però mai a un possesso permanente e felice. Uccidete e rivaleggiate: in 2,1 Giacomo ha accennato al comandamento : Non ucciderai. E là dicevamo che non si trattava di un omicidio fisico. Anche Sir 28,17.21 presenta la perversa azione della lingua come omicidio e assassinio. Ricordiamo anche il nostro proverbio: Ne uccide più la lingua che la spada. Giacomo pensa a quel sentimento di gelosia che molto volentieri vorrebbe liquidare il proprio avversario e non riesce a ottenere lo scopo desiderato: il dominio incontrastato nelle comunità. Battagliate e guerreggiate: è un’ulteriore marcata annotazione a uccidete e rivaleggiate, messa in stretta connessione con la domanda iniziale del v. 1: Donde le guerre e le battaglie tra di voi? Giacomo aggiunge il motivo per cui i lettori, nonostante la brama, le battaglie e le meschine gelosie, non ottengono: perché non pregano. Nel v. 3 Giacomo aggiunge subito: Voi pregate, ma non ottenete, perché pregate male, cioè con l’intenzione di sperperare nei vostri piaceri.

Giacomo spiega perché essi pregano male: essi chiedono cose che servono solo al soddisfacimento dei loro piaceri. A quali piaceri egli pensi, non sappiamo. Probabilmente vuol colpire i sentimenti completamente terreni dei lettori, il loro: amore per il mondo, come mostra la sezione seguente.

v. 4. La dura apostrofe: adulteri!, dopo la frase precedente, non deve sorprendere molto. Nell’atteggiamento che cerca di soddisfare i piaceri, Giacomo vede una forma di illecito amore col mondo. Egli perciò esorta i suoi lettori a discostarsene e a sottomettersi interamente a Dio. Moikalìdes (= adultere) è un femminile e secondo Hauck sembra essere stato scelto perché Dio viene considerato come marito; l’appellativo è ovviamente inteso in senso metaforico e allude all’adulterio spirituale rappresentato dal disordinato amore per il mondo. L’immagine dell’adulterio deriva dalla tradizione biblica, secondo la quale Jahvè a motivo dell’Alleanza, è lo sposo di Israele e la defezione da Lui viene chiamata adulterio (Os 1,3; 9,1; Is 1,21; 50,1; ecc.). Gesù definisce i suoi avversari una generazione adultera e Paolo vede nella Chiesa la sposa di Cristo (2 Cor 11,2; Ef 5,22-24) così come anche Ap 19,7; 21,9. Chi preferisce essere amico del mondo, diventa perciò stesso nemico di Dio. Giacomo conosce solo la scelta univoca tra Dio e il mondo, senza alcun compromesso; esattamente come Gesù: Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona (Mt 6,24). Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde (Mt 12,30).

v. 5. Questo verso è costituito da una domanda ai destinatari; essa ha un tono quasi di sfida: non siete del tutto convinti? La Scrittura infatti non parla invano, cioè: quello che la Scrittura dice ha valore assoluto. E la Scrittura dice: Dio desidera gelosamente lo spirito che ha fatto abitare in voi. Dio vigila gelosamente sullo spirito che egli ha donato all’uomo al momento della sua creazione. Questa traduzione si inserisce ottimamente nel contesto: poiché Dio è geloso dello spirito dell’uomo, non sopporta alcuna tresca col mondo (v. 4); egli rivendica lo spirito dell’uomo per sé solo. Ma dove la Scrittura parla così? Forse è una parafrasi midrashica di Gen 49,19. Di un desiderio di Dio per l’opera delle sue mani ci parla espressamente Gb 14,15: Mi chiameresti e io risponderei, l’opera delle tue mani brameresti.

v. 6. Dio dà una grazia maggiore fa supporre un’altra grazia già conferita, che però non era così grande. Il v. 5 induce a concludere che questa grazia già donata all’uomo è il dono a prestito del soffio vitale. Dio però ha in animo di donare agli uomini una grazia ancora maggiore di quella della creazione, solo alla condizione, già menzionata dalla Scrittura (Pr 3,34), di un senso di umiltà da parte del ricevente. Con questa grazia maggiore si allude forse alla partecipazione all’eredità del regno di Dio (2,5) o -cosa più probabile- all’esaltazione escatologica (4,10).

vv. 7-8. Poiché Dio dà la grazia agli umili ne deriva l’esigenza parenetica: Sottomettetevi dunque a Dio, cioè diventate poveri e umili davanti a lui, perché possa donarvi la grazia più grande. I due imperativi resistete al diavolo e avvicinatevi a Dio manifestano in forma negativa e positiva la natura della sottomissione a Dio. L’antitesi mondo-Dio (v. 4) viene approfondita nell’antitesi diavolo-Dio.

Purificate le vostre mani è un’esortazione da intendere ovviamente in senso etico. A questa prima esortazione negativa è parallela la seconda, positiva santificate i vostri cuori. La correlazione mani-cuore in senso etico si trova già in Sal 24,4: Colui che ha mani innocenti e cuore puro e nel Sir 38,10: Fuggi l’iniquo, e rendi oneste le mani, e purifica il cuore da ogni peccato. Gli incerti (gr.= dìpsukoi) sono coloro che vivacchiano nella superficialità e indecisione religioso-morale, oscillanti tra Dio e il mondo. Leggiamo nel Sir 2,12: Guai al cuore pauroso e alle mani snervate e al peccatore che cammina su due strade.

v. 9. Seguono tre imperativi: Sentitevi miseri, affliggetevi e piangete. In essi risuona la voce del predicatore penitenziale che esorta alla conversione. Il riso (gr.= ghèlos) di cui parla qui è quello smodato. Nel Sir 21,20; e 27,12 questo riso è la caratteristica degli stolti. Il proverbio sentenzia: Il riso abbonda sulle labbra degli stolti. Secondo l’opinione dei rabbini in questo riso (ebr.= shahaq) si verifica il rifiuto di Dio come realtà che tutto ordina, e compare in esso l’affermazione dell’uomo come essere autonomo. Nel ridere dei peccatori si esprime la soddisfazione e la vanità mondana. Giacomo scrive che questa vanità mondana deve tramutarsi in tristezza e la gioia in abbattimento. Con ciò Giacomo non condanna la gioia vera e spirituale del cristiano (cfr. soltanto 2,1!), ma il contegno pagano e mondano.

v. 10. È un detto sapienziale che riassume e conclude la precedente serie di imperativi. Esso è formato da un ammonimento e da una promessa che rimandano chiaramente al v. 6. Dalla conversione deriva ai peccatori la salvezza.

vv. 11-12. L’occasione per la messa in guardia dalla calunnia possono essere le guerre e le battaglie scoppiate tra i destinatari e sempre collegate alle calunnie. Al calunniare, molto facilmente si accompagna il giudicare. Con la calunnia si esprime un atteggiamento odioso e subdolo, con il giudicare la spietatezza e l’autosicurezza (Hauck). Chi si comporta così denigra e giudica la legge, che ordina: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,16). Nel v. 12 appare espressamente il termine prossimo. Per Giacomo la violazione di un comandamento è molto di più che una semplice trasgressione: si mette la legge dalla parte del torto e ci si erge a suo giudice. Giudicare la legge significa emettere sentenze su di essa, cercando di correggerla e di fare eccezioni alla sua validità universale. La condotta del calunniatore, secondo Giacomo, conduce, in definitiva, alla negazione di Dio e quindi a peccare contro Dio e alla presuntuosa usurpazione di un ufficio di Dio: colui che giudica la legge divina, invece di adempierla, si erge a giudice. Uno solo è il legislatore e giudice significa che non si possono separare legislatore e giudice, e questo uno è Dio, il quale può salvare e perdere. Chi calunnia il prossimo e lo giudica, in un certo senso sottrae al legislatore divino il suo ufficio di giudice e lo pretende per sé, dimenticando che egli è in realtà un povero uomo, il quale verrà a sua volta giudicato.

Tutte le invettive e le parenesi da 4,1 in poi sono probabilmente motivate dalla mania legalistica di certi giudeo-cristiani nei confronti dei cristiani provenienti dal paganesimo. Questi giudeo-cristiani accusano appunto gli etnico-cristiani di essere dei trasgressori della legge.

Essi alimentano contese e litigi nelle comunità e calunniano e giudicano i loro fratelli che Dio ha chiamato alla salvezza. La loro critica fredda e presuntuosa in nome della legge è una violazione dell’amore verso i fratelli; così il loro comportamento pratico si identifica con una critica alla legge stessa, perché presumono di innalzarsi sul comandamento dell’amore del prossimo. In fondo, perciò, i vv. 11-12 racchiudono una condanna di quella farisaica sicurezza di sé e mania di criticare, che presumerebbe addirittura di anticipare il giudizio di Dio. Giacomo non ammette in seno alla comunità i conflitti in nome della legge. I giudaizzanti non possono appellarsi a lui, così come gli pseudo-paolinisti non possono appellarsi a Paolo.

 

(9)
Contro i progetti baldanzosi
4,13-17

13E ora a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», 14mentre non sapete cosa sarà domani!
Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. 15Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello. 16Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo. 17Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato.

Non risulta un nesso immediato con le precedenti considerazioni della lettera. Si può tuttavia intravedere una certa associazione di idee se si pensa al tema già accennato dell’amore del mondo e il fare mercato e guadagnare del v. 13. Anche il progetto della costruzione autonoma della vita (vv. 13-14) è un modo di pensare mondano. Giacomo deve aver scorto nelle comunità a cui scrive certe tendenze a guardare al futuro dimenticando che il futuro è nelle mani di Dio.

vv. 13-14. Quelli che qui vengono apostrofati dispongono con sicurezza non solo dell’oggi e del domani, ma di un anno intero. La mèta del viaggio è già fissata, e l’intenzione è far guadagni. Giacomo vuole scuotere una così indiscussa sicurezza. L’esistenza futura è del tutto incerta e di essa non si può disporre.

Egli richiama gli autosufficienti a riconoscere tutta la profonda insicurezza dell’esistenza umana. Essi stessi, e non solo la loro vita, sono fumo, vapore, che passa rapidamente. In realtà la nostra vita e il nostro futuro non sono nelle nostre mani, ma in quelle del Signore.

v. 15. Anche il cristiano può fare piani per il futuro, ma sottoponendoli alla condizione: se il Signore vuole.

v. 16. I destinatari della lettera invece di dire se il Signore vuole fanno il contrario e si gloriano delle loro vanterie. Viene così designato e bollato ogni tentativo di progettazione come boriosa millanteria. Non si tratta dunque soltanto di una progettazione incurante e spensierata, ma anche della superbia connessa a tale attività, che crede di poter autonomamente disporre della vita e del tempo. Ogni progetto, che lascia Dio al di fuori di ogni considerazione, è cattivo.

v. 17. Qual è il nesso logico di questo versetto con il precedente? Nel v. 16 la millanteria era stata designata come cattiva. Se teniamo presente questo giudizio, traspare il nesso: ciò che è moralmente cattivo è, per sua natura, peccato.

Perciò l’agire di questi millantatori, cioè la loro autonoma progettazione della vita, è peccato. Ciò che in questi versetti Giacomo scrive alle comunità della diaspora vale per i cristiani di tutti i tempi.

 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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