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COMMENTO ALLA LETTERA DI GIACOMO

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2011 11:56
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22/11/2011 11:51
 
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(4)
Culto della personalità e giudizio imminente

1Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria. 2Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. 3Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», 4non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?
5Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? 6Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? 7Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? 8Certo, se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene; 9ma se fate distinzione di persone, commettete un peccato e siete accusati dalla legge come trasgressori. 10Poiché chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto; 11infatti colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche: Non uccidere.
Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della legge. 12Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché 13il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio.

Giacomo passa improvvisamente a parlare di un tema nuovo, che però si ricollega a ciò che egli intende per vera religiosità (= cura dei poveri). Tuttavia lo si può considerare uno sviluppo più dettagliato dell’esigenza manifestata in 1,27b (= far visita agli orfani e alle vedove nella loro afflizione). Infatti egli tratta un caso che smaschera nella comunità il falso culto della personalità; in questo modo vuol far valere l’onore conferito al povero da Dio stesso. Questa volta Giacomo non si accontenta di una breve parenesi, ma tratta il caso diffusamente e in tono molto vivace.

v. 1. L’ormai familiare allocuzione fratelli miei con cui viene introdotta anche questa parenesi, comporta sempre un cordiale e pressante appello ai destinatari.

Segue, in forma imperativa, un’ammonizione a non collegare la fede cristiana al culto della personalità. Simili casi di culto della personalità sono per Giacomo inconciliabili con la fede del nostro Signore Gesù Cristo della gloria. L’accenno a Gesù Cristo, il Kyrios glorioso della comunità cristiana, sta in efficace contrasto con qualsiasi culto della personalità. Colui che pratica un tale culto, agisce come se il Signore della gloria per la comunità cristiana non fosse più Gesù, ma un altro o altri: quei ricchi il cui ingresso nell’assemblea cultuale della comunità viene festeggiato come una epifania del Kyrios Gesù. Il culto della persona pone così la gloria mondana dei ricchi al posto della gloria di Gesù, la sola valida, ed è pertanto inconciliabile con la fede cristiana.

vv. 2-3. Questo esempio altamente efficace illumina tale inconciliabilità. Si tratta di un accorgimento stilistico da non prendere alla lettera. Con ciò non si esclude che vi fossero nella comunità motivi concreti per trattare l’argomento in questo modo, diversamente non si capirebbe perché Giacomo ne scriva. Difatti presenta il fatto come se avvenisse nella vostra assemblea. La distinzione tra il povero e il ricco per Giacomo qui forse ha un’importanza relativa: a lui interessa unicamente la reazione della comunità. Lo sguardo dei presenti si dirige automaticamente verso il ricco, mentre degnano il povero appena di un’occhiata. La descrizione diventa particolarmente viva con l’impiego del discorso diretto. Il ricco viene subito invitato dalla comunità ad accettare un buon posto a sedere, mentre al povero si assegna soltanto un posto in piedi o, al più, un posto sul pavimento, più in basso di uno sgabello o di un poggiapiedi. Il disonorante trattamento del povero raggiunge il culmine con l’uso del pronome personale mou dopo upopòdion, il poggiapiedi di me. Chi parla impone al povero di prendere posto in basso, più giù del proprio sgabello, e così innalza se stesso al di sopra di lui.

v. 4. Giacomo in forma molto efficace rivolge ai destinatari una prima domanda: essi vengono così coinvolti nel caso in modo ancor più personale. Non avete fatto, in questo caso, distinzioni nel vostro intimo? Il v. 4 parla di sentimenti perversi: hanno trattato il ricco e il povero in modo così difforme perché sono giudici dai sentimenti perversi, ossia totalmente diversi rispetto a quelli di Dio.

v. 5. L’esortazione Ascoltate fratelli miei diletti ha valore di implorazione: Considerate cosa significhi un simile comportamento perché è proprio l’opposto dei sentimenti e del comportamento di Dio. Dio ha scelto i poveri è un’importante verità, frequentemente ripetuta nella Bibbia.

I poveri non sono interessanti per il mondo, non contano nulla. Dio invece ha interesse per loro e ha scelto proprio loro. La scelta di Dio impone dei capovolgimenti dei valori che contano davanti al mondo: ora non è più ricco chi porta anelli d’oro o vestiti lussuosi, ma chi è eletto da Dio. La fede in Dio accorda già ora ricchezze spirituali, vere e durature.

L’espressione eredi del regno richiama il discorso delle beatitudini: Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio (Lc 6,20). Giacomo ha visto il pericolo, tutt’altro che teorico, che anche nella comunità cristiana si infiltrassero le differenziazioni classistiche particolarmente forti nella antichità e così si oscurasse l’intenzione salvifica di Dio, il quale aveva eletto proprio i poveri. Egli si accorge che nella comunità viene accordata un’eccessiva reputazione ai ricchi, a svantaggio dei poveri.

E tutto questo contraddice la parola di Dio: Non si deve disprezzare un povero saggio, né onorare alcun uomo potente (Sir 10,27); beati voi poveri ... ahimè per voi ricchi (Lc 6,20-24).

vv. 6-7. Le invettive della lettera contro i ricchi ricordano espressioni simili dei profeti (Ger 5,26-27; Mi 6,11-12; ecc.). Gli enunciati di Giacomo contro i ricchi sono del tutto generalizzanti, e l’espressione essi vi trascinano davanti ai tribunali mostra che egli identifica i ricchi con i potenti senza Dio. Probabilmente accenna alle esperienze delle persecuzioni, cui erano esposte le comunità cristiane, specialmente da parte dei giudei.

L’invocazione del nome di Gesù sui cristiani avveniva nel battesimo; con ciò si diventava sua proprietà, come Israele diventò il popolo dell’Alleanza perché su di esso fu invocato il nome di Jahvè (Ger 14,9; Dt 28,10; Sal 9,9). Il bel nome di Gesù è oltraggiato dai persecutori della comunità cristiana, così come Gesù sulla croce fu oltraggiato dai suoi avversari.

vv. 8-9. I cristiani non solo disonorano il povero mediante la preferenza fatta al ricco nella loro assemblea comunitaria, ma trasgrediscono l’espresso comando di Dio, che ha ordinato: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). Chi invece esercita il culto della persona nei riguardi dei ricchi, compie peccato. Amore del povero e culto dei ricchi si escludono a vicenda. La legge che convince come trasgressori coloro che hanno preferenze per i ricchi a scapito dei poveri è la Bibbia.

v. 10. Chi manca a un solo comandamento, si rende colpevole di tutti perché la legge è un tutto indivisibile.

Questa tesi singolare e quasi sorprendente viene esposta più dettagliatamente nei versi seguenti.

v. 11. La motivazione viene addotta sulla base dell’unico legislatore, che ha emanato tutti i comandamenti. Appunto perché la trasgressione di un qualsiasi comandamento è rivolta sempre contro la volontà del medesimo legislatore, essa è una violazione dell’intera legislazione. La santa volontà di Dio è unica e non si può dividere: non ammette quindi eccezioni. Pertanto, chi viene meno a un solo comandamento manca contro tutta la legge. Ciò sembra a prima vista di un rigore straordinario, ma a una più approfondita considerazione appare fondato sulla santità stessa di Dio. L’indivisibile volontà di Dio viene espressa nel decalogo. Fare eccezione su uno solo dei suoi comandamenti sarebbe intaccare l’unità della sua santa volontà. Soprattutto chi trasgredisce il regale comandamento dell’amore del prossimo, è diventato in linea di principio trasgressore della legge, perché non ha trasgredito un singolo comandamento, ma ha distrutto tutto l’ordinamento etico promanante da Dio, fondato sulla santità di Dio. I singoli comandamenti sono soltanto emanazioni dell’unica e indivisibile volontà di Dio. Il medesimo che ha detto: Non commettere adulterio, ha anche detto: Non uccidere. Perché ora Giacomo, richiamandosi al comandamento regale dell’amore parla proprio di adulterio e di omicidio ? Lo fa perché il rifiuto di amare il prossimo era ritenuto, già nella tradizione precedente, una specie di assassinio. E se si suppone che agli occhi di Giacomo l’amoreggiare coi ricchi sia una specie di adulterio spirituale, si comprende come egli abbia potuto scegliere dal decalogo gli esempi (commettere adulterio e uccidere) in cosciente riferimento al suo caso.

v. 12. Il retto parlare e il retto agire stanno grandemente a cuore a Giacomo. Infatti saremo giudicati mediante la legge della libertà. Per legge della libertà si intende la rivelazione etica di Dio e di Gesù, la quale vuole e può condurre gli uomini alla libertà, e la cui esigenza principale consiste nel comandamento dell’amore.

Con ciò è già detto chiaramente che il compimento del comandamento dell’amore fornirà la misura decisiva per il giudizio, come leggiamo nell’insegnamento di Gesù (Mt 7,19; 25,31-46) e come Giacomo spiegherà a fondo con passione nella grande sezione seguente.

v. 13. La misericordia viene qui interpretata nel senso del comandamento dell’amore: ama il prossimo, cioè sii misericordioso con il povero!

Ne risulta così anche un passaggio organico al testo seguente, in cui si tratta proprio della misericordia verso i fratelli e le sorelle bisognosi, che può salvare l’uomo nel giorno del giudizio.

Questo versetto viene introdotto con una motivazione (infatti). La precedente minaccia del giudizio viene motivata con un pensiero sottinteso: bisogna temere il giudizio, infatti, non ci sarà misericordia verso coloro che non sono misericordiosi. C’è una chiara corrispondenza con la dottrina di Gesù (Mt 5,7; 18,29-34; 25,45-46). Il detto conclusivo la misericordia trionfa sul giudizio ha il tono di una sentenza. Il detto vuol essere un’ultima giustificazione e, insieme, un ammonimento ai lettori.

Questi enunciati conclusivi sul tema legge e giudizio non costituiscono un semplice codicillo alla precedente condanna del culto della persona, ma un efficace motivo congiunto a un pensiero escatologico: pensate al giudizio, che verrà condotto secondo il metro del vostro amore e della vostra misericordia.

(5)
L'importanza della fede e delle opere per la giustificazione dell'uomo
2,14-26

Giacomo insiste irremovibilmente su un cristianesimo dell’azione, che però non è soltanto azione, ma anche fede. Il cristianesimo si fonda sulla fede. Giacomo in questa lettera ha già parlato della fede (1,3; 2,1). Ma nella seconda parte del cap. 1 si è già anche energicamente espresso nei riguardi di chi ascolta solamente e non mette in pratica (2,25) e ha caratterizzato con ciò la sua visione del cristianesimo. Ora parla della inutilità della fede infruttuosa ed esige una fede che si manifesta nelle opere e in esse si dimostra vivente e perfetta. I vv. 2,14-26 possono essere considerati come la parte centrale della lettera.

 

5.1
L’inutilità di una fede senza opere
(2,14-20)

14Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. 19Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! 20Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore?

v. 14. Che utilità ha la sola fede di fronte al giudizio (v. 13) e per la definitiva salvezza (v. 14)? Che utilità c’è, in senso escatologico, se qualcuno dice: Io ho la fede, ma non ha le opere? Giacomo si pone di fronte a qualcuno. Costui è un rappresentante immaginario dello pseudopaolinismo combattuto da Giacomo, ma non si tratta in nessun modo di Paolo. Il fatto che Giacomo discuta in modo così minuzioso e appassionato il rapporto tra fede e opere e la loro importanza per la giustificazione dell’uomo, ci fa supporre che le concezioni dello pseudopaolinismo erano note ai destinatari della lettera.

Il termine salvarlo stabilisce il collegamento concettuale con l’ultimo versetto della sezione precedente (v. 13) dove si parlava di giudizio, che raggiunge chi non ha esercitato la misericordia verso i poveri.

Nel giudizio senza misericordia verso chi non usa misericordia si trova il vero e immediato motivo che ora porta Giacomo a parlare delle opere; infatti il fare misericordia si attua nelle opere. L’avversario si giustifica dicendo: A che mi servono le opere, dato che ho la fede?. Giacomo polemizza contro questa obiezione. Già le due domande del v. 14 lasciano intendere chiaramente la sua opinione sul rapporto tra fede e opere: la fede, se non è dimostrata viva mediante le opere, non può salvare l’uomo dal giudizio di Dio. Per illuminare meglio il suo pensiero, porta un paragone con il quale dimostra che è assurdo il parere dell’avversario sulla sola fede come mezzo di salvezza dal giudizio. Il v. 14, come il 2,1, serve a presentare il tema per tutta la sezione che segue.

vv. 15-16. Il caso presentato non deve servire come esempio della fede priva di opere, ma come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose, così una fede senza opere non serve a nulla per la salvezza nel giudizio divino.

v. 17. Questo verso trae la conclusione dal paragone offerto dal caso: così anche la fede. La fede è morta per se stessa significa: è infruttuosa. Per Giacomo dunque è fede viva e vera solo quella che ha le opere, cioè che si esercita praticamente nella vita, soprattutto mediante l’aiuto concreto al prossimo bisognoso; è la stessa fede che Paolo intende in Gal 5,6 quando parla della fede che opera per mezzo della carità. Intanto si vede già, con tutta chiarezza, ciò che Giacomo intende per opere: non le opere della legge, alle quali Paolo non riconosce alcuna forza giustificante, ma le opere dell’amore del prossimo.

v. 18. Questo verso è particolarmente difficile da interpretare, specialmente nella prima parte, e le opinioni degli esperti sul suo significato differiscono notevolmente. Il significato sembra essere questo: Fammi dunque vedere la tua fede! Come potrai fare senza rinviare alle opere, nelle quali si rivela proprio la vera fede?! È davvero impossibile! Io invece posso farlo più facilmente: ti faccio vedere la fede nelle opere. Le mie opere dimostrano la fede viva!.

v. 19. La discussione con l’avversario viene ora condotta con tono molto vivace. Egli viene apostrofato direttamente (Tu credi) e viene detto in qual modo egli cerchi di dimostrare la sua fede, cioè mediante il suo contenuto: Tu credi che esiste un solo Dio. Fai bene. È giusto credere che esista un solo Dio, ma non basta per essere salvati. Una fede simile ce l’hanno anche i démòni, ma non giova alla loro salvezza.

v. 20. Con il rimando alla fede dei démòni Giacomo vuol far capire che una fede senza opere è inutile davanti a Dio. L’inutilità della fede senza le opere viene confermata nel brano seguente con due esempi biblici: Abramo (vv. 21-23) e la meretrice Raab (v. 25).

 

5.2
Fondamenti biblici
(2,21-26)

21Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta 23e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. 25Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? 26Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

v. 21. Il libro della Genesi fornisce il primo esempio, mediante la storia di Abramo. L’ebreo parlava con orgoglio del suo capostipite: Abramo, nostro padre. Paolo insegna che sono figli di Abramo quelli che sono dalla fede (Rm 4,11.12.16).

Dio ha giustificato Abramo quando questi portò il figlio Isacco sull’altare. Proprio nella prontezza ad offrire a Dio il suo unico amato figlio, Giacomo riconosce il motivo della giustificazione del Patriarca, cioè dalle opere. Certo, secondo Gen 15,6 è la fede che viene computata come giustizia ad Abramo; ma non per questo l’interpretazione di Giacomo circa il racconto del sacrificio di Isacco è falsa. Giacomo infatti ha ragione di vedere nella prontezza di Abramo a sacrificare il figlio il fondamento della sua giustificazione dalle opere.

Difatti in Gen 22,16-18 la rinnovata promessa di Dio ad Abramo che egli avrebbe avuto una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare, nella quale saranno benedetti tutti i popoli della terra, non è collegata alla fede del Patriarca, ma alla sua azione e alla sua obbedienza: poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico che hai, io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza ... in premio del fatto che tu hai obbedito alla mia voce. Nel fare e obbedire di Abramo, Giacomo ha scorto evidentemente le opere e, nella promessa rinnovata a motivo di tali opere, la sua giustificazione.

v. 22. Il verso accenna di nuovo all’avversario e fa appello alla sua intelligenza: vedi dal mio esempio biblico che, nel caso del nostro padre Abramo, la fede cooperava con le sue opere. Il verbo sunerghèin (cooperare), se ben considerato, consente di comprendere meglio il concetto di fede che ha Giacomo. Esso dimostra che Giacomo non intende far valere le opere contro la fede, ma sottolineare la loro unità inscindibile in una sintesi vivente e convincente. Giacomo non dice nemmeno che le opere collaborano con la fede, ma, viceversa, che la fede collabora con le opere: la fede è per lui il valore primario. È inconcepibile per Giacomo l’alternativa: fede oppure opere: La fede di Abramo fu completata dalle opere (v. 22).

E questo significa che senza le opere la fede è un abbozzo, qualcosa di incompiuto. Solo con le opere la fede acquista la sua integrità, la sua completezza. Per Giacomo la fede è qualcosa di dinamico: le opere realizzano la natura della fede e producono la sua maturazione.

v. 23. Il nesso di questa citazione (Ma Abramo credette a Dio) con la precedente argomentazione suggerisce dove stia in concreto per Giacomo il compimento di Gen 15,6: nella operante prontezza ad offrire suo figlio. In questa opera si adempie una affermazione della Scrittura; quindi il v. 23 ha questo senso: allora si dimostrò giusto il detto di Gen 15,6 sulla fede di Abramo.

Egli con la sua condotta posteriore non annullò, ma compì la sua fede: nella prontezza ad offrire Isacco, la fede di Abramo giunse alla sua piena validità e completezza. Il suo comportamento fu espressione ed emanazione della sua fede e la sua fede conduceva a una simile condotta.

Ad Abramo la fede fu imputata a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Come appellativo onorifico amico di Dio supera certamente quello di uomo giusto: esso esprime l’intima amicizia tra Dio e Abramo. Per quanto riguarda che cosa fu propriamente computato ad Abramo come giustizia, Giacomo risponde: la sua fede, ma proprio in quanto essa si è dimostrata vera nelle opere.

v. 24. Il verso enuncia il principio teologico, la regola generale derivante dal caso di Abramo. L’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede soltanto. Questo soltanto va particolarmente sottolineato se si vuol comprendere chiaramente il pensiero di Giacomo circa il rapporto fede-opere. Esso ha un duplice significato:

• Giacomo non afferma affatto che la fede non abbia alcun valore giustificante, ma che la giustificazione non proviene dalla fede soltanto, bensì anche dalle opere; meglio ancora: da una fede che si dimostra tale nelle opere;

• d’altra parte, non dalla fede soltanto significa anche che neppure le sole opere hanno valore giustificante. Fede ed opere stanno dunque per Giacomo in rapporto sinergetico (sunerghèin: v. 22): le opere risultano necessariamente da una fede viva.

v. 25. Qui non si dice nulla della fede di Raab, ma ne parlano altrove le Scritture. In Gs 2,9 ss ella dice agli esploratori ebrei: Io so che Jahvè vi dà il paese ... Infatti Jahvè vostro Dio, è Dio in alto nel cielo e in basso sulla terra...

È certo per questa professione di fede che Raab, anche in Eb 11,31, viene inserita tra gli eroi dell’Antico Testamento: Per la fede Raab, la meretrice, non perì con gli increduli, avendo accolto pacificamente gli esploratori; anche qui la sua fede viene collegata al suo modo di comportarsi con gli esploratori.

Tale opera viene considerata come derivante dalla sua fede nel Dio d’Israele. Le opere, per le quali questa pagana fu giustificata, consisterebbero nella pacifica accoglienza degli esploratori in casa sua, senza tradirli, e nell’avere resa possibile la fuga segreta da Gerico.

La giustificazione della meretrice consistette nella salvezza sua e di tutta la sua famiglia dalla distruzione di Gerico (Gs 6,22-25).

Secondo la tradizione rabbinica, che forse Giacomo ha presente, Raab fu benedetta con una discendenza da cui uscirono otto sacerdoti e otto profeti, tra cui il profeta Geremia.

v. 26. È la sentenza conclusiva. Giacomo forma il suo ultimo giudizio mediante un paragone che deve servire a dare fondamento alla sua tesi.

Le opere dell’amore fanno sì che la fede sia una fede viva, che salva.

 

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Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Quegli rispose: «E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?». At 8,30
 
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