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TESTI SCELTI DEI PAPI PRECEDENTI

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2017 23:59
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02/09/2016 07:00
 
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Dal «Discorso sulle beatitudini» di san Leone Magno, papa

(Disc. 95, 2-3; PL 54, 462)
Beati i poveri in spirito

Il valore dell'umiltà lo acquistano più facilmente i poveri che i ricchi. Infatti i poveri nella scarsità dei mezzi hanno per amica la mitezza. I ricchi nell'abbondanza hanno come loro familiare l'arroganza.
Non si deve negare, tuttavia, che in molti ricchi si trovi quella disposizione a usare della propria abbondanza non per orgogliosa ostentazione, ma per opere di bontà. Essi considerano grande guadagno ciò che elargiscono a sollievo delle miserie e delle sofferenze altrui.
Questa comunanza di virtuosi propositi si può riscontrare fra gli uomini di tutte le categorie. Molti effettivamente possono essere uguali nelle disposizioni interiori anche se rimangono differenti nella condizione economica. Ma non importa quanto differiscano nel possesso di sostanze terrene, quando si trovano accomunati nei valori spirituali.
Beata quella povertà che non cade nel laccio teso dall'amore dei beni temporali, né brama di aumentare le sostanze del mondo, ma desidera ardentemente l'arricchimento dei tesori celesti.
Un modello di questa povertà magnanima ce l'hanno offerto per primi gli apostoli, dopo il Signore. Essi lasciarono tutte le loro cose senza distinzione e, richiamati dalla voce del divino Maestro, da pescatori di pesci si sono rapidamente cambiati in pescatori di uomini (cfr. Mt 4, 19).
Essi resero uguali a sé molti, quanti cioè imitarono la loro fede. Era quello il tempo in cui i primi figli della Chiesa erano «un cuor solo e un'anima sola» (At 4, 32). Separatisi da tutto ciò che possedevano, si arricchivano di beni eterni, attraverso una povertà squisitamente religiosa.
Avevano imparato dalla predicazione apostolica la gioia di non aver nulla e di possedere tutto con Cristo. Per questo san Pietro apostolo quando all'ingresso del tempio fu richiesto dell'elemosina dallo zoppo disse: «Non possiedo né argento, né oro, ma quello che ho te lo do. Nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina» (At 3, 6).
Quale cosa vi può essere di più sublime di questa umiltà? Quale cosa più ricca di questa povertà? Non ha la garanzia del denaro, ma conferisce i doni della natura. Quell'uomo che la madre generò infermo dal suo seno, Pietro rese sano con la parola. E colui che non diede l'immagine di Cesare stampata sulla moneta, riformò l'immagine di Cristo nell'uomo. I benefici di questo tesoro non li sperimentò solo colui che acquistò la possibilità di camminare, ma anche quei cinquemila uomini che, dopo le esortazioni dell'Apostolo, credettero in virtù della guarigione miracolosa da lui operata (cfr. At 4, 4).
Quel povero, che non aveva nulla da dare al questuante, diede tanta copia di grazia divina, che risanò un uomo nei suoi arti e guarì tante migliaia di uomini nei cuori. Restituì agili, sulla via di Cristo, coloro che aveva trovato zoppicare nella infedeltà giudaica.
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03/09/2016 07:47
 
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Dalle «Omelie su Ezechiele» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 1, 11, 4-6; CCL 142, 170-172)
Per amore di Cristo
non risparmio me stesso nel parlare di lui

«Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele» (Ez 3, 16). È da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque è posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza.
Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco me stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può.
Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mia lentezza e negligenza. Forse lo stesso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso.
Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalle parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione. Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale, l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte faccende.
Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi.
Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità.
Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola?
Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere.
Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza?
Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficienza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di lui.
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04/09/2016 07:48
 
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Dal «Discorso sulle beatitudini» di san Leone Magno, papa

(Disc. 95, 6-8; PL 54, 464-465)
La sapienza cristiana

Il Signore dice: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). Questa fame non ha nulla a che vedere con la fame corporale e questa sete non chiede una bevanda terrena, ma desidera di avere la sua soddisfazione nel bene della giustizia. Vuole essere introdotta nel segreto di tutti i beni occulti e brama di riempirsi dello stesso Signore.
Beata l'anima che aspira a questo cibo e arde di desiderio per questa bevanda. Non lo ambirebbe certo se non ne avesse già per nulla assaporato la dolcezza. Ha udito il Signore che diceva: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33, 9). Ha ricevuto una parcella della dolcezza celeste. Si è sentita bruciare dell'amore della castissima voluttà, tanto che, disprezzando tutte le cose temporali, si è accesa interamente del desiderio di mangiare e bere la giustizia. Ha imparato la verità di quel primo comandamento che dice: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6, 5; cfr. Mt 22, 37; Mc 12, 30; Lc 10, 27). Infatti amare Dio non è altro che amare la giustizia. Ma come all'amore di Dio si associa la sollecitudine per il prossimo, così al desiderio della giustizia si unisce la virtù della misericordia. Perciò il Signore dice: «Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia» (Mt 5, 7).
Riconosci, o cristiano, la sublimità della tua sapienza e comprendi con quali dottrine e metodi vi arrivi e a quali ricompense sei chiamato! Colui che è misericordia vuole che tu sia misericordioso, e colui che è giustizia vuole che tu sia giusto, perché il Creatore brilli nella sua creatura e l'immagine di Dio risplenda, come riflessa nello specchio del cuore umano, modellato secondo la forma del modello. La fede di chi veramente la pratica non teme pericoli. Se così farai, i tuoi desideri si adempiranno e possiederai per sempre quei beni che ami.
E poiché tutto diverrà per te puro, grazie all'elemosina, giungerai anche a quella beatitudine che viene promessa subito dopo dal Signore con queste parole: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).
Grande, fratelli, è la felicità di colui per il quale è preparato un premio così straordinario. Che significa dunque avere il cuore puro, se non attendere al conseguimento di quelle virtù sopra accennate? Quale mente potrebbe afferrare, quale lingua potrebbe esprimere l'immensa felicità di vedere Dio?
E tuttavia a questa meta giungerà la nostra natura umana, quando sarà trasformata: vedrà, cioè, la divinità in se stessa, non più «come in uno specchio, né in maniera confusa, ma a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), così come nessun uomo ha mai potuto vedere. Conseguirà nella gioia ineffabile dell'eterna contemplazione «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d'uomo» (1 Cor 2, 9).
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05/09/2016 07:04
 
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Dal «Discorso sulle beatitudini» di san Leone Magno, papa

(Disc. 95, 8-9; PL 54, 465-466)
Grande pace per chi ama la legge di Dio

È giusto che la beatitudine della visione di Dio venga promessa ai puri di cuore. L'occhio ottenebrato infatti non potrebbe sostenere lo splendore della vera luce: ciò che formerà la delizia per le anime pure, sarà causa di tormento per quelle macchiate dal peccato. Evitiamo dunque l'oscura caligine delle vanità terrene, e gli occhi dell'anima si lavino da ogni sozzura di peccato, perché il nostro sguardo limpido possa pascersi della sublime visione di Dio.
Proprio perché ci adoperassimo a meritare questa visione il Signore disse: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5, 9). Questa beatitudine, fratelli, non si riferisce ad una qualsiasi intesa o accordo, ma a quello di cui parla l'Apostolo: Abbiate pace con Dio (cfr. Rm 5, 1), e di cui il profeta dice: «Grande pace per chi ama la tua legge, nel suo cammino non trova inciampo» (Sal 118, 165).
Non possono pretendere di possedere questa pace né i vincoli più stretti di amicizia, né la somiglianza più perfetta di carattere se non sono in armonia con la volontà di Dio. Fuori di questa sublime pace troviamo soltanto connivenze e associazioni a delinquere, alleanze malvage e i patti del vizio.
L'amore del mondo empio non si concilia con quello di Dio. Colui che non si distacca dalla generazione secondo la carne non arriva a far parte della comunità dei figli di Dio. Coloro invece che hanno la mente fissa in Dio, «cercando di conservare l'unità dello spirito, per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4, 3), non si discostano mai dalla legge eterna. Essi dicono con sincera fede la preghiera: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6, 10).
Questi sono gli operatori di pace, questi sono veramente unanimi e santamente concordi, degni di essere chiamati in eterno figli di Dio e coeredi di Cristo (cfr. Rm 8, 17). Infatti l'amore di Dio e l'amore del prossimo li renderà meritevoli del grande premio. Non sentiranno più nessuna avversità, non temeranno più ostacoli o insidie, ma, terminata la lotta e tutte le tribolazioni, riposeranno nella più tranquilla pace di Dio. Per il Signore nostro, che con il Padre e lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.
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29/09/2016 08:11
 
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Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa

(Om. 34, 8-9; PL 76, 1250-1251)
L'appellativo «angelo» designa l'ufficio,
non la natura

È da sapere che il termine «angelo» denota l'ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli.
Per questo alla Vergine Maria non viene inviato un angelo qualsiasi, ma l'arcangelo Gabriele. Era ben giusto, infatti, che per questa missione fosse inviato un angelo tra i maggiori, per recare il più grande degli annunzi.
A essi vengono attribuiti nomi particolari, perché anche dal modo di chiamarli appaia quale tipo di ministero è loro affidato. Nella santa città del cielo, resa perfetta dalla piena conoscenza che scaturisce dalla visione di Dio onnipotente, gli angeli non hanno nomi particolari, che contraddistinguano le loro persone. Ma quando vengono a noi per qualche missione, prendono anche il nome dall'ufficio che esercitano.
Così Michele significa: Chi è come Dio?, Gabriele: Fortezza di Dio, e Raffaele: Medicina di Dio.
Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall'azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. L'antico avversario che bramò, nella sua superbia, di essere simile a Dio, dicendo: Salirò in cielo (cfr. Is 14, 13-14), sulle stelle di Dio innalzerò il trono, mi farò uguale all'Altissimo, alla fine del mondo sarà abbandonato a se stesso e condannato all'estremo supplizio. Orbene egli viene presentato in atto di combattere con l'arcangelo Michele, come è detto da Giovanni: «Scoppiò una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago» (Ap 12, 7).
A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio; egli veniva ad annunziare colui che si degnò di apparire nell'umiltà per debellare le potenze maligne dell'aria. Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero.
Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni.
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02/10/2016 09:25
 
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Dalla «Regola pastorale» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 2, 4; PL 77, 30-31)
Il pastore sia accorto nel tacere,
tempestivo nel parlare

Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch'è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato. Un discorso imprudente trascina nell'errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch'è giusto e, al dire di Cristo ch'è la verità, non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all'arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio.
Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56, 10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13, 5). Salire sulle brecce significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. Resistere al combattimento nel giorno del Signore vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi.
Cos'è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un voltar le spalle al nemico con il suo silenzio? Se invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d'Israele. Per questo al popolo che ricadeva nuovamente nell'infedeltà fu detto: «I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità, per cambiare la tua sorte» (Lam 2, 14). Nella Sacra Scrittura col nome di profeti son chiamati talvolta quei maestri che, mentre fanno vedere la caducità delle cose presenti, manifestano quelle future.
La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano invano i colpevoli con le promesse di sicurezza, e non svelano l'iniquità dei peccatori, ai quali mai rivolgono una parola di riprensione.
Il rimprovero è una chiave. Apre infatti la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da quello che l'ha commessa. Per questo Paolo dice: «Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1, 9). E anche il profeta Malachia asserisce: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l'istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2, 7).
Per questo il Signore ammonisce per bocca di Isaia: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» (Is 58, 1).
Chiunque accede al sacerdozio si assume l'incarico di araldo, e avanza gridando prima dell'arrivo del giudice, che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, egli, araldo muto qual è, come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, e rese subito capaci di annunziarlo coloro che egli aveva riempito.
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10/11/2016 05:02
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 4, 1-2; PL 54, 148-149)
Il servizio specifico del nostro ministero

Tutta la Chiesa di Dio è ordinata in gradi gerarchici distinti, in modo che l'intero sacro corpo sia formato da membra diverse. Ma, come dice l'Apostolo, tutti noi siamo uno in Cristo (cfr. Gal 3, 28). La divisione degli uffici non è tale da impedire che ogni parte, per quanto piccola, sia collegata con il capo. Per l'unità della fede e del battesimo c'è dunque fra noi, o carissimi, una comunione indissolubile sulla base di una comune dignità. Lo afferma l'apostolo Pietro: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5), e più avanti: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato» (1 Pt 2, 9).
Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l'unzione dello Spirito Santo poi sono consacrati sacerdoti. Non c'è quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani sono rivestiti di un carisma spirituale e soprannaturale, che li rende partecipi della stirpe regale e dell'ufficio sacerdotale. Non è forse funzione regale il fatto che un'anima, sottomessa a Dio, governi il suo corpo? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull'altare del cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? Per grazia di Dio queste funzioni sono comuni a tutti. Ma da parte vostra è cosa santa e lodevole che vi rallegriate per il giorno della nostra elezione come di un vostro onore personale. Così tutto il corpo della Chiesa riconosce che il carattere sacro della dignità pontificia è unico. Mediante l'unzione santificatrice, esso rifluisce certamente con maggiore abbondanza nei gradi più alti della gerarchia, ma discende anche in considerevole misura in quelli più bassi.
La comunione di tutti con questa nostra Sede è, quindi, o carissimi, il grande motivo della letizia. Ma gioia più genuina e più alta sarà per noi se non vi fermerete a considerare la nostra povera persona, ma piuttosto la gloria del beato Pietro apostolo.
Si celebri dunque in questo giorno venerando soprattutto colui che si trovò vicino alla sorgente stessa dei carismi e da essa ne fu riempito e come sommerso. Ecco perché molte prerogative erano esclusive della sua persona e, d'altro canto, niente è stato trasmesso ai successori che non si trovasse già in lui.
Allora il Verbo fatto uomo abitava già in mezzo a noi. Cristo aveva già dato tutto se stesso per la redenzione del genere umano.
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12/11/2016 09:06
 
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Dall'enciclica «Ecclesiam Dei» di Pio XI, papa

(AAS 15 [1923] 573-582)
Versò il suo sangue per l'unità della Chiesa

La Chiesa di Dio, per ammirabile provvidenza, fu costituita in modo da riuscire nella pienezza dei tempi come un'immensa famiglia. Essa è destinata ad abbracciare l'universalità del genere umano e perciò, come sappiamo, fu resa divinamente manifesta per mezzo dell'unità ecumenica che è una delle sue note caratteristiche. Cristo, Signor nostro, non si appagò di affidare ai soli apostoli la missione che egli aveva ricevuto dal Padre, quando disse: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 18-19). Ma volle pure che il collegio apostolico fosse perfettamente uno, con doppio e strettissimo vincolo. Il primo è quello interiore della fede e della carità, che è stata riversata nei cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rm 5, 5). L'altro è quello esterno del governo di uno solo sopra tutti. A Pietro, infatti, fu affidato il primato sugli altri apostoli come a perpetuo principio e visibile fondamento di unità.
Ma perché tale unità e concordia si perpetuasse, Iddio, sommamente provvido, la volle consacrare, per così dire, col sigillo della santità e, insieme, del martirio. Un onore così grande è toccato appunto a san Giosafat, arcivescovo di Polock, di rito slavo orientale, che a buon diritto va riconosciuto come gloria e sostegno degli Slavi orientali. Nessuno diede al loro nome una rinomanza maggiore, o provvide meglio alla loro salute di questo loro pastore ed apostolo, specialmente per aver egli versato il proprio sangue per l'unità della santa Chiesa. C'è di più. Sentendosi mosso da ispirazione divina a ristabilire dappertutto la santa unità, comprese che molto avrebbe giovato a ciò il ritenere nell'unione con la Chiesa cattolica il rito orientale slavo e l'istituto monastico basiliano.
E parimenti, avendo anzitutto a cuore l'unione dei suoi concittadini con la cattedra di Pietro, cercava da ogni parte argomenti efficaci a promuoverla e a consolidarla, principalmente studiando quei libri liturgici che gli Orientali, e i dissidenti stessi, sono soliti usare secondo le prescrizioni dei santi padri.
Premessa una così diligente preparazione, egli si accinse quindi a trattare, con forza e soavità insieme, la causa della restaurazione dell'unità, ottenendo frutti così copiosi da meritare dagli stessi avversari il titolo di «rapitore delle anime».
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25/12/2016 08:12
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 1 per il Natale, 1-3; PL 54,190-193)
Riconosci, cristiano, la tua dignità

Il nostro Salvatore, carissimi, oggi è nato: rallegriamoci! Non c'è spazio per la tristezza nel giorno in cui nasce la vita, una vita che distrugge la paura della morte e dona la gioia delle promesse eterne. Nessuno è escluso da questa felicità: la causa della gioia è comune a tutti perché il nostro Signore, vincitore del peccato e della morte, non avendo trovato nessuno libero dalla colpa, è venuto per la liberazione di tutti. Esulti il santo, perché si avvicina al premio; gioisca il peccatore, perché gli è offerto il perdono; riprenda coraggio il pagano, perché è chiamato alla vita.
Il Figlio di Dio infatti, giunta la pienezza dei tempi che l'impenetrabile disegno divino aveva disposto, volendo riconciliare con il suo Creatore la natura umana, l'assunse lui stesso in modo che il diavolo, apportatore della morte, fosse vinto da quella stessa natura che prima lui aveva reso schiava. Così alla nascita del Signore gli angeli cantano esultanti: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2,14). Essi vedono che la celeste Gerusalemme è formata da tutti i popoli del mondo. Di questa opera ineffabile dell'amore divino, di cui tanto gioiscono gli angeli nella loro altezza, quanto non deve rallegrarsi l'umanità nella sua miseria! O carissimi, rendiamo grazie a Dio Padre per mezzo del suo Figlio nello Spirito Santo, perché nella infinita misericordia, con cui ci ha amati, ha avuto pietà di noi, e, mentre eravamo morti per i nostri peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (cfr. Ef 2,5) perché fossimo in lui creatura nuova, nuova opera delle sue mani.
Deponiamo dunque «l'uomo vecchio con la condotta di prima» (Ef 4,22) e, poiché siamo partecipi della generazione di Cristo, rinunziamo alle opere della carne. Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all'abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricòrdati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro. Ricòrdati che, strappato al potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce del Regno di Dio. Con il sacramento del battesimo sei diventato tempio dello Spirito Santo! Non mettere in fuga un ospite così illustre con un comportamento riprovevole e non sottometterti di nuovo alla schiavitù del demonio. Ricorda che il prezzo pagato per il tuo riscatto è il sangue di Cristo.
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30/12/2016 09:37
 
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Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa

(Discorso tenuto a Nazareth, 5 gennaio 1964)
L'esempio di Nazareth

La casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza accorgercene, ad imitare.
Qui impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo. Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per manifestarsi al mondo.
Qui tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola, certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale, se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a questa umile e sublime scuola di Nazareth! Quanto ardentemente desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta formazione all'intelligenza del Vangelo. Tuttavia non lasceremo questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi ammonimenti dalla casa di Nazareth.
In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo. Oh! silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri, intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo studio, la meditazione, l'interiorità della vita, la preghiera, che Dio solo vede nel segreto.
Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos'è la famiglia, cos'è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere com'è dolce ed insostituibile l'educazione in famiglia, ci insegni la sua funzione naturale nell'ordine sociale. Infine impariamo la lezione del lavoro. Oh! dimora di Nazareth, casa del Figlio del falegname! Qui soprattutto desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.
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03/01/2017 18:15
 
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Papa Benedetto XVI, omelia del 31 dicembre 2012:

Il cristiano è un uomo di speranza, anche e soprattutto di fronte al buio che spesso c’è nel mondo e che non dipende dal progetto di Dio ma dalle scelte sbagliate dell’uomo, perché sa che la forza della fede può spostare le montagne (cfr Mt 17,20): il Signore può illuminare anche la tenebra più profonda.

Papa Giovanni Paolo II, omelia del 31 dicembre 2004:

“Salvum fac populum tuum, Domine”, “Salva il tuo popolo, Signore”. Te lo domandiamo questa sera, per mezzo di Maria, celebrando i Primi Vespri della festa della sua divina Maternità. Santa Madre del Redentore, accompagnaci in questo passaggio al nuovo anno. Ottieni per Roma e per il mondo intero il dono della pace.
[Modificato da Credente 03/01/2017 18:23]
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06/01/2017 10:42
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 3 per l'Epifania, 1-3.5; PL 54,240-244)
Il Signore ha manifestato in tutto il mondo la sua salvezza

La Provvidenza misericordiosa, avendo deciso di soccorrere negli ultimi tempi il mondo che andava in rovina, stabilì che la salvezza di tutti i popoli si compisse nel Cristo.
Un tempo era stata promessa ad Abramo una innumerevole discendenza che sarebbe stata generata non secondo la carne, ma nella fecondità della fede: essa era stata paragonata alla moltitudine delle stelle perché il padre di tutte le genti si attendesse non una stirpe terrena, ma celeste.
Entri, entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell'universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque in Israele sia grande il suo nome (cfr. Sal 75,2).
Figli carissimi, ammaestrati da questi misteri della grazia divina, celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l'inizio della chiamata alla fede di tutte le genti. Ringraziamo Dio misericordioso che, come afferma l'Apostolo, «ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1,12-13). L'aveva annunziato Isaia: Il popolo dei Gentili che sedeva nelle tenebre, vide una grande luce e su quanti abitavano nella terra tenebrosa una luce rifulse (cfr. Is 9,1). Di essi ancora Isaia dice al Signore: Popoli che non ti conoscono ti invocheranno, e popoli che ti ignorano accorreranno a te (cfr. Is 55,5).
Abramo vide questo giorno e gioì (cfr. Gv 8,56). Gioì quando conobbe che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, cioè nel Cristo, e quando intravide che per la sua fede sarebbe diventato padre di tutti i popoli. Diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto il Signore aveva promesso, lo avrebbe attuato (Rm 4,20-21). Questo giorno cantava nei salmi David dicendo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome» (Sal 85,9); e ancora: «Il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia» (Sal 97,2).
Tutto questo, lo sappiamo, si è realizzato quando i tre magi, chiamati dai loro lontani paesi, furono condotti da una stella a conoscere e adorare il Re del cielo e della terra. Questa stella ci esorta particolarmente a imitare il servizio che essa prestò, nel senso che dobbiamo seguire, con tutte le nostre forze, la grazia che invita tutti al Cristo. In questo impegno, miei cari, dovete tutti aiutarvi l'un l'altro. Risplenderete così come figli della luce nel regno di Dio, dove conducono la retta fede e le buone opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo che con Dio Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.
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10/02/2017 08:21
 
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Dai «Dialoghi» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 2,33; PL 66,194-196)
Poté di più colei che più amò

Scolastica, sorella di san Benedetto, consacratasi a Dio fin dall'infanzia, era solita recarsi dal fratello una volta all'anno. L'uomo di Dio andava incontro a lei, non molto fuori della porta, in un possedimento del monastero.
Un giorno vi si recò secondo il solito, e il venerabile suo fratello le scese incontro con alcuni suoi discepoli. Trascorsero tutto il giorno nelle lodi di Dio e in santa conversazione. Sull'imbrunire presero insieme il cibo.
Si trattennero ancora a tavola e, col protrarsi dei santi colloqui, si era giunti a un'ora piuttosto avanzata. La pia sorella perciò lo supplicò, dicendo: «Ti prego, non mi lasciare per questa notte, ma parliamo fino al mattino delle gioie della vita celeste». Egli le rispose: «Che cosa dici mai, sorella? Non posso assolutamente pernottare fuori del monastero».
Scolastica, udito il diniego del fratello, poggiò le mani con le dita intrecciate sulla tavola e piegò la testa sulle mani per pregare il Signore onnipotente. Quando levò il capo dalla mensa, scoppiò un tale uragano con lampi e tuoni e rovescio di pioggia, che né il venerabile Benedetto, né i monaci che l'accompagnavano, poterono metter piede fuori dalla soglia dell'abitazione, dove stavano seduti.
Allora l'uomo di Dio molto rammaricato cominciò a lamentarsi e a dire: «Dio onnipotente ti perdoni, sorella, che cosa hai fatto?». Ma ella gli rispose: «Ecco, ho pregato te, e tu non hai voluto ascoltarmi; ho pregato il mio Dio e mi ha esaudita. Ora esci pure, se puoi; lasciami e torna al monastero,».
Ed egli che non voleva restare lì spontaneamente, fu costretto a rimanervi per forza.
Così trascorsero tutta la notte vegliando e si saziarono di sacri colloqui raccontandosi l'un l'altro le esperienze della vita spirituale.
Non fa meraviglia che Scolastica abbia avuto più potere del fratello. Siccome, secondo la parola di Giovanni, «Dio è amore», fu molto giusto che potesse di più colei che più amò.
Ed ecco che tre giorni dopo, mentre l'uomo di Dio stava nella cella e guardava al cielo, vide l'anima di sua sorella, uscita dal corpo, penetrare nella sublimità dei cieli sotto forma di colomba. Allora, pieno di gioia per una così grande gloria toccatale, ringraziò Dio con inni e lodi, e mandò i suoi monaci perché portassero il corpo di lei al monastero, e lo deponessero nel sepolcro che aveva preparato per sé.
Così neppure la tomba separò i corpi di coloro che erano stati uniti in Dio, come un'anima sola.
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18/02/2017 08:19
 
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Da un discorso «Agli sposi novelli» di Pio XII, papa

(Discorsi e radiomessaggi, 3, 385-390; 11 marzo 1942)
La sposa è il sole della famiglia

Nel volgere della vostra vita, diletti sposi novelli, il ricordo, che della casa del Padre comune e della sua benedizione apostolica porterete con voi, vi accompagnerà come dolce conforto e augurio nel cammino che iniziate con mille liete speranze, sotto la protezione divina, in un tempo turbinoso qual è il presente, verso una meta che più o meno vi lascia intravedere la caligine del futuro. Ma davanti a questa caligine il cuor vostro non teme: l'ardore e l'ardimento della giovinezza vi assiste; l'unione degli animi e dei desideri, dei passi e della vita, il medesimo sentiero che calcate non vi turbano la tranquillità dello spirito, anzi ve la rinnovellano e dilatano. Entro le pareti domestiche voi siete felici; non vedete caligine; la vostra famiglia ha un proprio sole, la sposa.
Udite come ne parla e ragiona la Sacra Scrittura: La grazia di una donna diligente rallegra il suo marito e il sapere di lei lo rende alacre ed ilare. Dono di Dio è una donna silenziosa, e un animo ben educato è cosa senza pari. Grazia sopra grazia è una donna santa e vereconda, e non vi è prezzo che uguagli un'anima casta. Come il sole che si leva sul mondo nel più alto dei cieli, così la bellezza di una donna virtuosa è l'ornamento della sua casa (cfr. Sir 26, 13-16).
Sì, la sposa e la madre è il sole della famiglia. È il sole con la sua generosità e dedizione, con la sua costante prontezza, con la sua delicatezza vigile e provvida in tutto ciò che vale a far lieta la vita al marito e ai figli. Intorno a sé ella diffonde luce e calore; e, se suol dirsi che allora un matrimonio è benavventurato, quando ognuno dei coniugi, nel contrarlo, mira a far felice non se stesso, ma l'altra parte, questo nobile sentimento e intento, pur concernendo ambedue, è però prima virtù della donna, che nasce coi palpiti di madre e col senno del cuore: quel senno che, se riceve amarezze, non vuol dare che gioie; se riceve umiliazioni, non vuol rendere che dignità e rispetto; al pari del sole che rallegra il nebuloso mattino coi suoi albori e indora i nembi coi raggi del suo tramonto.
La sposa è il sole della famiglia con la chiarezza del suo sguardo e con la vampa della sua parola; sguardo e parola che penetrano dolcemente nell'anima, la piegano e inteneriscono e la sollevano fuori del tumulto delle passioni, e richiamano l'uomo alla letizia del bene e della conversazione familiare, dopo una lunga giornata di continuo e talvolta penoso lavoro professionale o campestre, o d'imperiosi affari di commercio o d'industria. Il suo occhio e il suo labbro gettano un lume e un accento, che hanno mille fulgori in un lampo, mille affetti in un suono. Sono lampi e suoni che balzano dal cuore di madre, creano e vivificano il paradiso della fanciullezza, e sempre irraggiano bontà e soavità, anche quando ammoniscono o rimproverano, perché gli animi giovanili, che più forte sentono, più intimamente e profondamente accolgono i dettami dell'amore.
La sposa è il sole della famiglia con la sua candida naturalezza, con la sua dignitosa semplicità e col suo cristiano e onesto decoro, così nel raccoglimento e nella rettitudine dello spirito, come nella sottile armonia del suo portamento e del suo abito, del suo acconciamento e del suo contegno insieme riservato e affettuoso. Sentimenti tenui, leggiadri cenni di volto, ingenui silenzi e sorrisi, un condiscendente moto del capo le danno la grazia di un fiore eletto e pur semplice, che apre la sua corolla a ricevere e riflettere i colori del sole. Oh se voi sapeste quali profondi sentimenti d'affezione e riconoscenza una tale immagine di sposa e di madre suscita e imprime nel cuore del padre di famiglia e dei figli!
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22/02/2017 07:58
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 4 sul suo anniversario di elezione, 2-3; PL 54,149-151)
La Chiesa di Cristo s'innalza sulla salda fede di Pietro

Tra tutti gli uomini solo Pietro viene scelto per essere il primo a chiamare tutte le genti alla salvezza e per essere il capo di tutti gli apostoli e di tutti i Padri della Chiesa. Nel popolo di Dio sono molti i sacerdoti e i pastori, ma la vera guida di tutti è Pietro, sotto la scorta suprema di Cristo. Carissimi, Dio si è degnato di rendere quest'uomo partecipe del suo potere in misura grande e mirabile. E se ha voluto che anche gli altri prìncipi della Chiesa avessero qualche cosa in comune con lui, è sempre per mezzo di lui che trasmette quanto agli altri non ha negato.
A tutti gli apostoli il Signore domanda che cosa gli uomini pensino di lui e tutti danno la stessa risposta fino a che essa continua ad essere l'espressione ambigua della comune ignoranza umana. Ma quando gli apostoli sono interpellati sulla loro opinione personale, allora il primo a professare la fede nel Signore è colui che è primo anche nella dignità apostolica.
Egli dice: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; e Gesù gli risponde: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,16-17). Ciò significa: tu sei beato perché il Padre mio ti ha ammaestrato, e non ti sei lasciato ingannare da opinioni umane, ma sei stato istruito da un'ispirazione celeste. La mia identità non te l'ha rivelata la carne e il sangue, ma colui del quale io sono il Figlio unigenito. Gesù continua: «E io ti dico»: cioè come il Padre mio ti ha rivelato la mia divinità, così io ti manifesto la tua dignità. «Tu sei Pietro». Ciò significa che se io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che ha fatto dei due un popolo solo (cfr. Ef 2,14. 20), il fondamento che nessuno può sostituire, anche tu sei pietra, perché la mia forza ti rende saldo. Così la mia prerogativa personale è comunicata anche a te per partecipazione. «E su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18). Cioè, su questa solida base voglio costruire il mio tempio eterno. La mia Chiesa, destinata a innalzarsi fino al cielo, dovrà poggiare sulla solidità di questa fede.
Le porte degli inferi non possono impedire questa professione di fede, che sfugge anche ai legami della morte. Essa infatti è parola di vita, che solleva al cielo chi la proferisce e sprofonda nell'inferno chi la nega. È per questo che a san Pietro viene detto: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Certo, il diritto di esercitare questo potere è stato trasmesso anche agli altri apostoli, questo decreto costitutivo è passato a tutti i prìncipi della Chiesa. Ma non senza ragione è stato consegnato a uno solo ciò che doveva essere comunicato a tutti. Questo potere infatti è affidato personalmente a Pietro, perché la dignità di Pietro supera quella di tutti i capi della Chiesa.
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27/02/2017 08:15
 
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Dal «Commento al Libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 3, 15-16; PL 75, 606-608)
Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare anche il male?

Paolo, osservando in se stesso le ricchezze della sapienza interiore e vedendo che all'esterno egli era corpo corruttibile, disse: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7).
Ecco che nel beato Giobbe il vaso di creta sentì all'esterno i colpi e le rotture, ma questo tesoro internamente rimase intatto. Al di fuori si screpolò a causa delle ferite, ma il tesoro della sapienza all'interno rinasceva inesauribilmente, tanto da manifestarsi all'esterno in queste sante espressioni: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2, 10).
Chiama beni i doni di Dio sia temporali che eterni; mali invece i flagelli presenti, dei quali il Signore dice per bocca del profeta: «Io sono il Signore e non c'è alcun altro; fuori di me non c'è dio. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura» (Is 45, 5a. 7).
«Io formo la luce e creo le tenebre», perché, mentre con i flagelli si creano all'esterno le tenebre del dolore, si accende all'interno la luce delle grandi esperienze spirituali. «Faccio il bene e provoco la sciagura», perché alla pace con Dio veniamo riportati quando le cose create bene, ma non bene desiderate, si mutano, per noi, in flagelli e sofferenze. Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. È giusto dunque che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla retta via, e l'anima nostra è rigenerata con l'umiltà alla pace del Creatore.
Ma nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
È certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamiamo alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25).
Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell'arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l'una sia sempre sostenuta dall'altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono.
L'uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
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02/03/2017 07:24
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 6 sulla Quaresima, 1, 2; PL 54, 285-287)
La sacra purificazione per mezzo del digiuno e della misericordia

Sempre, fratelli carissimi, della grazia del Signore è piena la terra (Sal 33, 5) e la stessa natura, che ci circonda, insegna a ciascun fedele a onorare Dio. Infatti il cielo e la terra, il mare e quanto si trova in essi proclamano la bontà e l'onnipotenza del loro Creatore. E la meravigliosa bellezza degli elementi, messi a nostro servizio, non esige forse da noi, creature intelligenti, un doveroso ringraziamento?
Ma ora ci viene chiesto un completo rinnovamento dello spirito: sono i giorni dei misteri della redenzione umana e che precedono più da vicino le feste pasquali.
È caratteristica infatti della festa di Pasqua, che la Chiesa tutta goda e si rallegri per il perdono dei peccati: perdono che non si concede solo ai neofiti, ma anche a coloro che già da lungo tempo sono annoverati tra i figli adottivi.
Certo è nel lavacro di rigenerazione che nascono gli uomini nuovi, ma tutti hanno il dovere del rinnovamento quotidiano: occorre liberarsi dalle incrostazioni proprie alla nostra condizione mortale. E poiché nel cammino della perfezione non c'è nessuno che non debba migliorare, dobbiamo tutti, senza eccezione, sforzarci perché nessuno nel giorno della redenzione si trovi ancora invischiato nei vizi dell'uomo vecchio.
Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggior sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell'astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati.
A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell'elemosina, la quale sotto il nome unico di «misericordia» abbraccia molte opere buone. In ciò i fedeli possono trovarsi uguali, nonostante le disuguaglianze dei beni.
L'amore che dobbiamo ugualmente a Dio e all'uomo non è mai impedito al punto da toglierci la possibilità del bene.
Gli angeli hanno cantato: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (Lc 2, 14). Ne segue che diventa felice e nella benevolenza e nella pace, chiunque partecipa alle sofferenze degli altri, di qualsiasi genere esse siano.
Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l'elemosina, ma anche quelli di condizione modesta o povera. Così disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell'anima.
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24/03/2017 08:12
 
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Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 13, 21-23; PL 75, 1028-1029)
Il mistero della nostra nuova vita

Il beato Giobbe, essendo figura della santa Chiesa, a volte parla con la voce del corpo, a volte invece con la voce del capo. E mentre parla delle membra di lei, si eleva immediatamente alle parole del capo. Perciò anche qui si soggiunge: Questo soffro, eppure non c'è violenza nelle mie mani e pura è stata la mia preghiera (cfr. Gb 16, 17).
Cristo infatti soffrì la passione e sopportò il tormento della croce per la nostra redenzione, sebbene non avesse commesso violenza con le sue mani, né peccato, e neppure vi fosse inganno sulla sua bocca. Egli solo fra tutti levò pura la sua preghiera a Dio, perché anche nello stesso strazio della passione pregò per i persecutori, dicendo: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34).
Che cosa si può dire, che cosa si può immaginare di più puro della propria misericordiosa intercessione in favore di coloro che ci fanno soffrire?
Avvenne perciò che il sangue del nostro Redentore, versato con crudeltà dai persecutori, fu poi da loro assunto con fede e il Cristo fu da essi annunziato quale Figlio di Dio.
Di questo sangue ben a proposito si soggiunge: «O terra, non coprire il mio sangue e non abbia sosta il mio grido». All'uomo peccatore fu detto: Sei terra e in terra ritornerai (cfr. Gn 3, 19). Ma la terra non ha tenuto nascosto il sangue del nostro Redentore, perché ciascun peccatore, assumendo il prezzo della sua redenzione, lo fa oggetto della sua fede, della sua lode e del suo annunzio agli altri.
La terra non coprì il suo sangue, anche perché la santa Chiesa ha predicato ormai il mistero della sua redenzione in tutte le parti del mondo.
È da notare, poi, quanto si soggiunge: «E non abbia sosta il mio grido». Lo stesso sangue della redenzione che viene assunto è il grido del nostro Redentore. Perciò anche Paolo parla del «sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 12, 24). Ora del sangue di Abele è stato detto: «La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo» (Gn 4, 10).
Ma il sangue di Gesù è più eloquente di quello di Abele, perché il sangue di Abele domandava la morte del fratricida, mentre il sangue del Signore impetrò la vita ai persecutori.
Dobbiamo dunque imitare ciò che riceviamo e predicare agli altri ciò che veneriamo, perché il mistero della passione del Signore non sia vano per noi.
Se la bocca non proclama quanto il cuore crede, anche il suo grido resta soffocato. Ma perché il suo grido non venga coperto in noi, è necessario che ciascuno, secondo le sue possibilità, dia testimonianza ai fratelli del mistero della sua nuova vita.
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28/03/2017 08:19
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 10 sulla Quar., 3-5; PL 54, 299-301)
Il bene della carità

Nel vangelo di Giovanni il Signore dice: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). E nelle lettere del medesimo apostolo si legge: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio; chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4, 7-8).
Si scuotano perciò le anime dei fedeli, e con sincero esame giudichino gli intimi affetti del proprio cuore. E se nelle loro coscienze troveranno qualche frutto di carità non dubitino della presenza di Dio in loro. Se poi vogliono trovarsi maggiormente disposti a ricevere un ospite così illustre, dilatino sempre più l'ambito del loro spirito con le opere di misericordia.
Se infatti Dio è amore, la carità non deve avere confini, perché la divinità non può essere rinchiusa entro alcun limite.
Carissimi, è vero che per esercitare il bene della carità ogni tempo è appropriato. Questi giorni tuttavia lo sono in modo speciale. Quanti desiderano arrivare alla Pasqua del Signore con la santità dell'anima e del corpo si sforzino al massimo di acquistare quella virtù nella quale sono incluse tutte le altre in sommo grado, e dalla quale è coperta la moltitudine dei peccati. Mentre stiamo per celebrare il mistero più alto di tutti, il mistero del sangue di Gesù Cristo che ha cancellato le nostre iniquità, facciamolo con i sacrifici della misericordia. Ciò che la bontà divina ha elargito a noi, diamolo anche noi a coloro che ci hanno offeso.
La nostra generosità sia più larga verso i poveri e i sofferenti perché siano rese grazie a Dio dalle voci di molti. Il nutrimento di chi ha bisogno sia sostenuto dai nostri digiuni. Al Signore infatti nessun'altra devozione dei fedeli piace più di quella rivolta ai suoi poveri, e dove trova una misericordia premurosa là riconosce il segno della sua bontà.
Non si abbia timore, in queste donazioni di diminuire i propri beni, perché la benevolenza stessa è già un gran bene, né può mancare lo spazio alla generosità, dove Cristo sfama ed è sfamato. In tutte queste opere interviene quella mano, che spezzando il pane lo fa crescere e distribuendolo agli altri lo moltiplica.
Colui che fa l'elemosina la faccia con gioia. Sia certo che avrà il massimo guadagno, quando avrà tenuto per sé il minimo, come dice il beato apostolo Paolo: «Colui che somministra il seme al seminatore e il pane per il nutrimento, somministrerà e moltiplicherà anche la vostra semente, e farà crescere i frutti della vostra giustizia» (2 Cor 9, 10), in Cristo Gesù nostro Signore, che vive e regna con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.
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30/03/2017 14:03
 
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(Disc. 15 sulla passione del Signore, 3-4; PL 54, 366-367)
Contemplazione della Passione del Signore

Colui che vuole onorare veramente la passione del Signore deve guardare con gli occhi del cuore Gesù Crocifisso, in modo da riconoscere nella sua carne la propria carne.
Tremi la creatura di fronte al supplizio del suo Redentore. Si spezzino le pietre dei cuori infedeli, ed escano fuori travolgendo ogni ostacolo coloro che giacevano nella tomba. Appaiano anche ora nella città santa, cioè nella Chiesa di Dio, i segni della futura risurrezione e, ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori.
A nessuno, anche se debole e inerme, è negata la vittoria della croce, e non v'è uomo al quale non rechi soccorso la mediazione di Cristo. Se giovò a molti che infierivano contro di lui, quanto maggiore beneficio apporterà a coloro che a lui si rivolgono!
L'ignoranza dell'incredulità è stata cancellata. È stata ridotta la difficoltà del cammino. Il sacro sangue di Cristo ha spento il fuoco di quella spada, che sbarrava l'accesso al regno della vita. Le tenebre dell'antica notte hanno ceduto il posto alla vera luce.
Il popolo cristiano è invitato alle ricchezze del paradiso. Per tutti i battezzati si apre il passaggio per il ritorno alla patria perduta, a meno che qualcuno non voglia precludersi da se stesso quella via, che pure si aprì alla fede del ladrone.
Procuriamo che le attività della vita presente non creino in noi o troppa ansietà o troppa presunzione sino al punto da annullare l'impegno di conformarci al nostro Redentore, nell'imitazione dei suoi esempi. Nulla infatti egli fece o soffrì se non per la nostra salvezza, perché la virtù, che era nel Capo, fosse posseduta anche dal Corpo.
«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14) nessuno lasciando privo della misericordia, ad eccezione di chi rifiuta di credere. E come potrà rimanere fuori della comunione con Cristo chi accoglie colui che ha preso la sua stessa natura e viene rigenerato dal medesimo Spirito, per opera del quale Cristo è nato? Chi non lo riterrebbe della nostra condizione umana sapendo che nella sua vita c'era posto per l'uso del cibo, per il riposo, il sonno, le ansie, la tristezza, la compassione e le lacrime?
Proprio perché questa nostra natura doveva essere risanata dalle antiche ferite e purificata dalla feccia del peccato, l'Unigenito Figlio di Dio si fece anche Figlio dell'uomo e riunì in sé autentica natura umana e pienezza di divinità.
È cosa nostra ciò che giacque esanime nel sepolcro, che è risorto il terzo giorno, che è salito al di sopra di tutte le altezze alla destra della maestà del Padre. Ne segue che se camminiamo sulla via dei suoi comandamenti e non ci vergogniamo di confessare quello che nell'umiltà della carne egli ha operato per la nostra salvezza, anche noi saremo partecipi della sua gloria. Si adempirà allora sicuramente ciò che egli ha annunziato: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio, che è nei cieli» (Mt 10, 32).
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26/04/2017 10:07
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 12 sulla passione, 3, 6, 7; PL 54, 355-357)
Cristo vivente nella sua Chiesa

Carissimi, il Figlio di Dio ha assunto la natura umana con una unione così intima da essere l'unico ed identico Cristo non soltanto in colui, che è il primogenito di ogni creatura, ma anche in tutti i suoi santi. E come non si può separare il Capo dalle membra, così le membra non si possono separare dal Capo.
E se è vero che, non è proprio di questa vita, ma di quella eterna, che Dio sia tutto in tutti, è anche vero che fin d'ora egli abita inseparabilmente il suo tempio, che è la Chiesa. Lo promise con le parole: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20).
Tutto quello dunque che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell'efficacia di ciò che egli compie al presente.
È lui che, come è nato per opera dello Spirito Santo da una vergine madre, così rende feconda la Chiesa, sua Sposa illibata, con il soffio vitale dello stesso Spirito, perché mediante la rinascita del battesimo, venga generata una moltitudine innumerevole di figli di Dio. Di costoro è scritto: «Non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1, 13).
È in lui che viene benedetta la discendenza di Abramo, e tutto il mondo riceve l'adozione divina. Il Patriarca diventa padre delle genti, ma i figli della promessa nascono dalla fede, non dalla carne.
È lui che, eliminando ogni discriminazione di popoli, e radunando tutti da ogni nazione, forma di tante pecorelle un solo gregge santo. Così ogni giorno compie quanto aveva già promesso, dicendo: «E ho altre pecore, che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce, e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv 10, 16).
Sebbene infatti egli dica particolarmente a Pietro: «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21, 17), nondimeno tutta l'attività dei pastori è guidata e sorretta da lui solo, il Signore. È lui che, con pascoli ubertosi e ridenti, nutre tutti coloro che vengono a questa Pietra. Cosicché innumerevoli pecorelle, fortificate dalla sovrabbondanza dell'amore, non esitano ad affrontare la morte per la causa del loro Pastore, come egli, il buon Pastore, si è degnato di dare la propria vita per le stesse pecorelle.
Partecipi della sua passione sono non solo i martiri forti e gloriosi, ma anche i fedeli che rinascono, e già nell'atto stesso della loro rigenerazione.
È questo il motivo per cui la Pasqua viene celebrata, secondo la Legge, negli azzimi della purezza e della verità: la nuova creatura, getta via il fermento della sua malvagità e si inebria e si nutre del Signore stesso.
La nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo, a farci rivestire in tutto, nel corpo e nello spirito, di colui nel quale siamo morti, siamo stati sepolti e siamo risuscitati.
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28/04/2017 19:24
 
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“La gioia semplice, genuina, è divenuta più rara. La gioia è oggi in certo qual modo sempre più carica di ipoteche morali e ideologiche. […] Il mondo non diventa migliore se privato della gioia, il mondo ha bisogno di persone che scoprono il bene, che sono capaci di provare gioia per esso e che in questo modo ricevono anche lo stimolo e il coraggio di fare il bene. […] Abbiamo bisogno di quella fiducia originaria che, ultimamente, solo la fede può dare. Che, alla fine, il mondo è buono, che Dio c’è ed è buono. Da qui deriva anche il coraggio della gioia, che diventa a sua volta impegno perché anche gli altri possano gioire e ricevere il lieto annuncio”.

Papa Benedetto XVI

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07/05/2017 00:22
 
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Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno papa

(Om. 14, 3-6; PL 76, 1129-1130)
Cristo, buon Pastore

«Io sono il buon Pastore; conosco le mie pecore», cioè le amo, «e le mie pecore conoscono me» (Gv 10, 14). Come a dire apertamente: corrispondono all'amore di chi le ama. La conoscenza precede sempre l'amore della verità.
Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete il lume della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell'amore; non del solo credere, ma anche dell'operare. L'evangelista Giovanni, infatti, spiega: «Chi dice: Conosco Dio, e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo» (1 Gv 2, 4).
Perciò in questo stesso passo il Signore subito soggiunge: «Come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e offro la vita per le pecore» (Gv 10, 15). Come se dicesse esplicitamente: da questo risulta che io conosco il Padre e sono conosciuto dal Padre, perché offro la mia vita per le mie pecore; cioè io dimostro in quale misura amo il Padre dall'amore con cui muoio per le pecore.
Di queste pecore di nuovo dice: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna (cfr. Gv 10, 14-16). Di esse aveva detto poco prima: «Se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv 10, 9). Entrerà cioè nella fede, uscirà dalla fede alla visione, dall'atto di credere alla contemplazione, e troverà i pascoli nel banchetto eterno.
Le sue pecore troveranno i pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice viene nutrito con un alimento eternamente fresco. Quali sono i pascoli di queste pecore, se non gli intimi gaudi del paradiso, ch'è eterna primavera? Infatti pascolo degli eletti è la presenza del volto di Dio, e mentre lo si contempla senza paura di perderlo, l'anima si sazia senza fine del cibo della vita.
Cerchiamo, quindi, fratelli carissimi, questi pascoli, nei quali possiamo gioire in compagnia di tanti concittadini. La stessa gioia di coloro che sono felici ci attiri. Ravviviamo, fratelli, il nostro spirito. S'infervori la fede in ciò che ha creduto. I nostri desideri s'infiammino per i beni superni. In tal modo amare sarà già un camminare.
Nessuna contrarietà ci distolga dalla gioia della festa interiore, perché se qualcuno desidera raggiungere la mèta stabilita, nessuna asperità del cammino varrà a trattenerlo. Nessuna prosperità ci seduca con le sue lusinghe, perché sciocco è quel viaggiatore che durante il suo percorso si ferma a guardare i bei prati e dimentica di andare là dove aveva intenzione di arrivare.
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24/05/2017 09:10
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. sull'Ascensione, 24; PL 54, 395-396)
I giorni tra la risurrezione e l'ascensione del Signore

Miei cari, i giorni intercorsi tra la risurrezione del Signore e la sua ascensione, non sono passati inutilmente, ma in essi sono stati confermati grandi misteri e sono state rivelate grandi verità.
Venne eliminato il timore di una morte crudele, e venne annunziata non solo l'immortalità dell'anima, ma anche quella del corpo. Durante quei giorni, in virtù del soffio divino, venne effuso su tutti gli apostoli lo Spirito Santo, e a san Pietro apostolo, dopo la consegna delle chiavi del Regno, venne affidata la cura suprema del gregge del Signore.
In questi giorni il Signore si unisce, come terzo, ai due discepoli lungo il cammino, e per dissipare in noi ogni ombra di incertezza, biasima la fede languida di quei due spaventati e trepidanti. Quei cuori da lui illuminati s'infiammano di fede e, mentre prima erano freddi, diventano ardenti, man mano che il Signore spiega loro le Scritture. Quando egli spezza il pane, anche lo sguardo di quei commensali si apre. Si aprono gli occhi dei due discepoli come quelli dei progenitori. Ma quanto più felicemente gli occhi dei due discepoli dinanzi alla glorificazione della propria natura, manifestata in Cristo, che gli occhi dei progenitori dinanzi alla vergogna della propria prevaricazione!
Perciò, o miei cari, durante tutto questo tempo trascorso tra la risurrezione del Signore e la sua ascensione, la divina Provvidenza questo ha avuto di mira, questo ha comunicato, questo ha voluto insinuare negli occhi e nei cuori dei suoi: la ferma certezza che il Signore Gesù Cristo era veramente risuscitato, come realmente era nato, realmente aveva patito ed era realmente morto.
Perciò i santi apostoli e tutti i discepoli che avevano trepidato per la tragedia della croce ed erano dubbiosi nel credere alla risurrezione, furono talmente rinfrancati dall'evidenza della verità, che, al momento in cui il Signore saliva nell'alto dei cieli, non solo non ne furono affatto rattristati, ma anzi furono ricolmi di grande gioia.
Ed avevano davvero un grande e ineffabile motivo di rallegrarsi. Essi infatti, insieme a quella folla fortunata, contemplavano la natura umana mentre saliva ad una dignità superiore a quella delle creature celesti. Essa oltrepassava le gerarchie angeliche, per essere innalzata al di sopra della sublimità degli arcangeli, senza incontrare a nessun livello per quanto alto, un limite alla sua ascesa. Infine, chiamata a prender posto presso l'eterno Padre, venne associata a lui nel trono della gloria, mentre era unita alla sua natura nella Persona del Figlio.
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25/05/2017 08:49
 
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Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa

(Disc. 2 sull'Ascensione 1, 4; PL 54, 397-399)
L'Ascensione del Signore accresce la nostra fede

Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l'altezza di tutte le potestà. L'intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su una arcana serie di azioni divine per le quali l'amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.
Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, o come potrebbe l'uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce suprema.
Questa fede si accrebbe con l'ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l'esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.
Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, s'erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore ed avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall'ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguardo della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l'aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.
Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell'uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.
Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l'identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l'Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.
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03/06/2017 07:12
 
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Dall'«Omelia per la canonizzazione dei martiri dell'Uganda» di Paolo VI, papa

(AAS 56, 1964, 905-906)
La gloria dei martiri, segno di rinascita

Questi Martiri Africani aggiungono all'albo dei vittoriosi, qual è il Martirologio, una pagina tragica e magnifica, veramente degna di aggiungersi a quelle meravigliose dell'Africa antica, che noi moderni, uomini di poca fede, pensavamo non potessero avere degno seguito mai più. Chi poteva supporre, ad esempio, che alle commoventissime storie dei Martiri Scillitani, dei Martiri Cartaginesi, dei Martiri della «Massa candida» uticense, di cui sant'Agostino e Prudenzio ci hanno lasciato memoria, dei Martiri dell'Egitto, dei quali conserviamo l'elogio di san Giovanni Crisostomo, dei Martiri della persecuzione vandalica, si sarebbero aggiunte nuove storie non meno eroiche, non meno fulgenti, nei tempi nostri? Chi poteva prevedere che alle grandi figure storiche dei Santi Martiri e Confessori Africani, quali Cipriano, Felicita e Perpetua e il sommo Agostino, avremmo un giorno associati i cari nomi di Carlo Lwanga, e di Mattia Mulumba Kalemba, con i loro venti compagni? E non vogliamo dimenticare altresì gli altri che, appartenendo alla confessione anglicana, hanno affrontato la morte per il nome di Cristo.
Questi Martiri Africani aprono una nuova epoca; oh! non vogliamo pensare di persecuzioni e di contrasti religiosi, ma di rigenerazione cristiana e civile. L'Africa, bagnata dal sangue di questi Martiri, primi dell'èra nuova (oh, Dio voglia che siano gli ultimi, tanto il loro olocausto è grande e prezioso!), risorge libera e redenta. La tragedia, che li ha divorati, è talmente inaudita ed espressiva, da offrire elementi rappresentativi sufficienti per la formazione morale d'un popolo nuovo, per la fondazione d'una nuova tradizione spirituale, per simboleggiare e per promuovere il trapasso da una civiltà primitiva, non priva di ottimi valori umani, ma inquinata ed inferma e quasi schiava di se stessa, ad una civiltà aperta alle espressioni superiori dello spirito e alle forme superiori della socialità.
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07/06/2017 09:10
 
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Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 23, 23-24; PL 76, 265-266)
La vera scienza rifugge dalla superbia

«Ascolta, Giobbe, i miei discorsi, ad ogni mia parola porgi l'orecchio» (Gb 33, 1). L'insegnamento delle persone arroganti ha questo di proprio, che esse non sanno esporre con umiltà quello che insegnano, e anche le cose giuste che conoscono, non riescono a comunicarle rettamente. Quando insegnano danno l'impressione di ritenersi molto in alto e di guardare di là assai in basso verso gli ascoltatori, ai quali sembra vogliano far giungere non tanto dei consigli, quanto dei comandi imperiosi.
Ben a ragione, dunque, il Signore dice a costoro per bocca del profeta: «Li avete guidati con crudeltà e violenza» (Ez 34, 4). Comandano con durezza e violenza coloro che si danno premura non di correggere i loro sudditi, ragionando serenamente, ma di piegarli con imposizioni e ordini perentori.
Invece la vera scienza fugge di proposito con tanta più sollecitudine il vizio dell'orgoglio, quanto più energicamente perseguita con le frecciate delle sue parole lo stesso maestro della superbia. La vera scienza si guarda dal rendere omaggio, con l'alterigia della vita a colui che vuole scacciare con i sacri discorsi dal cuore degli ascoltatori. Al contrario con le parole e con la vita si sforza d'inculcare l'umiltà, che è la maestra e la madre di tutte le virtù, e la predica ai discepoli della verità più con l'esempio che con le parole.
Perciò Paolo, rivolgendosi ai Tessalonicesi, quasi dimenticando la grandezza della sua dignità di apostolo, dice: «Ci siamo fatti bambini in mezzo a voi» (1 Ts 2, 7 volgata). Così l'apostolo Pietro raccomanda: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» e ammonisce che nell'insegnare vanno osservate certe regole, e soggiunge: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, e con una retta coscienza» (1 Pt 3, 15-16).
Quando poi Paolo dice al suo discepolo: «Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità» (Tt 2, 15), non chiede un atteggiamento autoritario, ma piuttosto l'autorità della vita vissuta. Si insegna infatti con autorità, quando prima si fa e poi si dice. Si sottrae credibilità all'insegnamento, quando la coscienza impaccia la lingua. Perciò è assai raccomandabile la santità della vita che accredita veramente chi parla molto più dell'elevatezza del discorso. Anche del Signore è scritto: «Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7, 29). Egli solo parlò con vera autorità in modo tanto singolare ed eminente, perché non commise mai, per debolezza, nessuna azione malvagia. Ebbe dalla potenza della divinità ciò che diede a noi attraverso l'innocenza della sua umanità.
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07/06/2017 09:10
 
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Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 23, 23-24; PL 76, 265-266)
La vera scienza rifugge dalla superbia

«Ascolta, Giobbe, i miei discorsi, ad ogni mia parola porgi l'orecchio» (Gb 33, 1). L'insegnamento delle persone arroganti ha questo di proprio, che esse non sanno esporre con umiltà quello che insegnano, e anche le cose giuste che conoscono, non riescono a comunicarle rettamente. Quando insegnano danno l'impressione di ritenersi molto in alto e di guardare di là assai in basso verso gli ascoltatori, ai quali sembra vogliano far giungere non tanto dei consigli, quanto dei comandi imperiosi.
Ben a ragione, dunque, il Signore dice a costoro per bocca del profeta: «Li avete guidati con crudeltà e violenza» (Ez 34, 4). Comandano con durezza e violenza coloro che si danno premura non di correggere i loro sudditi, ragionando serenamente, ma di piegarli con imposizioni e ordini perentori.
Invece la vera scienza fugge di proposito con tanta più sollecitudine il vizio dell'orgoglio, quanto più energicamente perseguita con le frecciate delle sue parole lo stesso maestro della superbia. La vera scienza si guarda dal rendere omaggio, con l'alterigia della vita a colui che vuole scacciare con i sacri discorsi dal cuore degli ascoltatori. Al contrario con le parole e con la vita si sforza d'inculcare l'umiltà, che è la maestra e la madre di tutte le virtù, e la predica ai discepoli della verità più con l'esempio che con le parole.
Perciò Paolo, rivolgendosi ai Tessalonicesi, quasi dimenticando la grandezza della sua dignità di apostolo, dice: «Ci siamo fatti bambini in mezzo a voi» (1 Ts 2, 7 volgata). Così l'apostolo Pietro raccomanda: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» e ammonisce che nell'insegnare vanno osservate certe regole, e soggiunge: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, e con una retta coscienza» (1 Pt 3, 15-16).
Quando poi Paolo dice al suo discepolo: «Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità» (Tt 2, 15), non chiede un atteggiamento autoritario, ma piuttosto l'autorità della vita vissuta. Si insegna infatti con autorità, quando prima si fa e poi si dice. Si sottrae credibilità all'insegnamento, quando la coscienza impaccia la lingua. Perciò è assai raccomandabile la santità della vita che accredita veramente chi parla molto più dell'elevatezza del discorso. Anche del Signore è scritto: «Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7, 29). Egli solo parlò con vera autorità in modo tanto singolare ed eminente, perché non commise mai, per debolezza, nessuna azione malvagia. Ebbe dalla potenza della divinità ciò che diede a noi attraverso l'innocenza della sua umanità.
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08/06/2017 08:43
 
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Dal «Commento al libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa

(Lib. 29, 2-4; PL 76, 478-480)
La Chiesa avanza come aurora che sorge

Il primo albore o aurora fa passare dalle tenebre alla luce; per questo non senza ragione con il nome di alba o aurora è designata tutta la Chiesa degli eletti. Infatti passa dalla notte dell'infedeltà alla luce della fede a somiglianza dell'aurora e dopo le tenebre si apre al giorno con lo splendore della luce superna.
Perciò ben si legge nel Cantico dei Cantici: «Chi è costei che sorge come l'aurora?» (Ct 6, 10). La santa Chiesa, che aspira ai beni della vita eterna, è chiamata aurora, perché, mentre lascia le tenebre del peccato, brilla della luce della santità.
Ma abbiamo ancora qualcosa di più profondo da considerare nella figura dell'alba e dell'aurora. L'aurora infatti o il primo mattino annunziano che è trascorsa la notte, e tuttavia non mostrano ancora tutto lo splendore del giorno; ma mentre cacciano la notte e accolgono il giorno, conservano la luce mescolata con le tenebre.
Che cosa dunque siamo in questa vita noi tutti che seguiamo la verità, se non l'aurora o l'alba? Poiché facciamo già alcune opere della luce, ma in alcune altre siamo ancora impigliati nei rimasugli delle tenebre.
Per questo il profeta dice a Dio: «Nessun vivente davanti a te è giusto» (Sal 142, 2). E ancora è scritto: «Tutti quanti manchiamo in molte cose» (Gc 3, 2).
Perciò Paolo, dopo aver detto: «La notte è avanzata», non ha affatto soggiunto: Il giorno è venuto, ma: «Il giorno è vicino» (Rm 13, 12). Chi infatti afferma che la notte è trascorsa e che il giorno non è ancora venuto mostra senza dubbio di trovarsi ancora nell'aurora, cioè dopo le tenebre e prima del sole.
La santa Chiesa degli eletti sarà in pieno giorno, quando ad essa non sarà più mescolata l'ombra del peccato. Sarà completamente giorno, quando splenderà di ardore perfetto e di luce interiore.
Perciò l'aurora viene anche presentata come una fase di transizione, quando è detto: «E hai assegnato il posto all'aurora» (Gb 38, 12). Chi viene chiamato ad occupare un nuovo posto passa da una posizione a un'altra. Ma che cos'è il posto dell'aurora, se non la perfetta chiarezza della visione eterna? Quando sarà condotta a questo luogo, l'aurora non avrà più ormai nulla delle tenebre della notte trascorsa.
Il luogo verso il quale tende l'amore è enunziato dal salmista quando dice: «L'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente, quando verrò e vedrò il volto di Dio?» (Sal 41, 2).
Verso questo luogo già conosciuto si affrettava l'aurora, lo affermava Paolo quando diceva di avere la brama di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo. E soggiungeva: «Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno» (Fil 1, 21).
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02/07/2017 08:23
 
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Dai «Discorsi» di Paolo VI, papa

(Manila, 29 novembre 1970)
Noi predichiamo Cristo a tutta la terra

«Guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16). Io sono mandato da lui, da Cristo stesso per questo. Io sono apostolo, io sono testimone. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l'amore che a ciò mi spinge. Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (cfr. Mt 16, 16). Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d'ogni creatura (cfr. Col 1, 15). È il fondamento d'ogni cosa (cfr. Col 1, 12). Egli è il Maestro dell'umanità, e il Redentore. Egli è nato, è morto, è risorto per noi. Egli è il centro della storia e del mondo. Egli è colui che ci conosce e che ci ama. Egli è il compagno e l'amico della nostra vita. Egli è l'uomo del dolore e della speranza. È colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, come noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di lui. Egli è la luce, è la verità, anzi egli è «la via, la verità, la vita» (Gv 14, 6). Egli è il pane, la fonte d'acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete, egli è il pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello. Come noi, e più di noi, egli è stato piccolo, povero, umiliato, lavoratore e paziente nella sofferenza. Per noi egli ha parlato, ha compiuto miracoli, ha fondato un regno nuovo, dove i poveri sono beati, dove la pace è principio di convivenza, dove i puri di cuore e i piangenti sono esaltati e consolati, dove quelli che aspirano alla giustizia sono rivendicati, dove i peccatori possono essere perdonati, dove tutti sono fratelli.
Gesù Cristo: voi ne avete sentito parlare, anzi voi, la maggior parte certamente, siete già suoi, siete cristiani. Ebbene, a voi cristiani io ripeto il suo nome, a tutti io lo annunzio: Gesù Cristo è il principio e la fine; l'alfa e l'omega. Egli è il re del nuovo mondo. Egli è il segreto della storia. Egli è la chiave dei nostri destini. Egli è il mediatore, il ponte fra la terra e il cielo; egli è per antonomasia il Figlio dell'uomo, perché egli è il Figlio di Dio, eterno, infinito; è il Figlio di Maria, la benedetta fra tutte le donne, sua madre nella carne, madre nostra nella partecipazione allo Spirito del Corpo mistico.
Gesù Cristo! Ricordate: questo è il nostro perenne annunzio, è la voce che noi facciamo risuonare per tutta la terra, e per tutti i secoli dei secoli.
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